“L’amico del popolo”, 23 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE LOVED ONE (Il caro estinto, Usa, 1965), regia di Tony Richardson, basato su un romanzo di Evelyn Waugh. Sceneggiatura: Terry Southern, Christopher Isherwood. Fotografia: Haskell Wexler. Montaggio: Hal Hashby, Antony Gibbs, Brian Smedley-Aston. Musica: John Addison. Con Rod Steiger, James Coburn, Dana Andrews, John Gielgud.

Licenziato su due piedi da uno studio cinematografico di Hollywood in cui lavorava da tempo, Sir Francis Hinsley non trova di meglio che uccidersi. Il nipote, Dennis Barlow, viene incaricato dalla colonia inglese di organizzare, per dignità di patria, un sontuoso funerale. Così egli ha modo di conoscere Emy Thanatogenos, estetista nella mastodontica e fastosa industria funeraria che va sotto il nome di "Sentieri melodiosi". Se ne innamora ma ha un rivale nella persona dell'inibito quanto abile dottor Joyboy, imbalsamatore capo. Rimasto senza quattrini, Dennis trova lavoro in un'industria collaterale, che tratta di onoranze funebri riservate agli animali domestici. Qui, mentre Emy tentenna fra i due suoi corteggiatori e chiede consiglio all'avvinazzato redattore d'una rubrica giornalistica di confidenze sentimentali, Dennis ha un'idea originale. Sfruttando le innegabili qualità scientifiche d'un adolescente genialoide, egli dispone che gli animali estinti, per mezzo di razzi casalinghi, siano spediti nello spazio. L'idea piace al prestigioso Wilbur Glenworthy, conosciuto come il "Beato reverendo", l'untuoso e sinistro proprietario di "Sentieri melodiosi" il quale, volendo utilizzare in altro modo il terreno ormai saturo del suo cimitero, non sa come sbarazzarsi delle salme. Il metterle in orbita offrirebbe vantaggi evidentissimi ed aprirebbe nuove possibilità all'industria funeraria. Quando Emy scopre che dietro alla reboante retorica del "Beato reverendo" non v'è che il cinismo d'un uomo d'affari, per di più vizioso, delusa, si uccide. Per soffocare lo scandalo sarà proprio la sua salma ad essere per prima lanciata nello spazio stellare, al posto di quella d'un famoso astronauta, il cui corpo finirà invece, alla chetichella, tra cani e gatti, nel cimitero degli animali.

“Un giovane poeta beat inglese, dopo un breve soggiorno a Hollywood finisce nell’industria funeraria americana. Descrizione grottesca del mondo americano, dal cinema ai cimiteri, dall’esercito alla stampa. Dopo la produzione tipicamente inglese di Sapore di miele e Gioventù amore e rabbia, Richardson assume una tecnica narrativa più complessa anche se meno compatta. E’ in ogni caso, questo, un film la cui satira, elaborando alla luce di un’ideologia totalmente demistificatrice i materiali della polemica superciliosa di Waugh, si avventa non tanto sulla civiltà, quanto, più a fondo, sulla società americana, sulle sue strutture, sul suo sistema di potere”.

(Alberto Abruzzese)

