“L’amico del popolo”, 24 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

A TASTE OF HONEY (Sapore di miele, Gran Bretagna, 1961), scritto e diretto da Tony Richardson, tratto dall'omonima pièce teatrale di Shelagh Delaney, adattata per il cinema dall'autrice stessa insieme al regista, che aveva già diretto la produzione teatrale. Fotografia: Walter Lassally. Musiche: John Addison.

Jo e la madre Helen, per ragioni economiche, sono costrette a fuggire dal loro appartamento di nascosto del padrone di casa. Per Jo non è una storia nuova ed anche nello squallore disadorno della nuova casa viene lasciata sola da Helen, che è andata a passare la serata col suo ultimo amico. Qualcosa però è accaduto ultimamente nella sua vita: ha incontrato Jimmy, un marinaio di colore di cui si è innamorata. Una mattina Jimmy riparte e Jo sente che non lo vedrà mai più. Non sentendosi capace di tornare dalla madre, si mette a lavorare e a questo punto nel suo mondo entra Geoffrey, anche lui uomo ramingo e omosessuale. Tra i due nasce una simpatia da cui Jo trae conforto, calore e, sotto un certo aspetto, amore. Così, quando lei si accorge di aspettare un figlio dal marinaio, è Geoffrey che si dà da fare per renderle la vita meno dura, per procurare i vestiti al nascituro e che porta ad Helen la notizia. Helen rientra nella vita di Jo e questa volta forse per darle quell'affetto di madre che le aveva sempre negato.

“Una giovane (Rita Tushingham), resa incinta da un negro (Paul Danquah) abbandona l'antipatica madre (Dora Bryan) e va a vivere, castamente, con un invertito (Murray Melvin). Un film del "free cinema" e dei "giovani arrabbiati", che offre un quadro della vita in una grande città inglese, senza mai cadere nel miserabilismo né nel populismo. Ha come centro il personaggio ingrato, e tuttavia attraente, interpretato da Rita Tushingham. Notevoli le immagini prese in ambienti naturali da Walter Lassally”.

(Georges Sadoul)

“Un gruppo di giovani registi britannici indipendenti, negli anni Cinquanta e Sessanta, si propone di fotografare il nord dell’Inghilterra, il suo paesaggio industriale congelato, i profili inquietanti delle fabbriche e la vita, le sconfitte, le tribolazioni di coloro che hanno conosciuto l’adolescenza all’ombra delle ciminiere.
Il cosiddetto Free Cinema vede schierato anche Tony Richardson, che con Sapore di miele non avrà scritto uno dei più importanti capitoli della storia del cinema, ma di sicuro è riuscito a turbarmi per un’ora e mezza di visione incredula.
La storia di Jo è tenera, misera e si porta appresso detriti e cocci rotti come l’acqua torbida del canale. Jo (Rita Tushingham) è una ragazzina goffa e poco attraente, bersaglio per le malignità delle compagne di scuola: la sua verbosità è bizzarra, provocatoria e piuttosto disinibita, sotto il suo broncio si cela un passerotto infreddolito. Il grosso problema di Jo ha un nome e quel nome è Helen (Dora Bryan): una bionda e frivola quarantenne in abiti succinti e guêpière, all’occorrenza crudele e nonostante questo madre. Madre un po’ per caso e senza slanci di affetto, madre il cui letto diventa porto di mare, madre dalla parlantina irriverente e dalle battute infelici.
Molti drink, molte sigarette e molte fughe per Helen e la figlia Jo, che vivono nelle topaie senza mai pagare l’affitto. Sono nemiche eppure complici mentre scappano dai lucernari, salgono sugli autobus e cambiano quartiere piantando bandiera in freddi casermoni dove la muffa si allarga sul muro, il letto ricorda una bara e le giornate trascorrono fra pigrizia e contrasti, tubature che perdono e tazze di caffè.
Quando Helen decide di sposare un uomo più giovane e facoltoso, Jo comprende che nella nuova vita della madre non ci sarà spazio per lei; è allora che il suo piccolo cuore devastato - come in una strana favola grigia della periferia industriale - si avvicina titubante a un marinaio. Jimmie (per Jo, “il principe Ossini”) è ciò che l’Inghilterra dell’epoca definisce “negro”, storcendo il naso: gira il paese a bordo di una nave della Manchester Lines dove svolge la mansione di cuoco, ha la pelle di carbone, un grande sorriso esotico e l’entusiasmo di un ragazzo alla prima cotta. Jo, sempre più impacciata nella divisa da scolaretta, trova in lui l’occasione per spingere lo sguardo lontano dalle sudice catapecchie dove la madre la porta a vivere, e fra i due si fa largo persino un assurdo progetto matrimoniale.
C’è qualcosa di intimo e profondo in queste scene d’amore, poiché ognuna di loro va a sfiorare le emozioni di un vissuto che inevitabilmente riguarda ogni ragazza, ogni ragazzo. C’è una deliziosa frenesia nel conoscersi e una magica tensione quando ci si incontra di proposito per strada. Sono due ragazzi che giocano con un amore sregolato, improvviso, che semina il subbuglio, prende tutto e tende a non dare nulla in cambio, fino al giorno in cui la nave salpa e riporta il marinaio ai suoi viaggi, con la promessa immancabile di fare ritorno.
Di lì a poco Helen, sempre generosa di moine eppure avara di sincera affezione, si sposa e abbandona la figlia. Nell’Inghilterra di straccioni, vicoli luridi e grandi spazi spogli nei pressi del porto, Jo trova un impiego e diventa improvvisamente grande. Pur con un sorriso infantile che tradisce la dentatura imperfetta, si affranca dal modello decadente della madre e diventa donna “per forza”.
Quando la vita le assesterà un duro colpo, Jo chiederà aiuto a Geoffrey (Murray Melvin), colui che definirà “la mia sorella maggiore”, unico faro nella sua notte. Un ragazzo dal volto spigoloso, perseguitato dal disprezzo della gente e condannato all’emarginazione per la propria omosessualità. Per Jo è il miglior compagno che il destino potesse offrire, un animo sensibile, capace di tenerezze disinteressate.
Il sapore di miele che ci lascia questo film è amaro, inusuale, ma corposo. Mentre Addison sottolinea con garbata precisione le atmosfere ricorrendo alle filastrocche popolari dei bambini (nessuno dei testi è casuale), prende forma sullo schermo un solido intreccio realizzato in base a una pièce teatrale di Shelagh Delaney.
L’Inghilterra impregnata di correnti fredde e polposa di umidità bisbiglia attraverso le scene, le campagne brulle strapazzano i piccoli personaggi. Piccoli perché giovani e sprovveduti, ma decisi a rimediare agli errori degli adulti scavalcando i pregiudizi. Jo è la donna che suo malgrado riceve la possibilità di dimostrarsi più madre della propria, Geoffrey è l’uomo impossibile che si concede al turbinio degli eventi con lealtà. Il risultato è un film del 1961, premiato a Cannes e ai Bafta (gli “Oscar” del cinema inglese), attento alle imperfezioni, custode di messaggi potenti, semplice nella sua freschezza e innovativo nell’affrontare temi come la gravidanza di una giovanissima e l’omosessualità.
Un film che ci lascia il bagliore di una scintilla e l’incombenza di ipotizzare il futuro. Poco prima dei titoli di coda ognuno di noi potrà infatti attribuire un finale a questa fiaba grigia che di romantico non ha nulla.
Eppure tutto”.

