“L’amico del popolo”, 17 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE PHANTOM OF THE OPERA (Il fantasma dell'Opera, USA, 1925), diretto da Rupert Julian. Sceneggiatura: Raymond L. Schrock, Elliott J. Clawson dal romanzo di di Gadton Leroux. Fotografia: Virgil G. Miller. Montaggio: Maurice Pivar, Edward Curtiss, Gilmore Walker. Musiche: Gustav Hinrichs Con: Lon Chaney (Erik, il fantasma), Mary Philbin (Christine Daae), Norman Kerry (Raoul de Chagny), Snitz Edwards (Florine Papillon), Gibson Gowland (Simon), John Sainpolis (Philippe de Chagny), Virginia Pearson (Carlotta), Edward Cecil (Faust), Arthur Edmund Carewe (Ledoux), Edith Yorke (Mama Valerius), Anton Vaverka (suggeritore), Bernard Siegel (Joseph Buguet), Olive Ann Alcorn (La Sorelli), Cesare Gravina (impresario teatrale).

Erik, grande talento musicale e voce sublime dal sembiante mostruoso, vive nascosto nei sotterranei dell'Opéra di Parigi, costretto a nascondere le sue fattezze di teschio dietro una maschera. La sua vita reclusa è tutt'uno con quella del teatro; lì vede e s'innamora di Christine, giovane soprano graziosa e inesperta. Senza svelarsi e restando al di là d'una parete, con la sola voce il mostro seduce la bella, la educa con intransigente dedizione, si 'impossessa' di lei, fa sgorgare dal suo petto la musica pura che scioglie ogni cuore. Per portarla al trionfo, non esita davanti al delitto, e uccide la soprano titolare, minaccia l'orchestra, terrorizza il pubblico; quindi rapisce Christine, la porta nei suoi territori nascosti, nell'elegante dimora sotterranea (con vista su un lago) che s'è costruito; lì mostra il suo volto inguardabile, e vede lei, che ama riamata l'ufficiale Raoul, ritrarsi inorridita. L'orrore saprà trasformarsi in pietà, non in amore. Braccato, il mostro si lascia abbattere dalla polizia.

THE PHANTOM OF THE OPERA (Il fantasma dell'Opera, USA, 1925), diretto da Rupert Julian

“Dopo il clamoroso successo del Gobbo di Notre Dame, la casa di produzione Universal ritentò il colpo, sfornando un altro kolossal che ne riproponeva gli stessi elementi vincenti: la trasposizione di un romanzo molto popolare sempre di ambientazione parigina (l’omonimo Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux), una scenografia maestosa (l’immenso Teatro dell’Opera che fu ricostruito interamente in studio!) e gli stessi protagonisti maschili (Norman Kerry chiamato ancora una volta a vestire i panni dell’eroe “buono” e il mitico Lon Chaney in quelli del “mostro” di turno); dal Gobbo venne ripresa materialmente anche la Cattedrale, che si può ammirare in una sequenza nella parte finale. La produzione ebbe comunque qualche problema: il regista Rupert Julian abbandonò il set quasi al termine delle riprese, lasciando l’incombenza di girare le scene restanti allo stesso Chaney e a Edward Sedgwick (altre vennero successivamente aggiunte da Ernst Laemmle, in occasione della riedizione sonora del film pochi anni più tardi). Nonostante ciò, il risultato finale, a parte qualche piccola pecca di sceneggiatura, rimane straordinario e regalò alla Universal l’ennesimo successo commerciale. I pochi lati negativi sono rappresentati dal tono eccessivamente comico dell’incipit e dalla costruzione non perfettamente compiuta del personaggio di Erik. Rimane, infatti, appena abbozzato il discorso sul “diverso” che aveva invece trovato compiutezza nella figura di Quasimodo. Si perdono, di conseguenza, le implicazioni romantico-drammatiche dell’innamoramento del “Fantasma” che, malgrado le premesse iniziali, viene in sostanza presentato come un pazzo omicida; scelta comunque tutt’altro che disprezzabile in termini puramente orrorifici. Passando agli aspetti positivi c’è in primis un obbligo di citazione per due scene evocative che devono essere annoverate di diritto tra le migliori della storia del Cinema muto: quella in cui Christine toglie la maschera a Erik mentre suona l’organo, rivelandone l’orrendo volto deforme, e quella (girata in Technicolor bicromatico) in cui lo stesso Erik discende la scalinata mascherato da Morte Rossa, presumibilmente la stessa dell’omonimo racconto di E. A. Poe, durante la festa in costume.
Notevolissima comunque anche la scena della caduta del lampadario, con tanto di ripresa area del pubblico in galleria che verrà imitata più volte negli anni a venire. Ciò che però rende Il Fantasma dell’Opera un classico del cinema horror, capace di ispirare anche registi moderni come Brian De Palma, Dario Argento e Sam Raimi, è l’interpretazione istrionica di Lon Chaney che ancora una volta non esitò a mettere dura prova il suo fisico per rendere credibile la deformità del suo personaggio. Usò delle strisce di materiale trasparente per tenere alzata la punta del naso (espediente che in un caso gli procurò un abbondante sanguinamento), mise sugli occhi membrane d’uovo per accentuare lo sguardo vitreo, alterò gli zigomi con del cotone e infine gli vennero incollate le orecchie alla testa. Il risultato fu così terribilmente realistico da far svenire, si racconta, diverse persone al cinema; persino la macchina da presa, nella fatidica scena della rivelazione del volto, sembra quasi atterrita di fronte a quello spettacolo andando fuori fuoco per qualche istante. Altro punto di forza sono le tetre scenografie dei sotterranei del Teatro e del nascondiglio del Fantasma, piene di trabocchetti e passaggi segreti, che anticipano la lunga stagione del gotico cinematografico che farà la fortuna della Universal prima e della Hammer molto più tardi. Strepitose anche le musiche”.

