“L’amico del popolo”, 20 giugno 2019

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DIE PUPPE (La bambola di carne, Germania, 1919), regia di Ernst Lubitsch. Prodotto da Paul Davidson. Soggetto tratto dalla novella di E.T.A. Hoffmann e dall'operetta: “La poupée” di Edmond Audran, Maurice Ordonneau, Alfred Maria Willner. Sceneggiatura: Hanns Kräly, Ernst Lubitsch. Fotografia: Theodor Sparkuhl, Kurt Waschneck.
Cast: Ossi Oswalda as Ossi / The Doll, Victor Janson as Hilarius, Hermann Thimig as Lancelot, Max Kronert as Baron of Chanterelle. Marga Kohler as Wife of Hilarius. Gerhard Ritterband as The Apprentice. Jakob Tiedtke as The Abbot.

Lancelot, nipote del barone Chanterelle, è un ragazzo timido che non ha mai avuto rapporti con le ragazze. Tanto da rifiutare le proposte di nozze dello zio, che cerca delle candidate per il nipote. Lancelot, per sfuggire allo stuolo di ragazze che arrivano per contendersi la sua mano, si rifugia in un monastero, dov'è sicuro di non trovare alcuna donna. I monaci gli propongono un trucco per liberarsi dell'ingerenza dello zio (che gli darà comunque una ricchissima dote al momento del matrimonio): quello di sposarsi con uno degli automi di Hilarius, un costruttore di bambole. Lancelot, sollevato, accetta e va a scegliere la bambola. L'automa, però, si rompe e Ossi, la figlia di Hilarius, ragazza vivace e piena di verve, prende il posto della bambola, fingendo di essere lei l'automa. Le nozze hanno luogo e l'ignaro Lancelot si trova a essere sposato con una ragazza vera. Quando lo scoprirà, però, ormai il giovane è innamorato della sua "bambola" e, anche se sorpreso, sarà felice di avere una moglie vera.

DIE PUPPE (La bambola di carne, Germania, 1919), regia di Ernst Lubitsch 

“Ammetto che è quanto meno strano iniziare il capitolo tedesco con un film come La Bambola di carne (altra traduzione per me orrenda), ma sicuramente questa breve pellicola rappresenta un passo non da poco nella storia del cinema. Con questo film ci troviamo forse davanti all’invenzione dell’espressionismo comico, con l’uso di movenze e situazioni che ritroveremo nell’arco di tutta la storia del cinema (alcune gestualità e movenze ricordano quelle che vedremo anche nei nostrati Totò e Ciccio e Franco tanto per dirne due). Del resto Lubitsch ha sempre dimostrato, in particolare nei suoi film sonori, la sua predilezione per il genere arguto e le frecciatine maliziose. Come non ricordare Ninotchka, “il film dove Greta Garbo ride”?

