Su un lato del cortile del Palazzo Ducale di Venezia una bocca di leone riporta incisa sul marmo la scritta: “Denontie secrete per via d'inquisizione contra cada una persona con l'impunita secreteza et benefitii giusto alle leggi”.
Siamo al primo atto dell’opera “la Gioconda” di Amilcare Ponchielli intitolato "la Bocca del leone". Compare un personaggio, Barnaba che, fingendosi cantastorie, nascosto dietro ad una colonna spia Gioconda che conduce in chiesa la madre non vedente (la Cieca). L'uomo è innamorato di Gioconda, ma, dopo l'ennesimo rifiuto di lei, medita di vendicarsi sulla Cieca. Barnaba è, in realtà, un informatore, ma non uno qualsiasi, bensì, del Consiglio dei Dieci. "Sono il possente demone del Consiglio dei Dieci" confida a Enzo (apre il suo mantello e la giubba e mostra sul giustacuore ad Enzo queste lettere in argento: C X). Enzo, apparentemente un marinaio dalmata, in realtà è un principe genovese proscritto da Venezia, che fugge inorridito dopo la rivelazione di Barnaba. Nell’opera vediamo Barnaba, in veste d’informatore, entrare in azione durante il monologo "O monumento" mentre detta allo scrivano Isépo una denuncia indirizzata "Al capo occulto dell'inquisizione" e la inserisce poi nella Bocca del leone, cantando "O monumento! Apri le tue latèbre, spalanca la tua fauce di tenèbre, s'anco il sangue giungesse a soffocarla! Io son l'orecchio e tu la bocca: parla, appunto!", mentre Gioconda, nascosta dietro ad una colonna con la madre, ode le accuse che Barnaba esplicita ed osserva la delazione.
Il Consiglio dei Dieci, che tanto sgomento suscitava, era uno dei massimi organi di governo della Serenissima Repubblica di Venezia. Nato come organo straordinario e temporaneo, finì per diventare stabile. Fin dalla sua nascita, (datata 10 luglio 1310) alla caduta della Repubblica (12 maggio 1797) il Consiglio dei Dieci esercitò, infatti, un grandissimo potere politico e giudiziario. Veniva eletto ogni anno dal Maggior Consiglio per sorvegliare sulla sicurezza dello Stato ed era composto da dieci membri. A questi si aggiungevano il Doge e i sei Consiglieri Ducali, che presiedevano la ristretta assemblea. I membri del Consiglio non potevano essere eletti per due volte consecutive e non potevano sedervi contemporaneamente due membri della stessa famiglia. A tre Capi del Consiglio dei Dieci, scelti a turno tra i dieci membri titolari, era affidato il compito di guidare le attività del Consiglio, sovrintendere alle attività di polizia e istruire le cause; duravano in carica - in tale funzione, scaglionati tra loro - un mese, durante il quale era fatto loro divieto di uscire liberamente al di fuori del Palazzo Ducale e fare vita mondana. Le indagini erano condotte sulla base delle informazioni fornite dai Capi di Sestiere, dagli informatori del Consiglio stesso e dalle denunce segrete raccolte nelle “Boche de Leon” disseminate per la città e all'interno dello stesso Palazzo Ducale: le denunce anonime erano verificate con particolare cura, prima di istruire un processo. Il nome di “bocche” deriva dal fatto che tali contenitori avevano l'aspetto di fauci di leone spalancate, al disopra della dicitura del tipo di denunce che erano destinate a raccogliere (il leone di San Marco era, infatti, l’animale simbolo dello Stato veneziano e della città di Venezia.
Il sistema vigente nella Serenissima era squisitamente poliziesco, incoraggiava massicciamente la delazione come dovere di tutti e partecipazione, in primo luogo, alla lotta contro i nemici della Repubblica. Così si sfruttavano ampiamente le "segnalazioni" da qualunque parte giungessero. La denuncia cosiddetta "orizzontale", cioè quella in cui accusatore e accusato erano dello stesso livello sociale, costituiva indubbiamente la mole maggiore delle delazioni. Dietro di esse vi erano le più varie motivazioni, da quelle scaturite da semplice invidia nell’arte o professione, alla gelosia, alle contese familiari, ecc. Le denunce, anonime o no, erano uno strumento indiretto per la risoluzione dei conflitti privati. Contro persone di ceto sociale superiore, invece, la denuncia era una specie di “arma del debole contro i potenti”, che danneggiava, però, solo individui privi di protezione.