(In Principio era il Male: Il Fantasma dell'Opera. 1925)

THE PHANTOM OF THE OPERA (Il fantasma dell'Opera, USA, 1925), diretto da Rupert Julian

“Forse ci si può dolere solo del fatto che Rupert Julian, come del resto tutti gli altri registi che ricavarono film dal libro di Gaston Leroux, non abbia ritenuto opportuno assegnare uno spazio, anche breve, alle "ore rosee di Mazenderan". Leroux era un brioso giornalista parigino, gran viaggiatore e autentico avventuriero, che si era parodicamente autoritratto nel personaggio di Rouletabille, grasso globetrotter indagatore di 'casi' in bilico tra l'umorismo, il romanzo poliziesco e quello di spionaggio. Leroux era nato nel 1868 e morì nel 1927; la parte nel romanzo assegnata al Persiano, che racconta le "ore rosee di Mazenderan", è riferibile al culto per l'Orientalismo e al gusto esotista, ben presenti nei suoi coetanei pittori, musicisti, illustratori. Secondo un'ipotesi accreditata, sembra che la prima idea del suo Fantôme sia nata in Leroux da una specie di leggenda metropolitana che parlava di un laghetto e di una casetta di legno nascosti proprio in fondo ai sotterranei dell'immenso palazzo dell'Opéra. Ma Rupert Julian è estremamente fedele proprio all'essenza recondita del racconto di Leroux. Ecco dunque la particolare atmosfera visiva di quella Parigi dei passages descritti da Walter Benjamin, nei quali camminava anche il giovane Ferdinand in Mort à credit: è la Parigi dei baffuti e barbuti signori che ammirano Jules Verne e a volte anche lo imitano, è la Parigi brillante delle Grandi Esposizioni, capitale di una gioia di vivere che trova se stessa nel can can, nelle luci, negli amori facili e frequenti, nelle delizie di tanti salotti che diventeranno poi componenti della piccola madeleine di Marcel Proust. Si beve champagne, si ride, si ama con scanzonata promiscuità, si crea una moda che tutti imitano nel mondo, si insegna a dipingere come gli impressionisti e si fanno nascere innumerevoli impressionismi nazionali.