Le vicende narrate in Die Puppe si ispirano liberamente a una novella di E.T.A. Hoffmann, che ha dato vita anche al balletto comico Coppélia o La ragazza dagli occhi di smalto, rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1870.
Lancelot (l’austriaco Hermann Thimig), nipote del Barone di Chanterelle (Max Kronert), gravemente malato, non vuole proprio saperne di sposarsi, e quando si vede davanti alla porta 40 vergini che aspettano solo che lui decida chi di loro portare all’altare fugge dalla finestra e si rifugia, al termine di uno spassosissimo inseguimento, in un piccolo monastero. Qui degli uomini di chiesa non proprio ligi al digiuno e poco ansiosi di sopportare privazioni, vengono a sapere la cifra della dote che verrà assegnata a Lancelot qualora decidesse di maritarsi: 300.000 Franchi! Allettati da questa grande somma, i monaci offrono una scappatoia al nostro eroe: egli dovrà sposare una bambola dalle fattezze umane, invenzione di tal Hilarius (Victor Janson), e poi consegnare la ricca dote proprio al monastero in cambio della dritta. Questa bambola è del tutto uguale alla vera figlia dell’inventore, Ossi (Ossi Oswalda, attrice dalla straordinaria capacità espressiva, che non sopravviverà all’arrivo del sonoro e morirà in povertà all’età di 48 anni). Quando Lancelot si reca da Hilarius, succede però qualcosa di imprevisto. Il suo giovane apprendista (Gerhard Ritterband) urta inavvertitamente la bambola, rompendole un braccio. Per evitare una strigliata, la vera Ossi prende il posto della Puppe, e viene così consegnata a Lancelot, che corre a corte per ufficializzare il proprio matrimonio. Qui si susseguono numerose gag tra il principe, ignaro della sostituzione, e la finta bambola. Quando il nostro Lancillotto riceve la dote, corre dai suoi amici monaci a consegnare il bottino e rinchiudere la povera Ossi in un ripostiglio (avendo ormai esaurito la sua funzione). Ma la ragazza non ci sta e scappa nella camera del suo promesso sposo. Lancelot, nonostante sia ancora convinto che Ossi sia una bambola, inizia ad innamorarsi del suo modo di fare estroso e, addormentatosi (in una scena molto bella), la sogna. Viene svegliato di soprassalto proprio dalla sua amata che lo bacia e rivela la sua reale identità. Nel mentre a casa Hilarius è stato scoperto l’inganno e all’inventore sono venuti letteralmente i capelli bianchi per lo stress (oltre che una grave forma di sonnambulismo notturno). Nel tentativo di mettere a posto le cose, Hilarius corre alla ricerca della figlia e dopo aver viaggiato in sella ad alcuni palloncini (l’atterraggio sarà invece poco morbido per colpa del solito apprendista dispettoso). Una volta caduto a terra ritroverà la sua Ossi mano nella mano con Lancelot. Tutto è stato già chiarito e i due annunciano ad Hilarius la propria intenzione di sposarsi. Ora al creatore di bambole possono tornare finalmente tutti i capelli neri...

Film divertente, che colpisce per la sua semplice spontaneità. A volte questa sua genuinità stordisce, e viene da ridere proprio vedendo le scene ai limiti dell’assurdo che vengono a crearsi. Di grande comicità gli inseguimenti e i bisticci tra Hilarius e il suo apprendista, così come i giochi di sguardi ed espressioni tra Ossi e Lancelot. Con tanta ironia e anche una leggera vena anticlericale, Lubistch ci stupisce con questo piccolo gioiello di comicità pura. Una fiaba divertente che ripercorre le fobie maschili distruggendole a furia di siparietti comici. La breve durata contribuisce poi a rendere gradevole che altrimenti risentirebbe troppo del tempo passato. Sicuramente la bambola di carne ci può dare un’idea di quello che è stato l’inizio di alcuni motivi comici. Ottima interpretazione di Ossi Oswalda, e grande capacità del regista nel caratterizzare i personaggi (questi strappano un sorriso anche solo al primo sguardo). Film davvero consigliato, quanto meno per quello che ci ha lasciato in eredità.”

(Articolo in: emutofu.com)

DIE PUPPE (La bambola di carne, Germania, 1919), regia di Ernst Lubitsch 

“Ernst Lubitsch trae da una scatola degli oggetti, con i quali dispone uno scenario in miniatura: una casa, un prato, alcuni alberi. Vi colloca anche i pupazzi di un uomo e una donna. Lancelot, l'uomo, appare ora in carne e ossa. Nipote del facoltoso e moribondo barone di Chanterelle, ne diverrà anche l'erede, al patto di contrarre un matrimonio. Ma il giovane è terrorizzato dall'altro sesso, da cui è perseguitato in ragione dell'eredità. Perciò scappa e cerca rifugio in un monastero, dove i prelati crapuloni gli suggeriscono una soluzione: l'acquisto di una bambola che faccia le veci di coniuge agli occhi del mondo. A tale scopo, Lancelot si reca da Hilarius, sopraffino fabbricante di bambole meccaniche; tra queste, la più perfetta ha le sembianze di Ossi, la figlia di Hilarius. Lancelot intende acquistare questa bambola, ma il maldestro aiutante di Hilarius la rompe giocando. Per risparmiare al ragazzo la punizione, Ossi si finge l'automa. Ne consegue una catena di equivoci, destinati a concludersi con l'unione della coppia e la guarigione dello zio.