Il giudizio dei Dieci era inappellabile e il Consiglio disponeva di un illimitato potere di vita e di morte. Dal dibattimento era escluso chiunque, compreso l'imputato stesso, e la discussione avveniva sulla sola base della documentazione raccolta. Possiamo immaginare lo stato d’animo dei malcapitati.
Riflettendo, ci sovviene alla mente il protagonista kafkiano, Josef K. Ricordiamo l’incipit del Processo: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato”. Così Franz Kafka ci narra della vicenda umana e giudiziaria del protagonista de "Il Processo". Josef K., procuratore di una grande banca, la mattina del suo trentesimo compleanno riceve la visita di due uomini sconosciuti che gli comunicano che è in arresto. Gli viene anche comunicato che è iniziato a suo carico un processo. A Josef K. non viene fornita alcuna indicazione circa il crimine per cui sta venendo processato. Un tranquillo impiegato di banca che si trova improvvisamente accusato di un reato misterioso, per una colpa che ignora. Non conosce l’accusa (e non fa niente per venirne a conoscenza). Kafka ci presenta gli avvenimenti come se si trattasse di eventi del tutto normali.
Certamente, ciò che accade a Joseph K. può accadere a chiunque egli pensa. Quanto accaduto al personaggio, narrato con rara maestria da Kafka nel “Processo” sembra una storia paradossale, ma, come visto poc’anzi, è simile a quella prassi quotidiana che ha caratterizzato, per lunghi secoli, il clima sociale della Serenissima Repubblica di Venezia. Josef. K. tenta in tutti i modi di conoscere chi è l’Autorità che giudica gli uomini e tenta di conoscere i giudici che indagano sugli uomini e scopre che essi sono venali e corrotti, pur tuttavia potenti e implacabili. E alla fine non riesce nemmeno a sapere quale è la sua colpa e la sua accusa. Subisce solo la condanna che viene effettuata nel modo più ignobile possibile perché avviene senza un vero processo dove lui avrebbe potuto, perlomeno, difendersi, e perché avviene in un luogo anonimo e desolato dove, infine, viene ucciso da sicari rozzi e ignoranti. Subisce la pena capitale senza sapere niente dei suoi giudici, senza capire qual è la logica che lo condanna a morte e senza sapere qual’è l’Autorità che lo uccide.
Ma torniamo a Venezia. Ai tempi della Serenissima, con tale procedura erano frequenti le condanne al bando o alla relegazione, ma anche le condanne capitali. Quest’ultime prevedevano l’impiccagione, l’annegamento notturno nelle acque della laguna e la decapitazione. Quest’ultimo tipo di esecuzione riguardò una delle figure più in vista di Venezia, Marin Falier, Doge in carica, decapitato in un luogo dal forte valore simbolico, la Scala dei Giganti, dove i Dogi erano usualmente incoronati.
Uno storico riporta che “Faliero, con alcuni altri, stabilì di venire ad un colpo decisivo, fissò il giorno 15 aprile 1355 allo scopo di levare a rumore il popolo, uccidere i nobili, e gridare il Faliero assoluto signore di Venezia. Volle il destino però che un Beltrame, pellicciajo Bergamasco, ed un Marco Negro, ambidue congiurati, sentendo pietà d’alcuni patrizi loro patroni, li pregassero nella vigilia del giorno fatale a non uscire di casa, ed interrogati, svelassero a poco a poco ai medesimi la trama. Ne fu tosto avvertito il Consiglio dei Dieci, che ordinò un generale armamento della città, fece venir truppe da Chioggia, e seppe operare con tale sollecitudine e destrezza d’aver in mano i principali capi dei faziosi, alcuni dei quali vennero appesi alle forche, altri banditi. Il complotto, al quale avevano aderito in molti, venne sventato dal procuratore Nicolò Lion. Tutta la città era in subbuglio: gli esponenti della oligarchia occuparono Piazza San Marco con le armi: i cospiratori furono arrestati, interrogati, condannati a morte e giustiziati davanti al Palazzo Ducale il 15 aprile 1355”.
