“L’amico del popolo”, 1 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

SANGUE (Italia/Svizzera, 2013), scritto e diretto da Pippo Delbono. Fotografia: Fabrice Aragno, Pippo Delbono. Montaggio: Fabrice Aragno. Musica: Camille, Victor Deme, Stefan Eicher, Pietro Mascagni.Con Pippo Delbono, Margherita Delbono, Giovanni Senzani, Anna Fenzi, Bobò, Coro e orchestra del Teatro San Carlo di Napoli.

Fine 2011. Pippo Delbono e Giovanni Senzani, ex leader delle Brigate Rosse recentemente uscito di prigione, decidono insieme di tornare sul loro rapporto con la violenza, con i sogni di rivoluzione, con il mondo d’oggi e l’Italia in rovina. Per un libro, o un film... Ma quasi che la realtà si facesse beffe dei loro progetti, la morte li sorprende. Pippo accorre al capezzale della madre malata, fervente cattolica nonché ex maestra elementare che detestava i comunisti... Mentre Anna, dopo aver pazientemente atteso che il marito Giovanni scontasse i suoi 23 anni di carcere, si ammala a sua volta. Nonostante i loro sforzi, le due donne muoiono a tre giorni l’una dall’altra. Pippo e Giovanni si ritrovano improvvisamente orfani, indifesi, smascherati. Intanto L’Aquila, la città sfigurata dal terremoto e svuotata dei suoi abitanti, la città delle promesse e delle campagne politiche, oggi solitaria e anch’essa orfana, abbandonata, attende che qualcuno, finalmente, la riporti in vita.

“Una videocamera inquadra tremante le rovine dell'Aquila terremotata. Taglio. Una bara coperta di fiori rossi come la rivoluzione proletaria. Taglio. Un corteo che procede nella neve, figurette filmate di spalle, è il funerale di Prospero Gallinari, il terrorista delle Brigate Rosse che fu il carceriere di Aldo Moro. I colori illividiscono nel bianco e nero, alberi stecchiti diventano grafismi da quadro astratto. E la voce fuori campo del regista, Pippo Delbono, spiega che è l'amico Giovanni Senzani ad avergli chiesto di accompagnarlo. (E lo spettatore ricorda: Senzani, il capo brigatista, dal 2010 uomo libero dopo 29 anni tra carcere e condizionale per sequestri e uccisioni che fecero epoca: il caso Cirillo, il caso Roberto Peci). Un funerale di spettri, pensa lo spettatore. Di scomparsi, di annegati. E' l'inizio conturbante di "Sangue", l'ultimo film di Pippo Delbono, il talentuoso regista-attore ligure di cui è appena circolata un'altra opera video di estrema intensità, "Amore carne", girata quasi tutta con uno smartphone. "Sangue" è una coproduzione italo-svizzera (Compagnia Pippo Delbono, Casa Azul Films, Rsi, con la partecipazione di Cinémathèque Suisse e Vivo Film). Sarà in concorso ad agosto al Festival di Locarno, e farà discutere. "L'Espresso" l'ha potuto visionare in fase di montaggio. E' un'esperienza che colpisce: non solo per il senso di verità senza infingimenti o falsificazioni che conosciamo dal lavoro teatrale dell'autore. Ma per la nuda scabrosità del tema: la morte di persone care. No, non di Gallinari, quelli sono pochi istanti. Delbono accompagna con immagini e parole la morte di due donne. Una presentissima: l'amata madre Margherita, di cui accompagna l'agonia come il pastore l'agnello, in casa, poi in ospedale, infine stringendone la mano fragile nell'ora estrema. L'altra assente: Anna, la donna che si legò a Senzani, aspettandolo per anni mentre scontava la pena in carcere, pur rifiutando, lei, la scelta della lotta armata, e infine morta, prima di lui, di una grave malattia. "Sangue" racconta l'incontro tra due uomini «improvvisamente orfani, mutilati». Non è un cinema della crudeltà. E' un cinema sorretto dalla forza dura, quasi minerale degli eventi, che alla fine s'illumina di speranza, sotto il sorriso del Buddha, ispiratore spirituale di Delbono. Avevano pensato, racconta lui, di scrivere un libro intitolato "Sperduti", sottotitolo: "Dialogo tra un artista buddhista e un ex terrorista tornato in libertà". Il narrare autobiografico di Delbono, diario visivo e monologo interiore, crea un turbamento doppio: alla pietas si alternano schegge di dubbio intorno alla logica delle armi e dell'uccidere. Ora vediamo mamma Margherita («Che mi aveva sempre messo paura dei comunisti»), donna credente, occhi luminosi con un che di magico, mentre parla, con cantilenare ligure, della Madonna di Medjugorje e della luce del Paradiso, sullo sfondo un Cristo coronato di spine. Ora appare Senzani, uomo provato, curvo, incanutito, dallo sguardo malfermo, che ancora ci turba ascoltare, dopo tanti anni e a colpe espiate. Il male subìto, il male compiuto. Senzani parla di tortura, dei maltrattamenti della polizia carceraria: «Non sai come reagirà il tuo corpo», dice, mentre descrive sé e i compagni spogliati in slip, in ginocchio, le mani legate dietro la schiena per una notte intera scandita da calci nelle costole. La descrizione sfuma, quasi per pudore, in uno struggente blues africano di Victor Démé, che è il fil rouge musicale degli 89 minuti del film. Poi, verso la fine, Senzani rievoca, in un raggelante monologo, l'esecuzione di Roberto Peci, 25 anni, "giustiziato" dalle Br per punire il tradimento del fratello Patrizio nell'agosto 1981. Fu uno dei più crudeli episodi del terrorismo italiano. Senzani racconta come, assopitosi su un autobus alla periferia di Roma, all'alba, con il compagno che portava la borsa delle armi, si risvegliò di soprassalto, al «No!» urlato da Peci bendato, prima di essere fucilato. «Stavo rivivendo la scena».”