Die Puppe occupa una posizione chiave nella produzione tedesca di Ernst Lubitsch, collocato tra le brevi farse della serie con protagonista Meyer, e i racconti più ambiziosi e complessi del primo dopoguerra, da Madame Dubarry (Madame Du Barry, 1919) a Die Flamme (La fiamma, 1922). La tradizione storiografica più nota ha stigmatizzato le prime, valutandole "piuttosto grossolane" (L. Eisner), così come i secondi, per "l'illusoria miscela di realismo convenzionale e di presuntuosa psicologia" (S. Kracauer). In verità, entrambi i modelli produttivi dimostrano un'eccezionale capacità di penetrazione, sui mercati interni gli uni, e internazionali gli altri. Quanto a Die Puppe, in un testo retrospettivo scritto a quasi trent'anni di distanza Lubitsch ne parlava come di "un successo da ogni punto di vista, alla pari di Die Austernprinzessin (La principessa delle ostriche, 1919)". Entrambi i film rivelano la matura sapienza spettacolare del loro regista, che si manifesta tra l'altro nella consapevolezza con cui gestisce lo spazio e gli interpreti, nell'integrazione dell'azione in ambientazioni significative, e nel ritmo narrativo, a cui contribuiva lo sceneggiatore Hanns Kräly, collaboratore di Lubitsch fino alla fine degli anni Venti.

Il racconto si apre con una sequenza riflessiva, nella quale lo stesso cineasta predispone l'universo di finzione in cui si svolgerà il racconto. Questo anche in seguito manifesta caratteri di evidentissima artificiosità: agli oggetti reali si sostituiscono i loro disegni a due dimensioni; all'uso metaforico delle espressioni della lingua verbale corrispondono delle trasformazioni reali nell'immagine; i pupazzi mutano in personaggi in carne e ossa, ma continuano a recare cuori di carta appuntati al petto... Da più parti si è voluto vedere in questa spregiudicatezza nei confronti della verosimiglianza rappresentativa un indizio dei rapporti non dichiarati di Lubitsch con l'espressionismo cinematografico: a sostenere tale esegesi, anche l'impiego di alcuni temi ricorrenti in quella corrente (l'inventore, l'automa). In maniera particolare, la critica francese ha parlato di "espressionismo comico", nel quale "la pesantezza diviene leggerezza, lo schematismo arabesco" (J. Domarchi). Indubbiamente, il film si distingue per il rutilante aspetto figurativo, proprio anche all'impiego frequente di mascherini dalle fogge inusuali, spesso a discapito del realismo. Nondimeno, bisogna notare altri elementi, necessari a collocare nella giusta prospettiva Die Puppe: in primo luogo, sin dai primi anni Dieci la produzione tedesca ricorre a elementi metacinematografici, e in senso più ampio metatestuali, in maniera analoga alle cinematografie francese e italiana - d'altro canto, sempre nel 1919 Lubitsch diresse Meine Frau, die Filmschauspielerin (Mia moglie, l'attrice cinematografica); inoltre, i motivi della creazione, dell'automa e del Doppio allignano nella tradizione letteraria tedesca ottocentesca, ben prima dell'avvento dell'espressionismo. L'impiego di scenografie bidimensionali, invece, pare essere debitore di un modello di spettacolo cinematografico assai diverso da quello successivamente maggioritario, incentrato sulla verosimiglianza e l'assorbimento dello spettatore nell'universo diegetico. Infatti, in questi stessi anni il cineasta adatta per lo schermo mondi altrettanto fantastici e spesso imparentati con il teatro di Max Reinhardt: è il caso della pantomima Sumurun (1920), grande successo del celebre regista teatrale, o del racconto fantastico Die Bergkatze (Lo scoiattolo, 1921), le cui stravaganti scenografie sono opera di Ernst Stern, abituale collaboratore dello stesso Reinhardt.