Ma non c'è solo questo. La sconfitta di Sedan brucia ancora, Émile Zola denuncia l'orrore dell'antisemitismo, il professor Charcot sviluppa nuove idee sulle malattie mentali di cui si imbeve un suo allievo viennese di nome Sigmund Freud. È la Parigi dei 'fantasmi', come scriverà un nostro grande francesista, Giovanni Macchia. E Rupert Julian riesce, magicamente, inimitabilmente, a raggiungere proprio le viscere, le tetre budella di quest'altra città, dove, come scendendo per gironi infernali, si può trovare Erik, maschera orripilante che cela un viso orrido, da non vedersi mai. Di doni ne ha avuti tanti, Erik, è un geniale musicista che compone un Don Giovanni trionfante, perché, pur nascondendo sotto una maschera le disgustose fattezze di un viso che Lon Chaney ha reso emblema struggente dell'abiezione, il Fantasma ama e desidera, vuole il piacere, brama la bellezza di Christine Daae. Alla giovane e bella cantante ha fatto anche da maestro: l'ha resa bravissima dandole speciali lezioni senza farsi vedere, stando dietro un muro. Poi Christine raggiunge Erik passando per uno specchio, proprio come Alice.

Ma lei ama Raoul de Chagny, prova solo orrore per il mostro. E, del resto, Rupert Julian lo ha reso coerente monarca di un Altrove assoluto, un regno del male dove Piranesi si lega a M. C. Escher e Max Ernst a Gustave Moreau. "Una volta mi chiamavano Erik, ora sono una leggenda senza nome" dice il Fantasma e poi appare nel Grande Ballo in Maschera, dimensione immaginativa resa da Rupert Julian con tetra e perentoria possanza. Qui, come se spremesse, dal testo di Leroux, umori e misteri che in esso sono solo nascosti, Erik proclama che lì, sotto i piedi di chi danza, tanti sono morti tra inverosimili torture. Così, non il Fantasma di Leroux, ma proprio quello di Rupert Julian diventa una delle tremende, grandi icone del Novecento. Se osserviamo la truce bellezza visionaria che trapela dall'ombra dell'impiccato Joseph Buguet, un macchinista ucciso da Erik perché "sapeva troppo", se scrutiamo l'altro mondo 'di sotto', dove si può condurre un cavallo e avanzare in battello nel dedalo di canali, se analizziamo il contrasto tra il sopra, con i baffuti e comici proprietari, e il sotto, con Erik e il suo organo che suona inneggiando alla morte, se guardiamo alla folla che fa a pezzi il Fantasma e lo butta nella Senna, allora possiamo dire che questo è proprio il Novecento.

Esclusione, tortura, segregazione, terrore programmato, dignità negata, violenza totalizzante, odio, bassezza: tutto questo sta dentro l'Opéra. Il ventre del Tempio, la parte oscura del monumento alla lirica, l'odio sotterrato dove impera il piacere, e Christine Daae che proprio non può amare Erik, perché la gratitudine, qui, non trasfigura e non migliora nessuno. Non c'è dubbio che Gaston Leroux abbia ideato una grande trama, e sia da porsi fra quei pochi che hanno creato un personaggio simbolo che dura nel tempo. È vero anche, però, che senza la speciale lettura di Rupert Julian, senza la consequenziale efferatezza di Lon Chaney, il fantasma di Gaston sarebbe forse rimasto prigioniero di un limitato numero di amatori.

Un'altra leggenda metropolitana dice che Hitler, nel suo breve viaggio a Parigi dopo la vittoria del 1940, si fece portare nel palco numero cinque dell'Opéra, bussò su una parete, attese un poco.”

(Antonio Faeti, Enciclopedia del Cinema, 2004. Treccani)

Il 17 gennaio 1867 nasce Carl Laemmle, German, produttore cinematografico americano, co-fondatore degli Universal Studios (morto nel 1939).

THE PHANTOM OF THE OPERA (Il fantasma dell'Opera, USA, 1925), diretto da Rupert Julian

 

Una poesia al giorno

Anne Brontë, autrice e poetessa inglese (1820 - 1849)Della speranza, di Anne Brontë.

Della speranza mi hanno derubata
che l’anima gelosa custodiva;
dell’adorata voce mi han privata
che l’orecchio con tanta gioia udiva.

E non potrò vedere più il tuo viso
né provar la delizia che mi dava
l’angelica virtù del tuo sorriso,
il tuo bene che tanto consolava.

Ma di tutto mi possono privare
e d’un tesoro la padrona sono:
un cuore che di te vuole sognare
e del tuo cuore sente ancora il dono.