(Enrico Arosio, su L’Espresso 20 settembre 2013)

“Raccontare un film di Pippo Delbono rappresenta una specie di torto nei confronti di un autore che prima nel teatro e più recentemente nel cinema non ha mai perso occasione di esprimere il diritto ad una libertà che prescinde da istanze narrative tradizionali e consolidate, e che, in un'opera come "Amore carne" si era espressa attraverso una produzione operata con mezzi di "fortuna" (quasi tutte le riprese erano state realizzate utilizzando uno smartphone) e strutturata su un impianto formale che procedeva per assonanze poetiche e suggestioni emotive. Seconda tranche di un diario intimo, come sempre inscindibile dall'humus che lo produce, "Sangue" raggiunge il concorso di Locarno dopo una navigazione funestata dai marosi di un vissuto personale avvenuto nel segno del dolore e del distacco per la perdita di Margherita, madre del regista. In questo senso l'apertura con le immagini dell'Aquila, occupata dalle macerie e seppellita dalle promesse mancate, appare quanto mai azzeccata nell'evocare un sentimento d'abbandono che l'accomuna con quello ancora fresco sopportato da Delbono. Un lutto che il regista trasforma in reazione di segno opposto, che si traduce in un percorso d'incontri umani ed emotivi materializzati nel caso di "Sangue" dalla figura di Giovanni Senzani, capo storico delle brigate tornato libero dopo ventitré anni di carcere. Un'amicizia nata quasi per caso, suscitata dall'interesse di Senzani per il lavoro teatrale di Delbono e rafforzata da un percorso di sofferenza comune che per l'ex brigatista è coincisa con la malattia e la morte della moglie, scomparsa negli stessi giorni della madre di Delbono. Il legame amicale e quello parentale diventano per Delbono l'occasione di raccontare l'Italia con anime diverse e senza conciliazione, in una dimensione in cui privato e pubblico, il particolare e l'universale procedono di pari passo. Ecco allora la professione di Margherita, sorretta fino all'ultimo da una fede incrollabile e dalle parole di San'Agostino lasciate al figlio in una sorta di testamento consegnato sul letto di morte, e la confessione di Giovanni Senzani che rievoca gli ultimi istanti di vita di Fabrizio Peci giustiziato per vendicarsi del fratello, il terrorista pentito Patrizio. Sono questi due momenti, scelti tra i tanti che compongono l'album visivo e musicale di Delbono, a rimanere più impresse e a dividere gli animi. Agli antipodi rispetto al contesto culturale (la madre di Delbono, fervente cattolica, era terrorizzata dai comunisti, mentre Senzani non ha mai smesso di esserlo) e autobiografico che li contiene, entrambi sono capaci di esprimere un climax di assoluta umanità indipendentemente dalla dimensione di vittima o di carnefice che le due figure rappresentano all'interno del film. Una sorta di nuovo vangelo che unisce peccatori e meritevoli e che