Ossi Oswalda, attrice tedesca del cinema muto (2 gennaio 1897, Niederschönhausen, Berlino, Germania - 7 marzo 1947, Praga, Repubblica Ceca)Il contributo degli attori va inquadrato nei modelli performativi diffusi nel contesto culturale e spettacolare tedesco, tra anni Dieci e Venti, e non può essere dischiuso con il passe-partout dell'espressionismo. Ossi Oswalda fu la diva prediletta di Lubitsch, che non ebbe più collaborazioni altrettanto durature e prolifiche neppure nel più lungo soggiorno hollywoodiano. In Die Puppe l'attrice alterna atteggiamenti meccanici ad altri naturali; ma gli uni e gli altri vanno considerati alla luce dell'influenza che la pantomima e la danza avevano sugli interpreti cinematografici tedeschi, costretti al mutismo dalle limitazioni tecnologiche e pertanto non pienamente assimilati dalla cultura nazionale agli istrioni delle scene. L'ulteriore aspetto da sottolineare nell'impiego degli attori è il bozzettismo, l'inclinazione di Lubitsch per la resa grottesca dei personaggi: la sequenza del convento è emblematica, e preannuncia analoghe figurazioni in Anna Boleyn (Anna Bolena, 1920). Il riferimento ricorrente alla sessualità e alla sua conquista, poi, è e resterà una costante dell'intera opera del regista berlinese: "Il fascino malizioso di Lubitsch, ecco ciò che faceva di lui un vero principe", ha scritto François Truffaut. Il complesso di questi aspetti rappresentativi suggerisce una consistente distanza di Die Puppe dai successivi e più celebri film hollywoodiani, fondati in prevalenza sull'ellissi e sulla figura retorica della litote. Infatti, la produzione tedesca di Lubitsch, e questo film in maniera particolare, si fondano sul gusto per l'esibizione smaccata dell'artificio, sul piacere del confronto diretto tra spettacolo e spettatore, sulla ironica rivelazione della materia delle illusioni.”

(Francesco Pitassio - Enciclopedia del Cinema, 2004)

 

Una poesia al giorno

Les roses de Saadi, di Marceline Desbordes-Valmore

J'ai voulu ce matin te rapporter des roses ;
Mais j'en avais tant pris dans mes ceintures closes
Que les noeuds trop serrés n'ont pu les contenir.

Les noeuds ont éclaté. Les roses envolées
Dans le vent, à la mer s'en sont toutes allées.
Elles ont suivi l'eau pour ne plus revenir ;

La vague en a paru rouge et comme enflammée.
Ce soir, ma robe encore en est tout embaumée...
Respires-en sur moi l'odorant souvenir.

Le rose di Saadi

Volevo portarti delle rose questa mattina
ma ne avevo raccolte così tante nel mio corsetto
che i nodi troppo stretti non hanno potuto contenerle.

I nodi sono esplosi. Le rose sono volate via
nel vento e al mare sono tutte arrivate..
Hanno seguito l’acqua per non tornare più;

l'onda è apparsa rossa, come in fiamme.
Stasera il mio vestito ancora ne è profumato.
Respirane su di me l'odoroso ricordo.

Ledru Hilaire – Ritratto di Marceline Desbordes-Valmore 

Marceline Desbordes-Valmore (Douai, 20 giugno 1786 - Parigi, 23 luglio 1859) poetessa, scrittrice e attrice teatrale francese.

