Con la fine della guerra l’agricoltura friulana stava vivendo una situazione statica anche per la conduzione familiare che la caratterizzava. Era formata, in gran parte, da piccole unità produttive. Secondo le statistiche di quel periodo, la sola agricoltura occupava più della metà delle forze lavorative. In quel periodo erano emigrati più di centocinquantamila friulani, circa un terzo della popolazione. Il Friuli era allora un Friul dulà ch’a no plòvin pì nencia àgrimis, “Friuli dove non piovono più neanche lacrime”, come scriveva Pier Paolo Pasolini nel suo “De loinh”, quando le condizioni di vita della maggior parte della popolazione erano molto dure.
Ai tempi della mia infanzia trascorsa nella Bassa friulana, la maggior parte dei campi vicino al mio paese d’origine era di proprietà di un conte. I contadini erano assoggettati al contratto agricolo di colonìa col patto di dividerne i prodotti agricoli in natura. I campi erano coltivati a frumento, girasole, granoturco, erba medica e filari di viti per la produzione del vino.
I momenti più belli della vita contadina coincidevano con i periodi della mietitura e della raccolta del frumento e del granoturco: la seseladure e il cjapâ su blave. Per quelle occasioni la nonna preparava una sporta contenente panini con frittata alle erbe, salame, formaggio e qualche uovo sodo. Poi, in un grande cesto di vimini, metteva il pentolone contenente il minestrone d’orzo e fagioli, l’acqua fresca, un fiasco di vino, posate, piatti e bicchieri. Io ero addetto a portar da bere ai lavoranti. Durante la sosta per il pranzo si faceva il picnic nei campi, seduti a cerchio sull’erba, all’ombra di un gelso.
Il gelso era un albero importante non solo perché ci riparava dal sole durante le pause, ma serviva per la raccolta delle sue foglie. Quell’albero era diventato così comune per la sua importanza che la parola friulana morâr, che originariamente significava “gelso”, era passata a indicare l’albero in senso più generico.
I gelsi erano gli alberi che caratterizzavano la campagna della Bassa e si trovavano a intervalli regolari lungo i filari delle viti che delimitavano i campi. In primavera, con la fioritura dei peschi, dei ciliegi, dei meli e dei peri, dai tronchi dei gelsi spuntavano le bacchette che mettevano le prime foglie. All’interno delle abitazioni dei contadini venivano montati i telai per l’allevamento dei bachi da seta. Nella prima fase di vita dei bachi le foglie del gelso venivano raccolte per essere finemente tritate con una trancia e adagiate sopra i piccolissimi bachi. Man mano che questi crescevano, le foglie aumentavano di pezzatura.
Nella casa dei miei nonni c’erano telai pieni di bachi dappertutto, anche nel focolare. Emanavano l’odore delle foglie del gelso misto a quello delle minuscole feci. Col calar della sera, nel silenzio che regnava tutt’intorno, si poteva percepire un tenue ronzio provocato da quel continuo rosicchiare di foglie. Era un rumore leggero che rilassava e mi faceva addormentare, seduto con la testa inclinata in avanti, sopra le braccia raccolte e appoggiate sul tavolo del focolare. Con la crescita dei bachi avveniva la filatura e la formazione dei bozzoli che si vendevano all’essiccatoio.
L’allevamento del baco da seta era un’attività abbastanza redditizia, che permetteva di arrotondare i guadagni derivati dai raccolti. Ma soprattutto era un’attività che dava la possibilità di realizzare un po’ di denaro contante.
(Dal libro IL MIO VIAGGIO Mezzo secolo di ricordi, di Sergio Virginio, disponibile online)
INFORMAZIONI
Sergio Virginio
Associazione DLF Udine
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