Delbono, buddhista praticante, legittima attribuendo alla due vicende la medesima importanza emotiva. Che si tratti di un'attribuzione di responsabilità che Senzani si assume con la lucidità e anche la freddezza di un resoconto che, qualcuno potrebbe scambiare per resistenza orgogliosa all'utopia rivoluzionaria e che, invece, costituisce il modo migliore per mantenersi lontano dal voyeurismo e dai facili pietismi dei reality televisivi, oppure del calvario di una madre che sta per lasciare un figlio, "Sangue" è il manifesto di un umanesimo politicamente scorretto, lontano da ideologie e da certe ipocrisie che non mancherà di far discutere. Arricchito da una colonna sonora che funziona come valvola di sfogo di una tensione che la visione dell'opera non mancherà di suscitare, "Sangue" è un viaggio al termine della notte che colpisce al cuore e divide in fazioni. Un cinema lacerante di ferite ancora sanguinanti. Meno radicale nella forma, ma egualmente anarchico rispetto al lavoro precedente, "Sangue" è impregnato di una concretezza imposta dalla delicatezza della posta in gioco e riesce a prendere tutti in contropiede congedandosi con un messaggio di speranza all'insegna del bene e dell'amore: a conferma, se mai ce n'è fosse bisogno, di un temperamento iconoclasta e al di fuori dagli schemi che, ne siamo sicuri, continuerà a sorprenderci”.

(Carlo Cerofolini)

SANGUE (Italia/Svizzera, 2013), scritto e diretto da Pippo Delbono

 

Una poesia al giorno

Eternità d'Amore, di Lorenzo Da Ponte (nato Emanuele Conegliano; Ceneda, 10 marzo 1749 - New York, 17 agosto 1838)

Stanco e vinto dal sonno al manco lato
inerme entro il mio petto Amor giacea,
e il mio cor, che senz'armi il Dio vedea
l'ali gli tolse ond'avea il tergo ornato.

Se stesso impenna, e lieve spirto alato
fuor dal natio soggiorno il volo ergea,
e per l'usato calle alla mia Dea
giunse e librossi in sul bel crine aurato.

Indi, quasi farfalla, intorno il foco
degli occhi mosse, ma l'intenso ardore
sciolse gli incauti vanni a poco a poco.

Così dentro il bel sen cadde il mio core;
ed ora sperano in van di cangiar loco
il cor senz'ali, e lo spennato Amore.

Lorenzo Da Ponte

 

Un fatto al giorno

1° luglio 1863: inizia la battaglia di Gettysburg, la battaglia decisiva della guerra civile americana, dove gli stati del Nord si assicurano la vittoria finale.

“Il primo luglio del 1863, durante la Guerra civile americana, le avanguardie dell’esercito del nord e del sud si incontrarono a Gettysburg, un piccolo paesino a circa un centinaio di chilometri da Washington. Prima che i generali se ne rendessero conto, una scaramuccia si trasformò nella battaglia più sanguinosa di tutta la guerra civile. Durò tre giorni ed è considerata il punto di svolta della guerra. La sconfitta subita dall’esercito del sud, guidato dal generale Robert E. Lee, rappresentò la fine delle sue speranze di vittoria”.

