La stazione

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La piccola stazione di Marinella sul Lago mi aveva sempre dato l’idea di un quadro in movimento dove ogni cosa stava al suo posto, i fiori, le aiuole, la panchine e la figura del suo mitico capostazione, che tutti chiamavamo “il boss”, proprio in antitesi al significato della parola stessa, sembrava imprescindibile dentro quell’inquadratura.

Dalle 7.30 alle 9.00 la stazione si trasformava in una piccola piazza affollata di persone che, in attesa del proprio treno, davano vita a tutti quei gesti quotidiani che segnano l’inizio di una nuova giornata: il caffè, l’acquisto del giornale, i saluti, il chiacchierio, le inevitabili battute rivolte al boss sui ritardi dei treni, sempre e comunque con il sorriso sulle labbra. A Mario, il “boss” volevamo tutti bene, faceva parte della nostra vita, lui conosceva i nostri ritmi, i nostri ritardi e non di rado succedeva che, non vedendo tutti i suoi “abitanti” lungo il marciapiede, si informasse dell’assenza dell’uno o dell’altro e che, se non aveva ricevuto risposte, prima di disporre il segnale a via libera, desse un’occhiata sul lungo viale che portava alla stazione per vedere se qualche ritardatario fosse in arrivo.

La stazione era l’incrocio di tante vite, di tante storie e il capostazione le conosceva quasi tutte. Quella mattina di fine luglio del 1992 al mio arrivo in stazione il treno era ormai andato, il mio ritardo era stato così consistente che nemmeno il boss aveva potuto farci niente. Dopo il suo solito rimbrotto: “Giovanotto devi alzarti prima al mattino, non bisogna perdere lezioni”, mi invitò a prendere il caffè che stava preparando nel suo ufficio. Parlammo dei miei esami universitari, della scelta di fare il pendolare, pur di continuare a vivere a Marinella, scelta che lui approva con ampi cenni della testa. Il telefono di servizio interruppe la nostra conversazione. Il boss apprese che per problemi di traffico ferroviario, l’Intercity che di solito transitava alle 09.15 avrebbe effettuato una fermata straordinaria a Marinella sul Lago, per discesa viaggiatori.

Uscimmo dall’ufficio, io mi andai a sedere su una panchina e il boss, che in occasioni particolari indossava con grande orgoglio il suo cappello, armato di paletta attese che il treno si fermasse. Da una porta dell’ultima carrozza, vidi scendere una donna con una valigia. Il capotreno, dopo un cenno al “boss”, diede aria al suo fischietto e il treno ripartì. Mario guardò la donna che, ferma accanto alla sua valigia, si guardava intorno e, dopo un attimo di esitazione, gli andò incontro: “Benvenuta a Marinella” disse prendendo la valigia e cercando di nascondere il suo imbarazzo. Quella donna non apparteneva al “quadro” di tutti i giorni. “Grazie - rispose la donna - ma lei è con tutti così gentile?” Il boss la guardò senza più riuscire a nascondere il proprio imbarazzo e mentre l’invitava a seguirlo rispose che difficilmente gli capitava di vedere scendere dal treno in quella piccola stazione persone che non conosceva e che questo era il suo modo di dare il benvenuto. La donna sorrise e ringraziò rispondendo anche al mio buongiorno. “Se in questo piccolo paese siete tutti così, dovrò cominciare a pensare a un cambio di residenza… Per adesso mi dica per favore a che ora passa il treno coincidente per il capoluogo”. Mario scandì l’ora da perfetto capostazione, la donna entrò nella piccola sala d’aspetto e si sedette, dal brusio che sentivo da fuori scambiarono ancora qualche parola poi, il boss la salutò mente lei tirava fuori dalla sua borsa un taccuino e una penna.