Nata Marceline Desbordes è la figlia di un pittore di stemmi, divenuto cabarettista a Douai dopo essere stato rovinato dalla Rivoluzione. Alla fine del 1801, Marceline e sua madre partono per la Guadalupa, dopo un soggiorno a Rochefort e a Bordeaux, dove Marceline fa l'attrice. Nel maggio del 1802 la madre di Marceline muore di Febbre gialla e nel settembre dello stesso anno Marceline, di ritorno alla metropoli, recita in teatro a Lilla e a Douai. Attrice e cantante (chanteuse), si esibisce particolarmente all'Opéra-Comique e al Théâtre de la Monnaie a Bruxelles, dove veste i panni di Rosina ne Il barbiere di Siviglia di Beaumarchais. Nel corso della sua carriera teatrale recita sovente nel ruolo della donna ingenua. Ella è protagonista in più drammi di Pigault-Lebrun, incontra Talma, che ammira, Marie Dorval e soprattutto Mademoiselle Mars, che sarà la sua amica fino alla fine dei suoi giorni.
Nel 1816 Marceline perde un figlio di cinque anni di età, nato dalla relazione con un commediante, che chiama Olivier nelle sue poesie. Si sposa nel 1817 con un attore, Prosper Lanchantin, detto Valmore. Da lui avrà tre bambini, di cui uno solo Hippolyte Valmore, le sopravviverà. Nel 1819 pubblica la sua prima raccolta di poesie, Élégies, Marie et Romances. In seguito le sue opere più importanti saranno nel 1824 Élégies et poésies nouvelles, nel 1833 Pleurs, nel 1839 Pauvres fleurs e nel 1843 Bouquets et prières, tutte opere in cui traspaiono con concisione il lirismo e la arditezza della versificazione, che le faranno avere una pensione reale sotto Luigi-Filippo e diversi riconoscimenti accademici. Marceline compone anche delle novelle e dei racconti per bambini, in prosa e in versi.

Marceline Desbordes-Valmore (Douai, 20 giugno 1786 - Parigi, 23 luglio 1859) poetessa, scrittrice e attrice teatrale franceseLa sua istruzione limitata è compensata dal suo grande lavoro di autodidatta. Honoré de Balzac, che ammirava sinceramente il suo talento e la spontaneità dei suoi versi, descrivendoli: «delicati accostamenti di sonorità dolci e armoniosi che evocano la vita della gente semplice» scriveva nell'aprile del 1834 parlando di lei: «(...) Marceline ha pertanto conservato il ricordo di un cuore che sente pienamente riecheggiare, lei e le sue parole, lei e le sue poesie, giacché siamo dello stesso paese, Signora, del paese delle lacrime e della miseria. [...]»

Marceline è considerata anche una poetessa che ha giocato un ruolo maggiore nell'evoluzione della scrittura di Paul Verlaine (che le avrebbe dedicato un profilo critico nella seconda edizione, datata 1888, dei suoi Poeti maledetti), il quale dichiara: «Proclamiamo ad alta e intelligibile voce che Marceline Desbordes-Valmore è senz'altro [...] la sola donna di genio e di talento di questo secolo e di tutti i secoli [...]»
Gli piace il fatto d'avere introdotto delle forme nuove:
«[...] Marceline Desbordes-Valmore ha, prima fra i poeti attuali, impiegato molto felicemente dei ritmi inusitati, quello di undici piedi fra gli altri [...]»

Il suo personaggio romantico di autodidatta la cui vita sfortunata avrebbe alimentato una sensibilità femminile non è molto estraneo a questo successo. Charles Baudelaire s'interessa più alla persona che ai versi quando afferma: «Mme Desbordes-Valmore fu donna, fu sempre donna e non fu nient'altro che donna; ma ebbe un grado straordinario di espressione poetica intrisa di tutte le bellezze naturali della donna.»

... seguito di questo da tutta una tradizione fino al XX secolo.
Prima per data fra i poeti del romanticismo, una delle più grandi poetesse francesi dopo Louise Labé, Marceline Desbordes-Valmore, a dispetto di una prolissità discontinua, è in realtà una precorritrice inattesa dei maestri della poesia francese moderna: Rimbaud e soprattutto Verlaine. Si deve a lui l'invenzione di più di un ritmo: quello di undici sillabe e la genesi di Romances sans paroles.
Considerata ignorante dai contemporanei, in realtà fu una sapiente misconosciuta. In più, lei fu la madrina indiscussa delle «muse» della fine del secolo: Anna de Noailles, Gérard d'Houville, Renée Vivien, Cécile Sauvage, Marie Noël. La sua importanza non fa che crescere con il tempo: resta ancora da scoprire.

