Una storia vera di 75 anni fa

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Livorno, 1944 - Ricordi babbo? Arrivavano dallo "stradone" di Empoli. Cantavano a squarciagola le loro canzoni. Chiassosi e tetri, così vestiti con il completo nero, sporgenti dalle sponde dei camion che li trasportavano e tu babbo, preoccupato, mi caricavi sulle tue spalle a cavalcioni e rientravamo velocemente in casa. Era uno degli "obblighi" a cui eravamo sottoposti dal regime.

Cominciarono i bombardamenti del ponte sull'Arno a Marcignana, obiettivo militarmente ambito sia dagli alleati che dai nazisti. Per cercar scampo ci allontanammo nella campagna, da una famiglia di contadini. Ricordi babbo, con gli zii scavaste delle buche sull'aia, nelle quali metteste delle grosse conche in terracotta da bucato, che riempiste di biancheria per non farla razziare dai nazi fascisti.

Ma le incursioni aeree aumentarono e neppure lì eravamo al sicuro. Dovemmo spostarci ancora fino al Convento dei Cappuccini a San Miniato (PI) che ci ospitarono. Circa duecento persone, fra mura solide. Eravamo in undici familiari, io il più piccolo con quasi sette anni. Mi dicesti, babbo: “Qui siamo al sicuro!”

 

Molte le famiglie in quel grande androne. Con fili tesi, vecchie lenzuola e coperte, i grandi fecero delle suddivisioni che tentavano di salvaguardare “l’intimità” fra una famiglia e l'altra. Fungevano da pareti, mentre i letti, sulle grosse pietre del freddo pavimento, erano dei semplici pagliericci, dove noi bambini riuscivamo ugualmente a prendere sonno. Vicini di "stanza" c’erano i Lombardi, un’altra famiglia livornese, con la piccola Marisa di 11 anni. Non ebbe la mia stessa fortuna...

Noi bambini si giocava con quel che avevamo, cioè con quasi niente. Una corda per saltare o il gioco a nascondino. Qualsiasi altro motivo ci bastava per sorridere, tentando di non vedere i volti preoccupati di voi genitori. Eravamo anche ignari dei pericoli che avevamo sulla testa. Un gioco era anche quello di andare alle grosse finestre del nostro ricovero per sentire meglio i sibili dei proiettili di grosso calibro che passavano sopra il convento. Pochi attimi e le esplosioni in direzione del monte Albano non si facevano attendere e voi grandi, per stabilirne la distanza, contavate i secondi dopo lo scoppio della cannonata.

In strada non potevamo andare perché il Fronte Alleato, mentre respingeva i soldati nazisti sui loro passi verso le Alpi, si avvicinava paurosamente.

Nel ristretto spazio nel quale avevamo dovuto adattarci, c’era anche il problema della disponibilità dell'acqua potabile, dei servizi e dell'igiene in genere. Si mangiava qualcosa di razionato quando c’era, ma con ingegno e volontà voi grandi riuscivate a fare del pane nel forno dei Cappuccini, riunendo le poche farine che tenevate come oro.

Ricordi babbo, eri uno degli organizzatori per sopperire alle necessità di tutti i presenti e, fra l'altro, distribuivi fette di pane ricoperte di marmellata fatta con frutta di fortuna. Fra i bambini ero il primo della fila quel giorno, ma tu mi indicasti di andare fra gli ultimi. Una lezione che non ho più dimenticato. Quelle fette di pane e marmellata erano il nostro pasto, completo di dolce!

Tutte le mattine, dai primi scalini di accesso all'androne, il Padre Superiore ci forniva informazioni su ciò che avveniva all'esterno. Il 21 luglio 1944 egli ci parlò in modo diverso e con tono imperativo ci disse: “Fratelli cari, per ordine del Comando germanico di occupazione domani mattina di buon’ora dovrete riunirvi nella Duomo e nella chiesa di San Domenico. Ciò per vostra sicurezza, perché domani il fronte sarà qui a San Miniato. Dovrete lasciare le vostre case - proseguì - per essere tutti riuniti nei luoghi ordinati, senza eccezione alcuna”.

La famiglia Taviani ed altri si rifiutarono di obbedire e nella notte fuggirono dalla parte del Volterrano, incontro agli Alleati. Con loro c’erano i bambini della mia età, Paolo e Vittorio Taviani, divenuti poi i famosi registi del cinema. Da qui il film La notte di San Lorenzo”. Furono previdenti e più fortunati di noi.

Tu babbo, insieme a tutti i famigliari e moltissimi altri sventurati decideste di entrare in chiesa, nonostante che la sentinella tedesca messa di guardia con mitraglietta sul portone d'ingresso, ti invitasse stranamente e in modo deciso a non entrare per pericolo di esplosioni all'interno... Entrammo. “Babbo perché ci hanno mandati tutti quanti nel Duomo? Mi avevi detto che al convento eravamo al sicuro”. Non ebbe una risposta immediata da darmi. Vidi però sul suo volto molta preoccupazione e un velo di rabbia trattenuta per la forzata violenza che ci stavano facendo.
Ora so cosa provava un animo antifascista e antinazista, un uomo libero di idee, costretto ad ubbidire ad ideali non suoi.