“Pensa a quante storie viaggiano sulle rotaie, storie felici, disperate, di attesa, di dubbi, di gente che ritorna, di gente che se ne va” disse Mario guardandomi, ma quasi parlando con se stesso. Anche il treno che doveva prendere la donna aveva un ritardo notevole. Il boss la informò subito. Lei, distogliendo lo sguardo dal suo taccuino rispose: “Spesso i ritardi dei treni ci consegnano uno spazio di tempo non previsto e dentro quegli spazi capita di trovarci pensieri e situazioni che le nostre corse occultano, sia benvenuto questo ritardo che mi regala un po’ di quel tempo che non avrei trovato, ne approfitteremo per bere un buon caffè, magari insieme a quel ragazzo che credo sia un suo conoscente”. Andammo al bar di fronte, bevemmo il caffè e, da buon padrone di casa, il boss non permise alla donna di pagare. Tornammo in stazione, lei riprese a scrivere, io e Mario ci sedemmo fuori nella panchina, nella sua espressione si leggeva chiaramente l’interesse che quella donna gli aveva suscitato.

Con ben 45 minuti di ritardo il treno arrivò a Marinella, per me non era più il caso di prenderlo, la lezione era saltata. La donna uscì dalla sala d’aspetto, Mario le disse che quello non era il treno che doveva prendere lei, la donna annui e rispose: “Lo so, ma ho deciso di tornare indietro”. Ci diede la mano, salì, e mentre Mario chiudeva la porta lei gli disse: “Ho lasciato un biglietto sul tavolo della sala d’attesa” e senza aggiungere altro si avvio verso il corridoio. Il boss riuscì a dire solo “buon viaggio”, chiuse la porta e guardò il treno allontanarsi senza mai perdere di vista l’entrata della sala d’aspetto, lì c’era un biglietto che l’aspettava.

Si precipitò dentro, mentre io lo guardavo, quasi incuriosito come lui. Uscì con quel biglietto in mano guardando la coda del treno che ormai si stava perdendo all’orizzonte. Lesse e poi guardandomi e porgendomi il biglietto mi disse: “Ho sempre amato un poeta brasiliano, Vinicio De Moraes, che ha scritto un motto che da sempre ho fatto mio: LA VITA, AMICO, E’ L’ARTE DELL’INCONTRO. Ecco caro ragazzo, ricordatelo, ogni incontro, a prescindere dalla durata, dall’intensità produce un’emozione, se abbiamo la capacità di leggerlo. Riportamelo appena letto, oggi hai perso una lezione all’università, ma hai guadagnato una piccola storia di sentimenti infiniti”.

“Ci sono momenti nella vita in cui nessun orgoglio deve vietarci di tornare indietro. Questa fermata a Marinella non era certamente prevista nel mio viaggio. A volte si parte per lasciarci dietro storie e situazioni che i dispiaceri di un periodo non ci permettono di leggere bene, spesso la rabbia annebbia i pensieri. Questa sosta nella sua stazione mi ha dato un tempo che non mi ero concessa per pensare un po’ di più. La vostra gentilezza mi ha calmato l’anima e schiarito una storia, facendomi capire che dentro l’assoluto ci sono muri invalicabili, che dentro il perdono c’è il mare della serenità. Grazie e buona vita”. Sentii un’emozione leggera, dolce, invadere i miei pensieri, mi avviai verso l’ufficio di Mario e non potei far a meno di pensare che oggi avevo assistito ad una bella lezione.

Erano anni che non tornavo più a Marinella, il tempo dell’università è un ricordo ingiallito, il lavoro mi ha portato a vivere molto lontano da qui e, vent’anni dopo quel giorno, eccomi qua. Del “boss” ho perso le tracce e della mia stazione ormai non resta più niente, tutto chiuso, abbandonato, la mia panchina trascurata. Ci sono le macchinette self service, quelle obliteratrici e c’è la porta serrata dell’ufficio movimento. I marciapiedi invasi di erbacce hanno sostituito quel mondo che sapeva di fiori curati, di aiuole, di un capostazione che era un amico. Niente, non resta più niente, sento solo una voce fredda, senza le umane imperfezioni della voce di Mario che annuncia l’arrivo di un treno. Oggi, la stazione di Marinella sul Lago è un quadro ingiallito che perso tutti i suoi dettagli.

La stazione, di Gioachino Marsala

 

INFORMAZIONI

Gioachino Marsala

Associazione DLF Torino
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