Una delle sue poesie, Les roses de Saadi, è oggetto di canzonatura da parte di BD nell'opera umoristica di Marcel Gotlib, La Rubrique-à-brac. Questa poesia è anche stata messa in musica da un gruppo di rock alternativo francese,"les Hurleurs", nel loro album Bazar del 2000.”

(Articolo completo in: it.wikipedia.org)

 

 

Un fatto al giorno

20 giugno 1945: il Segretario di Stato degli Stati Uniti approva il trasferimento di Wernher von Braun e del suo team di scienziati missilistici nazisti negli Stati Uniti sotto l'operazione Paperclip.

“Operazione Paperclip”: nome in codice di quella particolare operazione avviata dall’Office of Strategic Services e continuata dalla Central Intelligence Agency, svoltasi nella seconda metà del XX secolo e finalizzata allo sfruttamento intensivo del know-how nazista.
Appena finita la Seconda guerra mondiale, Stalin si infuriò con i suoi servizi di sicurezza, accusandoli di non esser stati in grado di catturare neppure uno dei massimi esperti tedeschi in questioni di missilistica, essendo questi tutti finiti dalla parte degli americani. La strada verso la creazione di due blocchi mondiali contrapposti, tanto ideologicamente quanto militarmente, sembrava ormai esser irreversibile. Due mondi in totale antitesi; ogni piccolo vantaggio strategico sull’avversario si sarebbe potuto rivelare decisivo. Proprio per questo motivo, gli Usa cercarono di ottenere il massimo vantaggio possibile in termini di armamenti, e questo significò anche arruolare ex scienziati del Reich, la cui superiorità tecnologica in diversi settori era disarmante.
Per raggiungere tale obiettivo, gli Stati Uniti progettarono un’operazione segreta, dapprima denominata “Overcast” e successivamente “Paperclip”, finalizzata ad accaparrarsi i migliori cervelli tedeschi disponibili sulla piazza. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, e per oltre trent’anni, l’America importò all’interno dei propri confini almeno 1600 specialisti tedeschi da impiegare in vari ambiti di ricerca. Una parte cospicua di questi era stata membro del Partito nazista, o comunque aveva ricoperto importanti cariche al suo interno. Sebbene la non appartenenza certificata al regime e il non essersi macchiati di crimini di guerra fossero stati dichiarati prerequisiti inderogabili per poter prender parte al programma “Paperclip”, nei fatti, in più di un’occasione, questi criteri furono ampiamente disattesi.

I partecipanti al progetto Paperclip

L’alleanza del Pentagono con i nazisti.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale, lo stato maggiore degli Stati Uniti dà vita all'operazione Paperclip all'insaputa del Presidente Roosevelt. In pochi anni, quasi 1500 scienziati nazisti sono esfiltrati e reclutati per lottare contro l'URSS comunista. Continuano soprattutto delle ricerche sulle armi chimiche, sull'uso dei psicotropi nella tortura, e sulla conquista spaziale. Lungi dal collocarli in posti subalterni, il Pentagono affida loro la direzione di questi programmi che essi segnano con la loro impronta ideologica.
Non appena terminata la seconda guerra mondiale sul teatro europeo, gli Stati Uniti e l'URSS entrano in rivalità. La loro priorità diventa quella di saccheggiare il più rapidamente il nemico vinto, il III Reich. Le conoscenze tecnologiche sviluppate dagli scienziati tedeschi suscita le loro cupidigie benché siano il frutto di uno sfruttamento di una manodopera schiavizzata tratta dai campi di concentramento.
Una parte dello stato maggiore statunitense, sbalordito da ciò che i suoi uomini scoprono a Dachau, Auschwitz, Dora, ordina di raccogliere il maggior numero di prove possibili in vista di un processo dei dirigenti nazisti. Altri ufficiali dello stato maggiore considerano al contrario che questi criminali formano un personale insostituibile che conviene porre al servizio della potenza degli Stati Uniti. Un'operazione militare di recupero degli scienziati tedeschi che hanno lavorato per il III Reich è dunque organizzata dal Pentagono. Chiamata "operazione Paperclip" (Operazione graffetta), essa è affidata alla Joint Intelligence Objectives Agency (JIOA), che raggruppava allora l'insieme dei servizi di informazione militari statunitense. Come spiegherà più tardi il suo direttore Bosquet Wev, "il governo si preoccupava di 'banalità'- i dossier dei nazisti- invece di privilegiare 'l'interesse' degli Stati Uniti, e sprecava le sue forze inutilmente nel voler colpire un cavallo nazista morto..."