(Maria Silvia Avanzato in www.orizzontidigloria.com)

“Fra i punti programmatici del "Free cinema" inglese c'era, nel 1955, l'affermazione del significato che ha la vita d'ogni giorno. È qui, nella quotidiana fatica di vivere, che bisogna cercare i valori dell'esistenza: nella realtà che ci circonda, nei duri conflitti fra le generazioni, negli scontri tra i nostri slanci sentimentali e il mondo grigio che ci stringe. Il "Free cinema", rivendicando la funzione conoscitiva del cinema realista, corrispondeva a un'esigenza propria di alcuni giovani registi inglesi, ribelli al conformismo, al puritanesimo, all'ipocrisia di una società che cercava nel cinema d'evasione la conferma della propria vacanza morale; ma col trascorrere degli anni, e chiusa quell'importante esperienza, ora si vede che la rivolta di uomini come Tony Richardson non era dettata soltanto da propositi moralistici, bensì era sorretta da un forte sentimento poetico, più esattamente dall'ansia di capire con estrema franchezza il colore che assumono gli stati d'animo, soprattutto giovanili, quando giungono sul crinale della sofferenza: che è un momento universale dell'uomo. Sapore di miele è un bel film appunto perché, pure con qualche scoria polemica, tocca una situazione che non è più soltanto tipica dell'Inghilterra di oggi, bensì riflette un aspetto del male di vivere in cui è depositato il succo della condizione dell'uomo: la dolce-amara speranza di lenire il dolore con la tenerezza.
Ne è esempio la giovane Jo, che insieme alla madre, in una città industriale dell'Inghilterra del nord, conduce una vita grama, sempre in fuga dinanzi al padrone di casa che reclama il pagamento dell'affitto. Mentre la madre, volgare e indifferente, tenta di arrestare l'incipiente vecchiaia con gli amici, Jo, che ha diciannove anni, bruttina e sola, e perciò molto bisognosa d'amore, ha incontrato un marinaio negro, che facilmente l'ha sedotta. Ma è una consolazione di breve durata: all'indomani il marinaio riparte, per sempre, sulla sua nave, e Jo, messasi a lavorare, e andata a vivere da sola in una povera stanza, trova come compagno un giovane che è, come lei, un randagio; Geoffrey, un invertito dall'anima sensibile, che teneramente le vuol bene, l'aiuta nei lavori domestici, la riscalda con la sua comprensione e la sua amicizia: anche questo è, diremo col titolo di un altro recente film inglese, A kind of loving. Quando Jo sta per avere il bambino, Geoffrey le propone di sposarlo. Il matrimonio sarebbe la salvezza per entrambi, ma Jo non accetta: Geoffrey le è caro, e ci vive volentieri insieme, ma il cattivo esempio della madre, la mancanza di una famiglia alle spalle e la convinzione che il suo bambino nascerà morto o idiota, ne hanno fatto una donna inquieta e impaurita. Quando la madre, abbandonata dall'ultimo amante, vorrà tornare con lei, Geoffrey sarà costretto ad andarsene, e Jo precipiterà di nuovo, accanto a una donna egoista e invadente, nella solitudine. I due giovani hanno gustato per un poco il sapore della dolcezza, hanno sperato insieme: la spietatezza della vita li divide e li condanna ciascuno al proprio triste destino.
Tratto da una commedia della irlandese Shelagh Delaney già nota in Italia, il film è stato girato per la massima parte in esterni, secondo appunto i principi del "Free cinema", e ciò è valso a liberare il soggetto dal tedio che incrinava la soluzione teatrale. Trasportata fra le nebbie del porto, negli squallidi quartieri, in mezzo alla piccola società operaia, la storia di Jo e di Geoffrey ha acquistato in verità, dunque in poesia, grazie allo sforzo compiuto da Richardson per fermare e analizzare le modulazioni psicologiche dei personaggi in sintonia col paesaggio. Ma determinante è stato l'apporto degli interpreti: una Rita Tushingham di eccezionale sensibilità (quanta angoscia, stupore, ansia di affetti nello sguardo espressivo di questa debuttante), un Murray Melvin di stupenda castità in una parte difficilissima (ben a ragione l'una e l'altro sono stati premiati quest'anno a Cannes), e una Dora Bryan che ha prestato la sua grande esperienza di attrice alla figura, odiosa, della madre.
Il film non è assolutamente perfetto: qualche lentezza lo frena, e per amore di semplicità cade talvolta nei semplicismo. Ma è quanto di meglio ci sia venuto, dopo Sabato sera, domenica mattina, dal cinema inglese. Un realismo senza indulgenze e senza lacrime, per uomini spogliati d'ogni illusione, ma non per questo insensibili al conforto di una sia pur breve felicità”.