"Il film con qualcosa che offende chiunque": con questo slogan la MGM ha distribuito il primo lavoro americano di Richardson, forte del successo internazionale ottenuto con Tom Jones. Con l'aiuto di una serie di sceneggiatori (un po' troppi, a giudicare dalla frammentarietà del risultato), dei quali sono stati poi accreditati solo Christopher Isherwood e Terry Southern, Richardson trae dal romanzo di Evelyn Waugh una commedia nera dalle risonanze sinistre che spara cinicamente su tutto: religione e culto dei morti, televisione, mondo del cinema, perbenismo borghese, politica, esercito, consumismo, ecc. Sebbene discontinuo, il film presenta sequenze di una cattiveria esemplare e non teme di raggiungere livelli paradossali nelle sue caricature (come in tutta l'idea dei funerali spaziali, che non c'era nel romanzo). Richardson ha il merito di non mettersi sopra a nessuno (nel suo primo film statunitense demolisce i miti americani, ma non è tenero nemmeno con la madrepatria) e di non mettere nessun personaggio sopra gli altri: il protagonista è infatti un inetto perdigiorno che spaccia per suoi versi che copia da un'antologia di poesia solo per far colpo su un'ingenua e svampita imbalsamatrice, come se la amasse perdutamente, senza però battere ciglio quando poi la giovane si uccide. Il caro estinto presenta una galleria di interpreti sorprendente, tra i quali spiccano uno splendido John Gielgud nei panni dello zio da seppellire e Rod Steiger in quello di Joyboy, un maturo truccatore di cadaveri edipicamente dipendente dalla madre obesa. Tra gli altri compaiono anche Tab Hunter nel ruolo di una guida del cimitero e Liberace in quella di un venditore di bare (è la sua unica partecipazione cinematografica in cui non suona il pianoforte). Sebbene non vi sia nulla di esplicito, molti commentatori hanno intravisto in vari personaggi allusioni omosessuali, e in effetti è facile leggere in questo senso il pittore interpretato da Gielgud o l'effeminato venditore di bare di Liberace, per tacere di Joyboy, che non ha padre, è morbosamente attaccato alla madre e, benché corteggi una ragazza, difetta di machismo (cosa singolare per Steiger, che a tratti sembra una caricatura di Peter Sellers). Insomma, un "film con qualcosa di ambiguo per chiunque", che oltretutto presenta un singolare assortimento di attori gay ed è frutto anche di uno sceneggiatore gay e di un regista bisessuale, senza contare che Evelyn Waugh, prima di sposarsi, negli anni '20 era un ben noto "frequentatore" della scena gay e ai suoi amanti si ispirò per i numerosi personaggi omosessuali delle sue opere, particolarmente Brideshead Revisited (trasformata poi in una miniserie di successo nel cui cast figura ancora Gielgud).

(Mauro Giori in "Il caro estinto" - CulturaGay.it)

THE LOVED ONE (Il caro estinto, Usa, 1965), regia di Tony Richardson

 

Una poesia al giorno

Anniversario, di Ada Negri

Non chiamarmi, non dirmi nulla
Non tentare di farmi sorridere.
Oggi io sono come la belva
che si rintana per morire.
Abbassa la lampada, copri il fuoco,
che la stanza sia come una tomba.
Lascia ch’io mi rannicchi nell’angolo
con la testa sulle ginocchia.
L’ore si spengano nel silenzio.
Salga in torbide onde l’angoscia
e m’affoghi: altro non chiedo
che di perdere la conoscenza.
Ma non è dato. Quel volto,
quel riso l’ho sempre davanti.
Giorno e notte il ricordo m’è uncino
confitto nella carne viva.
Forse morire io non potrò
mai: condannata in eterno
a vegliare il mio strazio in me,
piangendo con occhi senza palpebre.

Ada Negri

 