(Traduzione di Ario Libert. Articolo completo in: storiasoppressa.over-blog.it)

Immagini

 

Una frase al giorno

"Abbiamo riso molto insieme. Era un divertimento, per quanto grandi fossero le difficoltà del lavoro."

(Elisabeth Hauptmann, 20 giugno 1897, Peckelsheim, Vestfalia, Impero tedesco - 20 aprile 1973, Berlino Est. Scrittrice tedesca che ha lavorato con il commediografo e regista tedesco Bertolt Brecht)

Brecht (Germania, Australia, Repubblica ceca, 2019). Regia di Heinrich Breloer

Elisabeth Hauptmann ci offre la possibilità di riaffrontare il problema Bertold Brecht con questo articolo: “Siamo noi i mendicanti di Brecht”, di Michele Cometa in ricerca.repubblica.it

Elisabeth Hauptmann, 20 giugno 1897, Peckelsheim, Vestfalia, Impero tedesco - 20 aprile 1973, Berlino Est

 

Un brano musicale al giorno

Joseph Martin Kraus (1756-1792) - Concerto per violino in do maggiore, VB 151 (2nd Version, 1783)

00:00 I. Allegro moderato
13:10 II. Adagio
19:53 III. Rondo: Allegretto

Violino: Edith Peinemann, Stuttgarter Kammerorchester / Martin Sieghart

Joseph Martin Kraus, soprannominato il Mozart di Odenwald (Miltenberg, 20 giugno 1756 - Stoccolma, 15 dicembre 1792)

Joseph Martin Kraus, soprannominato il Mozart di Odenwald (Miltenberg, 20 giugno 1756 - Stoccolma, 15 dicembre 1792), è stato un compositore tedesco, esponente del Classicismo.