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 10 novembre 1962)

A TASTE OF HONEY (Sapore di miele, Gran Bretagna, 1961), scritto e diretto da Tony Richardson

 

Una poesia al giorno

La mia casa è annuvolata, di Nimā Yushij (nome d’arte di ‘Ali Esfandiyāri, nato a Shij in Māzandarān, nord dell’Iran, nel 1897 e morto a Teheran nel 1959. Da “Raccolta di poesie”. In “Florilegio di poeti persiani contemporanei”, a cura di Nahid Norozi)

La mia casa è annuvolata
con lei tutta la terra è annuvolata.
Dall’alto del valico abbattuto, devastato e ubriaco,
il vento imperversa.
Tutto il mondo ne è devastato,
e così pure i miei sensi.
Tu, o flautista, che la melodia del flauto ha fuorviato, dove sei?
La mia casa è annuvolata, ma
la nuvola è sul punto di piovere.
Immaginando i miei giorni luminosi, sfuggiti al mio possesso,
io sono davanti al sole,
porto il mio sguardo alla soglia del mare.
E tutto il mondo è devastato e abbattuto dal vento,
e per la via, il flautista che perenne suona il flauto, in questo mondo zeppo di nubi,
sta davanti alla sua strada.

 

Un fatto al giorno

24 luglio 1487: i cittadini di Leeuwarden, Olanda, scioperano contro il divieto di birra straniera. Il primo sciopero per la qualità della vita!

 

Una frase al giorno

“La cosa che mi preoccupa in Craxi è che certe volte mi sembra che pensi soltanto al potere per il potere”.

(Enrico Berlinguer, in Panorama, maggio 1983)

 

Un brano al giorno

A taste of honey (Bobby Scott, Ric Marlow). La canzone nacque come motivo conduttore della colonna sonora del film “Sapore di miele”, 1961, diretto da Tony Richardson.
Mc Cartney: “Era uno dei miei numeri da protagonista ad Amburgo. Era diverso dalle altre canzoni del nostro repertorio, ma era molto richiesto dal pubblico”.
In “A Taste of Honey | The Beatles - WiP Radio” si trovano la magnifica scena del film in cui appare la musica, la canzone cantata da Barbra Streisand e dai Beatles e altro ancora di molto interessante.

A taste of honey

Tasting much sweeter than wine

I dream of your first kiss and then
I feel upon my lips again
A taste of honey
A taste of honey
Tasting much sweeter than wine

I will return, yes I will return
I'll come back for the honey, and you

Yours was the kiss that awoke my heart
There lingers still though we're far apart
A taste of honey
A taste of honey
Tasting much sweeter than wine

I will return, yes I will return
I'll come back, I'll come back
For the honey, for the honey
And you

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k