Era avvenuto che lo stesso doge, denunciato dai suoi complici, era stato arrestato e tradotto davanti al tribunale dei Dieci. Egli confessò tutto e fu condannato a morte all'unanimità, cosa che avvenne nel citato anno 1355, sulla grande scalinata del palazzo. Marin Falier fu decapitato sul pianerottolo della sala ove i dogi solevano giurare osservanza alle leggi della patria. “Colà tratto, senza ducali ornamenti, ma in nera vesticciuola, confessò, dicesi, ad alta voce il proprio delitto e morì chiedendo perdono al popolo affollato”. Allora, come racconta qualche cronaca, “preso da uno dei capi del Consiglio dei Dieci, al popolo riunito in Piazzetta di fronte al Palazzo Ducale, fu mostrato lo spadone insanguinato del boia ("Vardé tuti! L'è stà fata giustizia del traditor!"). Il di lui corpo ebbe sepoltura ai SS. Giovanni e Paolo nella cappella della Madonna della Pace”.
Questo episodio suscitò notevole emozione in tutta la penisola: la famiglia Falier, infatti, era una fra le più antiche di Venezia. Produsse tre dogi, il primo Vitale nel 1084, il secondo Ordelafo, figliuolo di Vitale, nel 1102, ed il terzo Marino nel 1354. Questi era figliuolo di Iacopo, e dopo varie cariche con lustro sostenute venne incoronato nel 1354”.
In realtà, secondo autorevoli fonti storiche, le ragioni furono molto più profonde. Anzitutto, era il periodo in cui ai governi comunali si venivano a sostituire le signorie, sicché non è improbabile che il Falier progettasse un governo di questo tipo anche a Venezia. A ciò si aggiungeva un clima di generale malessere tra le classi popolari e mercantili, estenuate dalla crisi economica e sociale che era accentuata dalla guerra contro la Repubblica di Genova. Altre fonti ancora, invece, sostengono che Falier fu a sua volta vittima di una congiura da parte dell'oligarchia veneziana stessa, contraria ad una sua presunta volontà di “democratizzare” la Cosa Pubblica veneziana.
Anche nella vicenda di Marin Falier emerge in modo preponderante la smisurata forza del Consiglio dei Dieci, che arrivò a condannare a morte la più alta carica della Repubblica, il Doge. Francesco Petrarca, nell’esecuzione del Doge vi vide un’inconfutabile lezione per i futuri dogi. “Impareranno, costoro, che sono le guide e non i padroni dello Stato. Che dico le guide? Unicamente gli onorati servitori della Repubblica”, scrisse in un’eloquente lettera. Nel 1820 Lord Byron scrisse una tragedia dedicata alla figura di questo doge. Dal lavoro di Byron, Casimir Delavigne elaborò a sua volta una tragedia andata in scena nel 1829, che servì da base a Gaetano Donizetti per l'opera lirica Marin Faliero (1835).
Raccogliere informazioni sulle persone e sfruttarle, in qualsiasi modo, chiaramente, non è stata un’invenzione dei Veneziani, ma una pratica antica quanto il mondo, soprattutto per i regimi dittatoriali. Le sue origini paiono molto antiche, laddove la storia diventa leggenda. Nel periodo che va dalla fondazione di Roma fino alle guerre puniche e Galliche, l'informazione veniva fornita da "exploratores" che operavano ai confini dello Stato raccogliendo notizie riguardanti la potenza, la consistenza e le intenzioni dei popoli vicini e da “delatores” che venivano utilizzati per smascherare un gran numero di reati, sia reali che fittizi. Tacito parla a più riprese, negli Annales, della figura del delator, che riferisce vastamente diffusa nel Senato di Roma, sino a Cepione Crispino, ignotus et inquies. Cepione, emblema della figura stessa del delator, denunciava Marcello per aver pronunciato discorsi offensivi contro Tiberio, addebito incontestabile, perché l'accusatore sceglieva alcuni episodi dalla vita del principe e le attribuiva all'accusato. Cepione inaugurerà una pratica che l'infamia dei tempi e l'impudenza degli uomini resero di moda. Egli infatti, povero e sconosciuto ma intrigante, riuscì a insinuarsi, attraverso questo tipo di rapporti riservati, nell'animo crudele del principe e a farsi ben presto pericolosissimo per le personalità più in vista, acquistando molto potere presso una sola persona e disprezzo da parte di tutti: diede così un esempio, grazie a cui i suoi imitatori, divenuti ricchi da poveri e temibili da insignificanti, provocarono la rovina di altri e, alla fine, anche di se stessi.
Per non parlare di Giuda Iscariota e della storia dei trenta denari, passato alla storia come il più noto delatore, l’uomo simbolo del tradimento. Ma questa è tutta un’altra storia!
INFORMAZIONI
Filippo Di Blasi, socio DLF Genova
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