Un fatto al giorno

23 luglio 1942: il poeta bulgaro e leader comunista Nikola Vaptsarov viene giustiziato. Nikola Vaptzarov è nato a Bansko, un paese della Bulgaria sud-occidentale, il 7 dicembre 1909 ed è caduto sotto il piombo fascista del plotone d'esecuzione il 23 luglio del 1942. Aveva dunque solo 33 anni. La sua breve vita è ricca di esperienze: studente di liceo, allievo della Scuola Nautica di Varna, operaio, macchinista di locomotive, fabbricatore di ordigni esplosivi per la lotta contro i nazisti che avevano invaso il suo paese, dirigente politico del Partito operaio bulgaro. La sua prima e unica raccolta di versi, I canti del motore (Motorni Pesni), vede la luce nel 1940. Ma come poeta era già noto almeno dal 1935 col nome di Nicola Ioncov.
Avendo preso parte all'azione per la pace all'inizio della guerra, è arrestato una prima volta nel 1941. Rilasciato per mancanza di prove a suo carico, riprende l'attività di cospiratore e dì artificiere al fianco del colonnello Zvetan Radoinov, uno dei capi della Resistenza. Il secondo arresto avviene al principio dell'anno seguente. Per quattro mesi è torturato perché denunci i compagni, ma Vaptzarov parla solo per assumere su di sé ogni responsabilità:
"Sono un antifascista, un figlio della mia Patria e odio gli invasori hitleriani: per questo faccio parte della Resistenza".
La sentenza di morte è eseguita al campo di tiro della Scuola Ufficiali nei pressi di Sofia.
Il periodo della sua maturità poetica coincide con gli ultimi sette anni della sua vita. I suoi versi persuadono per la foga dei sentimenti, per la forza morale che li sostiene. Vaptzarov è un poeta ricco di fervore giovanile, di generosa purezza. Della gioventù ha la grazia, l'acerbità, lo slancio. Anche quando gli elementi costitutivi della visione sono aspri, duri, realistici, l'onda della sua ispirazione li sommuove, li intride di sogno, di rapita emozione. Scrivendo i suoi versi egli ha sempre cercato la parola viva, parlata, l'espressione che ha radice nella lingua quotidiana, popolare. Essere conciso, naturale: scrivere col tono diretto, con la vivacità e la passione del discorso rivolto a un amico, a un compagno, a un operaio, questo è il concetto che sta alla base della sua poetica. Per queste ragioni, senza dubbio, egli deve essere considerato la voce più fresca e viva nella nuova poesia bulgara.

(Biografia tratta da "21 poeti bulgari fucilati", a cura di M. De Micheli, Milano-Roma Edizioni Avanti! 1960, Collana omnibus "Il gallo")

Un sua poesia:

FEDE (ВЯРА)

Ecco: io respiro, lavoro, vivo
e scrivo versi,
così come posso.
Io e la vita ci guardiamo rabbiosi,
di traverso e contro la vita
io lotto
sino all'estremo.

Sono in conflitto con la vita
ma tu non pensare che io la disprezzi:
anche alle soglie della morte
continuerei ad amare la vita,
le sue brutali mani d'acciaio.
Ancora l'amerei.

E se mi stringessero al collo
un nodo scorsoio,
chiedendomi se ancora per un'ora
volessi restare in vita,
io griderei senza indugio:
"Via questa corda,
o carnefici!"

Per la vita affronterei ogni prova:
volerei dentro una macchina senza collaudo,
entrerei in un razzo esplosivo
per cercare da solo nello spazio
lontani pianeti.

E anche così
sentirei un sottile fremito
vedendo com'è azzurro il cielo
lassù,
proverei l'incantevole brivido
d'essere ancora in vita,
d'esistere ancora domani.

Ma se voi mi prendete,
quanto?
un solo grano della mia fede,
allora getterò un grido,
urlerò di tormento
come pantera ferita al cuore.
Che resterebbe allora di me?

Un attimo dopo la vostra rapina
sarei distrutto,
o più esattamente, più
chiaramente,
un attimo dopo la vostra rapina
di me non resterebbe
altro che il nulla.

Voi forse volete abbattere
la mia fede nei giorni felici,
in un domani dove la vita
sarà più saggia e serena?

Ma come potrete abbatterla, dite?
Con raffiche di proiettili?
No, non i conviene tentare,
sarebbe tempo perduto.

La mia fede è difesa saldamente
dentro il mio petto
e il piombo capace
di penetrare questa corazza,
ancora non è stato trovato,
nessuno l'ha ancora scoperto!

Nikola Vaptsarov

 

Una frase al giorno

“Non mi sento per niente vecchio. Al massimo, leggermente anziano”.

(Marcello Vincenzo Domenico Mastroianni, 1924-1996, attore italiano)

 

Un brano al giorno

Ma ndo vai se la banana...” da “Polvere Di Stelle”, scritto, diretto e interpretato da Alberto Sordi con Monica Vitti, 1973.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k