“Mettetevi seduti su questa panca”, disse a me e a mia madre. Lei, in attesa del secondogenito, si spostava a fatica e respirava male. Il Duomo, pieno come non mai di persone di età, sesso e religione diversi, ci vedeva accomunati dallo stesso silenzio, dallo stesso volto impaurito e pieno di interrogativi.
Il Vescovo, Mons. Ugo Giubbi, ebbe parole di conforto per tutti i presenti. Ci invitò a fare la comunione, ma le ostie sacre erano insufficienti, perciò consigliò di fare a pezzettini i pani che avevamo con noi e dividerceli. Poi ci salutò con parole di fede affinché superassimo con serenità il passaggio del Fronte e se ne andò nel rifugio personale dell'Episcopio, per officiare la sua Messa in privato. Ci lasciò smarriti e impauriti.
Di seguito le sentinelle chiusero, sbarrandoli, i portoni. Ora eravamo tutti dentro senza possibilità di uscita.

Caro Hans, soldato della Wermacht, ti chiamerò così. Ti rivedo ventenne o giù di lì, quel 22 luglio 1944. Avevi la divisa estiva perfetta, il tenebroso elmetto e tenevi sul petto la mitraglietta. Stavi di guardia alla porta principale del Duomo di San Miniato e controllavi l’ingresso lento e incerto dei malcapitati che forzatamente dovettero entrarvi. Quando toccò a me e ai miei genitori facesti un passetto avanti. “Non entrare - ci dicesti - dentro bum bum”. Ma noi entrammo perché altri parenti erano già dentro. Io avevo anche un gattino in braccio.
Caro Hans, chi vedesti in noi? I tuoi fratelli, i tuoi genitori? Con quel gesto che non prendemmo in considerazione tu tentasti di salvarci. Ma gli altri? Tutti gli altri? Tu sapevi cosa sarebbe successo di lì a poco, però non andasti oltre. Se tu avessi osato di più avresti salvato tante vite. Invece chiudesti il portone e noi rimanemmo tutti dentro in attesa.

Il Preposto della Duomo, Don Guido Rossi, iniziò ad officiare la S. Messa. Lo vedo ancora, corporatura robusta, abito talare tradizionale nero con i bottoncini in senso verticale sul davanti e grandi tasche laterali sui fianchi.
Leggeva i brani, ma fra uno e l'altro si asciugava la fronte con un grosso fazzoletto bianco. Poi continuando la lettura ad intervalli regolari, ma brevi, guardava anche l'ora sul suo rotondo orologio da tasca completo di catenella. “Ma babbo - ti chiesi - che fretta ha il prete, dove deve andare?”

Erano circa le ore 10 del mattino del 22 luglio di settantacinque anni fa, quando una prima esplosione esterna mandò in frantumi i vetri colorati dei rotondi rosoni delle cappelle laterali. Ricordo i primi urli di paura e disperazione, mentre era impossibile che i grandi controllassero le urla dei bambini più piccoli. Cominciò un gran polverone di calce e di mattoni frantumati, l'aria era pesante...

Ti ricordi babbo, a quel punto dicesti a me e alla mamma di spostarci in avanti, perché c’era meno ressa, ma non potemmo arrivarci perché ci fu una forte e violenta esplosione all'interno della chiesa.

 

 

Un attimo di completo smarrimento e subito si udirono i pianti e le urla dei grandi che soffocarono anche quelle dei bambini. Piangevano i loro cari che avevano ai loro piedi, inermi, uccisi o gravemente feriti. L'onda d'urto aveva contribuito a disassare i portoni del Duomo e la forza della disperazione terminò l'opera. Furono spalancati ed entrò aria "libera", mentre con un fuggi fuggi incontrollato i malcapitati cominciarono ad uscire.

Mi ricordo babbo che, uscendo anche noi, nonostante il tentativo dello zio di ostruirmi la vista, riuscii comunque a vedere la drammatica scena dei due ragazzini: avevano circa la mia età, erano stati messi a sedere per terra, con le spalle appoggiate al muro. Si tenevano le ginocchia per sollevare le gambe dal pavimento in quanto non avevano più l'estremità degli arti inferiori. Una grossa scheggia della cannonata aveva loro tranciato le gambe all'altezza delle caviglie.
Attendevano un aiuto dai familiari, se vivi, o dai portantini volontari ed improvvisati.

Tu, babbo, ed altri vi siete messi subito all'opera e, con barelle di fortuna ricavate da porte e finestre divelte dall'esplosione, portavate i feriti all'ospedale che non era vicinissimo ed era difficilmente raggiungibile perché le strade erano quasi ostruite dalle macerie delle abitazioni fatte saltare dai nazisti, con l'aiuto dei fascisti repubblichini.
Il giorno prima erano venuti con pennello e vernice verde a disegnare una croce sulle abitazioni che dovevano essere minate. Erano i punti strategici per ostacolare il passo alle truppe alleate. Ma i fascisti fecero le croci anche su abitazioni ritenute ostili al regime. Cosicché la distruzione fu ampia. Minarono e distrussero anche la Torre di Federico II, punto di riferimento storico per la cittadina. San Miniato si ritrovò prima minata e dopo cannoneggiata dalle forze alleate. Noi eravamo lì.