Il 17 gennaio 1820 nasce Anne Brontë, autrice e poetessa inglese (morta nel 1849)

 

Un fatto al giorno

17 gennaio 1799: il patriota maltese Dun Mikiel Xerri, insieme a numerosi altri patrioti, viene giustiziato. Dun Mikiel Xerri fu uno dei leader della rivolta maltese contro l'occupazione francese del 1798 e per la quale il patriota fu ucciso per esecuzione. Al personaggio del sacerdote ribelle Mikiel Xerri s'ispirano i romanzi: Nazju Ellul (1909) di Guzè Muscat Azzopardi, That Thiet Saltniet (1938) di Guzè Aquilina, Angli Tau-Niket (1938) di Gino Muscat.

17 gennaio 1799: il patriota maltese Dun Mikiel Xerri, insieme a numerosi altri patrioti, viene giustiziato

Immagini:

 

Una frase al giorno

“Una volta nel gregge, è inutile che abbai: scodinzola!”

(Anton Pavlovich Chekhov, Taganrog, 29 gennaio 1860 - Badenweiler, 15 luglio 1904)

Anton Chekhov è stato drammaturgo e scrittore di racconti russo, considerato tra i più grandi scrittori di narrativa breve della storia. La sua carriera di drammaturgo ha prodotto quattro classici e i suoi migliori racconti sono tenuti in grande considerazione da scrittori e critici.

Opera Checov, di Mariuccia Roccotelli, 270×90 acrilico

Il 17 gennaio 1904 “The Cherry Orchard”, di Anton Chekhov, viene rappresentato per la prima volta al Moscow Art Theatre.

Regia: Mario Ferrero. Musiche: Roman Vlad

Personaggi e interpreti:
Ljubov Andréevna: Andreina Pagnani
Gaev Leonid Andréevic: Tino Carraro
Lopachin: Gastone Moschin
Dunjasa: Angela Cardile
Epichodov Pantaléevic: Enrico Ostermann
Firs: Franco Sportelli
Anja: Lorenza Biella
Varja: Anna Miserocchi
Charlotte: Irene Aloisi
Simeonov Piscik: Mario Carotenuto
Jasa: Umberto Ceriani
Trofimov: Renato De Carmine
Forestiero: Piero Nuti
Capostazione: Roberto Pescara
Impiegato postale: Antonio La Rajna.

 

Un brano musicale al giorno

Antonio Veracini: Sonata da camera, No.3 Op.2 

Rüdiger Lotter, violino
Olga Watts, clavicembalo

[00:00] I. Cantabile
[01:43] II. Vivace
[02:50] III. Largo
[04:28] IV. Aria: Largo
[07:12] V. Vivace

Antonio Veracini (Firenze, 17 gennaio 1659 - Firenze, 26 ottobre 1733)

17 gennaio 1659 nasce Antonio Veracini, violinista e compositore italiano.

Antonio Veracini (Firenze, 17 gennaio 1659 - Firenze, 26 ottobre 1733) probabilmente intraprese gli studi musicali col padre Francesco. Dopo vari contatti con la corte medicea attraverso il padre, protetto dal granduca Ferdinando II, nel 1682 entrò al servizio della granduchessa Vittoria e vi rimase fino alla morte di questa, nel 1694. Alla morte di Pietro Sammartini, nell'anno 1700 divenne maestro di cappella della chiesa di S. Michele a Firenze. Egli riceveva commissioni di musica sacra da altre chiese fiorentine e di oratori da parte della compagnia di S. Marco, S. Jacopo del Nicchio, e di S. Niccolò del Ceppo. Parallelamente, insegnava nella scuola privata fondata e diretta dal padre, e dal 1708 ne prese il posto come direttore. Sono documentati tre suoi viaggi: 2 furono in direzione di Roma (1699), dove probabilmente incontrò Arcangelo Corelli, mentre un terzo (1720) fu alla volta di Vienna, ma sappiamo con certezza che egli si trovava a Firenze ogni Pasqua dal 1685 al 1733, come si evince dagli elenchi parrocchiali. Fu celebrato virtuoso del violino ed insegnante del nipote Francesco Maria, insieme al quale tenne numerosi concerti con grande successo.”

(Wikipedia)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k