"Fu maestro di cappella alla corte del re di Svezia Gustavo III e direttore della Kungliga Musikaliska Akademien, l'Accademia Reale Svedese della Musica.
Figlio di un impiegato dello Stato elettorale di Magonza, Joseph Bernhard Kraus, e di Anna Dorothea nata Schmidt, si distinse fin dall'infanzia per il suo talento musicale, che il rettore della scuola di latino di Buchen Georg Pfister (1730–1807) e il Kantor Bernhard Franz Wendler (1702-1782) provvidero a sviluppare. Nel 1761 la famiglia si trasferì per breve tempo a Osterburken (Odenwald), dove il padre passò a svolgere mansioni di esattore. Nel 1768 Joseph Martin Kraus andò a Mannheim, dove frequentò il ginnasio dei Gesuiti e il Musikseminar. Qui, in particolare grazie a padre Alexander Keck (1724-1804) e Anton Klein (1748-1810), ricevette una buona istruzione musicale.
All'inizio del 1773 Kraus - assecondando la volontà di suo padre - cominciò a studiare legge a Magonza. Sempre in quell'anno si trasferì a Erfurt per proseguire ivi gli studi, ma nel frattempo si occupava alacremente anche di musica. Nel novembre del 1775 dovette interrompere gli studi per un anno perché il padre era finito sotto processo per calunnia. In quel periodo scrisse Tolon, una tragedia in tre atti, e compose opere di musica sacra (un Requiem, un Te Deum, due Oratori, La nascita di Gesù e La morte di Gesù, e un Mottetto Fracto Demum Sacramento).
Dopo quell'anno di pausa, Kraus riprese gli studi di diritto presso l'Università di Gottinga. Vicino al gruppo letterario del Göttinger Hainbund, in quegli anni scrisse poesie, drammi e altri oratori.
I contatti col suo compagno di studi svedese Carl Stridsberg lo spinsero a recarsi in Svezia. Il 26 aprile 1778 lasciò Gottinga e giunse a Stoccolma il 3 giugno 1778.
In Svezia gli ci volle del tempo prima di cogliere i primi successi. Sulle prime, vivendo in povertà, dovette chiedere più volte aiuto ai genitori. La prima esecuzione dell'opera Proserpina (1781) gli valse la celebrità: Kraus ottenne la nomina a maestro di cappella e uno stipendio annuo di 300 ducati dal Re di Svezia Gustavo III nonché l'opportunità di fare un viaggio per l'Europa (che intraprese il 7 ottobre 1782) al fine di conoscere il teatro europeo. Durante questo viaggio fece tappa in città come Dresda, Lipsia, Erfurt, Würzburg e Ratisbona, non disdegnando una visita ai genitori a Vienna, e conobbe tra gli altri Roman Hoffstetter, l'Imperatore Giuseppe II, Joseph Haydn, Christoph Willibald Gluck, Antonio Salieri, Johann Georg Albrechtsberger e i Principi Nikola Esterházy. In seguito si fermò a Trieste, Venezia e a Bologna, dove il compositore Giovanni Battista Martini commissionò il suo ritratto al pittore Antonio Pomarolli. A Roma, col Re Gustavo III che aveva incontrato strada facendo, recò visita a papa Pio VI. Dopo Napoli si fermò a Parigi, dove trascorse due anni. Vide anche Londra e per l'ultima volta, nell'agosto del 1786, i suoi genitori e i suoi fratelli prima di tornare di nuovo a Stoccolma.

Joseph Martin Kraus, soprannominato il Mozart di Odenwald (Miltenberg, 20 giugno 1756 - Stoccolma, 15 dicembre 1792)In Svezia, dove nel 1787 venne nominato “Ordinare Capellmästare e direttore dell'Accademia musicale reale, oltre a dedicarsi alla composizione di nuove opere dovette occuparsi di riformare l'orchestra e il teatro locali.
Nella sua raccolta di Lieder Fredmans epistlar, pubblicata nel 1790, Kraus dedicò a Carl Michael Bellman l'Epistola n. 75 (Skratta mina barn och vänner).
Nel marzo del 1792, durante un ballo in maschera, Gustavo III venne ferito gravemente in un attentato e morì pochi giorni dopo. Le ultime opere di Kraus, presente al regicidio, furono una Sinfonia e una Cantata funebri che vennero eseguite durante le esequie di Gustavo III. Kraus doveva essere tanto scosso dalla morte del “suo” re che dopo aver composto e diretto, già gravemente malato, la Sinfonia funebre, non si riprese più da questa fatica. Il 15 dicembre del 1792 morì a Stoccolma di tubercolosi, di cui soffriva fin dai tempi in cui era studente. Kraus è sepolto a Tivoli, a nord di Stoccolma. Nel 1846 è stato eretto un monumento funebre che reca questa epigrafe: "Här det jordiska af Kraus, det himmelska levfer i hans toner" ("Qui riposa ciò che di Kraus è mortale, ciò che è immortale vive nella sua musica"). Ancor oggi la città di Buchen (Odenwald) lo ritiene il suo figlio più famoso. Le locali scuola di musica, piazza e sala Joseph Martin Kraus sono a lui dedicate. La società internazionale Joseph Martin Kraus ha ivi la sua sede. Il museo cittadino ha sede nella precedente abitazione dei Kraus.
Il catalogo delle opere di Kraus redatto da Bertil van Boer conta più di 200 composizioni..."

(Articolo completo in: it.wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k