Ma il mio pensiero ritornava all'interno e chiedevo al mio babbo come uscirono di lì quei bambini senza i piedi e se furono salvati. Non l'ho mai potuto sapere.

Per la fretta, come in un lago, rimasero intrisi di sangue gli oggetti personali di molti presenti, anche una bambolina di stoffa, un fiasco di vino ancora intatto, che servì poi per disinfettare.

Noi in undici familiari uscimmo illesi, solo mio nonno ebbe una piccolissima scheggia sul labbro inferiore. Il mio gattino scomparve.

Finalmente anche io e la mamma uscimmo dalla chiesa. All'esterno uno stormo di volatili che ripresero a volare ci accolse festoso. Di corsa ritornammo al convento, dove il rifugio era veramente sicuro.

Eravamo quasi tutti rientrati al riparo nel convento dei Cappuccini, meno Marisa, la mia amichetta di “appartamento”. Marisa Lombardi di Livorno non ce la fece, una grossa scheggia della granata la allontanò per sempre dalla vita, con violenza. Quella notte nessuno riuscì a dormire, perché la sua mamma continuò a chiamarla per nome a voce alta ininterrottamente fino all’alba, come per risvegliarla. Purtroppo con lei rimasero uccisi altri bambini. Ricordo Corrado 13 anni, Adriana 9, Silvana 14... All'interno della Duomo, nella cappella di destra, oggi si può vedere una lapide di marmo con tutti i nomi dei deceduti.

Duomo di San MiniatoIl giorno 23 luglio eravamo liberi, in paese c’erano soltanto militari alleati, mentre i nazisti ed i fascisti si erano dileguati in umiliante (per loro) ritirata, andando verso la linea gotica. Dietro di loro lasciarono brutti ricordi, macerie, ma più che altro lutti.

Mio padre alle stanghe di un misero carretto ad un asse a ruote alte trainava il carico dei nostri averi. Io seduto sopra le masserizie, tenevo in mano un piccolo cavallino grigio di cartapesta, che posava le zampe su una tavoletta rossa, forata davanti per poterci mettere un filo per il traino e munita di quattro piccolissime ruote di metallo. Era l’unico gioco che avevo avuto in quegli anni. Mia madre, in stato interessante, ci seguiva sopra una bicicletta con i cerchioni in legno ed i fascioni fatti con pezzi di tubo in gomma. Un lusso per quei momenti.

Ci fermammo a Palaia per la nostra prima notte libera, senza passi marziali, senza colpi o boati di armi da fuoco. Era un fienile ma si stava benissimo. Ci sembrava di sognare.

All'alba mio padre riprese a tirare il carretto. Ma in salita, al Cisternino, in prossimità ormai di Livorno, dovette arrendersi alla fatica, nonostante che spingessi anch’io e un po’ anche mia madre. Uscimmo di lì con l'aiuto di una jeep americana che passava, che ci trainò fino in cima. Avemmo così la certezza che gli aiuti sperati erano finalmente arrivati. Poi ci fu la visione di ciò che restava della città distrutta, compresa la raffineria ANIC dove il mio babbo lavorava. E arrivammo in città. Trovammo la casa occupata, ma si risolse in breve. Questo fu l’ultimo problema.

Mio padre si mise subito all'opera, come al solito, e si prodigò nelle organizzazioni democratiche di questa nostra "nuova società" per costruire e difendere la Democrazia e la Costituzione. Lo fece fino a che le sue forze vennero meno.
Mi fido ancora della mia memoria, ma in questi anni mi sono dedicato sempre alla ricerca della verità sulla strage del Duomo di San Miniato, documentandomi e leggendo relazioni, articoli, lettere, pubblicazioni, interviste, ricerche storiche, eccetera, inerenti l'argomento. Cito alcuni nomi: Dott. C. Giannattasio, Mons. Ugo Giubbi (Vescovo), T. Colonnello del Genio da combattimento Cino Cini, Indro Montanelli giornalista, relazione ANPI di Pisa, Canonico Enrico Giannoni (detto Seccavigne). E poi G. Lastraioli, C. Biscarini, P. Paoletti, L, Gianfranceschi ed altri.

Tutti hanno avuto la loro da dire. Tutti quanti esperti ed in molti casi con idee diverse. Ma la granata era tedesca o americana?

Questo è bene approfondirlo ancora, ma il problema da non dimenticare mai è l'origine della guerra. Ricordiamolo sempre, fu scatenata dai nazi fascisti per espansione territoriale oltre i propri confini, per il razzismo, per la volontà di soppressione delle libertà, della cultura libera, delle libere espressioni in genere, per la sopraffazione, la prepotenza, la mancanza assoluta di Democrazia.

Continuo a mantenere vivi i miei ricordi e a raccontarli, come hanno sempre fatto i miei genitori ed i miei parenti finché sono stati in vita!

Era il luglio 1944.

 

INFORMAZIONI

Giuliano Bagnoli

Socio DLF Livorno
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