LA FORESTIERA

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Nei miei lontani ricordi dei racconti di mio nonno, ora che sono nonno e bisnonno pure io da un pezzo, riaffiora la leggenda di una donna misteriosa. Non si sa come sia arrivata a Zoldo; qualcuno disse di averla vista soffermarsi presso le cucine operaie delle miniere di Arsiera per chiedere una zuppa calda, altri l’hanno vista a pregare nella chiesa di San Martino nell’Ospizio del Canale in attesa di una assistenza da parte dei religiosi del posto. Comunque sia, arrivò a Forno di Zoldo come una chiocciola e trovò posto e ospitalità in una tiepida stalla.

Era una donna di età indefinibile, alta, magra, ossuta e dalle occhiaie incavate, con voce dolce che non stonava affatto nella sua parlata della bassa pianura.

Vestiva miseramente: zoccoli chiusi al piede, gonna nera con sopra uno sbiadito grembiule verde stretto all’esile vita, fazzoletto e ampio scialle nero dalle lunghe frange cadenti sulla fronte e sulle scarne spalle, pettorina bruna e camicia di rozza canapa giallastra, una gerla in spalla e un sacco in mano, rigonfio di oggetti che sembravano mele per le rotonde protuberanze che si delineavano sulla tela, tutto ciò costituiva il suo corredo.

Tra la popolazione del luogo, ormai decimata dalla peste, dove la fede e la tradizione erano il conforto dello spirito, questa donna si dimostrò assai utile: era buona, modesta, servizievole e sapeva fare tante cose. Insegnò bene ad intrecciare canestri, con i rami di salice che crescevano lungo le rive del fiume, guarì le scottature dei chiodaioli, con impiastri ben combinati di resine ed emollienti, curò le mucche e i cavalli dai loro mali, usando decotti d’assenzio ed altri farmaci, distillando complicati succhi di erbe e di bacche.

La gente era quanto mai povera, la miseria era entrata in quasi tutte le case, scarsi erano gli alimenti di prima necessità. Il frumento e il sale provenivano dalle basse pianure, però mancavano i mezzi per poterli comperare, quantunque la provvidenza esisteva anche allora e quindi assistette in larga misura anche la povera donna.

Come si disse, non era cattiva, tuttavia i bambini avevano di lei una paura tremenda e quando si avvicinava alle case, per lavori o per dare buoni consigli, scappavano o si aggrappavano alle ampie gonne delle mamme o delle nonne.

La donna, di cui nessuno seppe mai il vero nome, ricevette poi in uso due stanze in una casa abbandonata e circondata da un vasto orto pieno di ortiche e piante inutili. Con il suo ingegno seppe mettere ordine in tutte le cose: arredò semplicemente il suo nido, così come fece altrettanto con l’orto, rendendolo coltivabile e fertile.

Un bel giorno, vuotò il misterioso sacco di tela ed apparvero allora agli occhi attoniti delle comari, che corsero a curiosare, dei frutti gibbosi che stranamente somigliavano alle cosiddette “mele di ruggine”, ma che, a differenza di queste, presentavano sulla buccia dei germogli variamente colorati, come se spuntassero dei vermetti; inoltre, mancavano di picciolo.
Rimasero di stucco le donne, quando videro la forestiera sezionare a spicchi le presunte mele, seguendo la linea dei germogli, e più ancora incredule quando la videro sotterrarli. Malignamente le curiose commentarono: forse per questo autunno cresceranno delle belle piante di melo e ne farà una ampia raccolta.

Più avanti comparvero delle verdi pianticelle che si svilupparono e a cui spuntarono dei teneri fiori, con corolla a forma di ruota dalle sfumature giallo-biancastre e celesti. I bambini allora avrebbero voluti coglierli di nascosto, magari per donarli alla Madonna di Pieve, ma la forestiera disse loro di attendere, che ben degnamente avrebbero potuto portare in omaggio i frutti.

Arrivò settembre: la forestiera si munì di zappa e cominciò a scavare con cautela il terreno e alla fine ricavò tre gerle ricolme di quegli stessi frutti gibbosi: erano le patate! Le ripose sopra il pavimento del suo abitacolo, ne cucinò subito una pentola e, quando tutto fu preparato, invitò a tavola le maliziose vicine che, passata la diffidenza, quantunque sempre un po’ titubanti, assaporarono il frutto ancora sconosciuto.

Si sparse subito la voce per tutta la vallata e da allora la forestiera ebbe il suo periodo di celebrità. Fu visitata dalle più alte cariche del paese: Capitano, Consiglieri, Cerusico, Speziale e Maggiorenti, che scoprirono in questo frutto della terra un ricco complemento alla stentata produzione locale dei beni alimentari di consumo, che poteva benissimo supplire il frumento di importazione.
I boscaioli, minatori, carbonai e chiodaioli cominciarono da allora ad affrontare l’avvenire con più sicurezza, poiché in tempi di carestia o di guerra potevano almeno sfamarsi con le patate.

Alla forestiera venne costruita una casetta in miniatura alle pendici del colle di Pieve e in quel terreno vennero seminate nell’anno successivo le tre gerle di patate. Vi fu un trionfo di verde e di fiori, quindi una larga produzione di questo provvidenziale tubero.
La forestiera visse così qualche anno tranquilla e da allora venne chiamata la Campata. Ma un bel giorno scomparve da Forno di Zoldo, così come era venuta.

Alcuni dissero di averla incontrata presso la Cima Copada, con la sua gerla ed un sacchetto di tela pieno di oggetti tondeggianti, altri di averla vista riposare sui duri giacigli dell’Ospizio San Martino. Ma non la si rivide più a Forno di Zoldo. Fu opinione generale che quella fosse la Provvidenza nascosta sotto le sembianze di una povera donna, la Campata.
I bambini di allora, divenuti adulti, per la paura causata dalla Campata, impressionarono a loro volta i piccoli figli e così ancora fino ai giorni nostri.

Sono passati oltre quattro secoli da allora, ma anche oggi i bambini, se alla sera ritardano nel rincasare, girano al largo della casetta della Campata, che si staglia bianca sul declivio della Pieve nei pressi del pino delle croci, e la guardano con occhio dubbioso. Nella loro fantasia vedono ancora uscire quella donna allampanata e dalle occhiaie infossate, con una lucerna in mano, vagare per la campagna e controllare la sua produzione di patate.

 

 

INFORMAZIONI

Sante Mazziero, socio DLF Milano
cell. 3388060940
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