(Il Post)

 

Una frase al giorno

“È una benedizione che la guerra sia così spaventosa, altrimenti la nostra passione per lei non avrebbe limiti”.

(Robert Edward Lee, 1807-1870, generale statunitense)

 

Un brano al giorno

Beethoven, Sinfonia n. 7 Op. 92, Direttore Guido Cantelli (il mio direttore d’orchestra preferito!)

Gran Dio! Morir sì giovine! Sono i versi che Violetta pronuncia disperata quando ha capito che la fine è ormai prossima, ma chissà a quanti sarà venuta in mente questa frase nell'apprendere della prematura scomparsa di Guido Cantelli, uno dei direttori d'orchestra più promettenti, andatosene via a soli trentasei anni a causa di un incidente aereo. Novarese, classe 1920, Cantelli fu senza dubbio uno dei direttori più promettenti della sua epoca, un astro che stava nascendo e che si spense troppo presto. Il suo talento venne immediatamente notato da Arturo Toscanini, una delle bacchette più note in assoluto, tanto che il burbero parmense si affezionò moltissimo a questo ragazzo, il suo allievo prediletto. Cantelli aveva cominciato a mettersi davvero in mostra nel 1948, ad appena ventotto anni: il suo concerto alla Scala di Milano aveva impressionato e meravigliato e nell'inverno '48-'49 fu proprio Toscanini a invitarlo a New York come direttore ospite alla rete Nbc. Proprio quest'ultima lo annunciò come il protegè di Toscanini e non aveva tutti i torti, anche perché in molti avevano ravvisato delle somiglianze nei due caratteri. Cantelli era giovane ma dal temperamento forte, visto che perfino i suoi orchestrali inizialmente non erano molto cordiali con lui e i suoi modi; ma questo giudizio cambiò profondamente nel corso degli anni, con parecchi sorrisi in più a rallegrare le facce dell'orchestra.
Secondo alcuni giudizi, sembrava quasi come se il direttore piemontese sapesse della sua breve esistenza, così da giustificare il suo fuoco artistico e la fretta di scoprire il più possibile. Cantelli era il secondo figlio di un maestro di banda e trombettista e la sua infanzia fu caratterizzata da una salute non proprio di ferro. Già a tredici anni egli poteva lavorare nelle stagioni operistiche del Teatro Coccia di Novara, più precisamente in qualità di suggeritore e di percussionista. Non completò mai il liceo, ma si cimentò persino come pianista di musica jazz. Poi, l'iscrizione al Conservatorio di Milano gli consentì di diplomarsi in composizione nel 1943, proprio nello stesso anno in cui aveva debuttato come direttore al Coccia nella Traviata di Verdi. In quella prima esperienza, Cantelli, appena ventitreenne, riuscì a far emergere doti molto interessanti: tra l'altro dirigeva a memoria e in quell'esordio si trovò al centro di una situazione imbarazzante, visto che, stordito dal troppo alcool di un brindisi nel corso dell'intervallo, non riusciva a ricordare l'attacco del terzo atto. Piuttosto che far prendere lo spartito, decise di attaccare di impeto, con la sola forza della disperazione, le note fluirono perfette e giuste e quell'unico momento di confusione scomparve per sempre. Fu catturato dai tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale e internato in un campo di concentramento. Poi, la sfolgorante carriera, prima in teatri di provincia e successivamente a Milano. Vari impegni alla Rai lo fecero conoscere a un più vasto pubblico ed è allora che giunse l'occasione del concerto alla Scala del 1948. La Rapsodia Spagnola di Ravel, il Concerto per violino di Brahms, la Berceuse élégiaque di Busoni e il trittico dal Mathis der Mahler di Hindemith, furono questi i pezzi che impressionarono Toscanini e gli spettatori. Le tournée negli Stati Uniti si susseguivano anno dopo anno e il successo lo travolse letteralmente: Albert Einstein voleva assolutamente conoscerlo, a Hollywood si pensava addirittura a un film con lui come protagonista, insomma la fama era arrivata. L'amicizia con Toscanini, più un rapporto tra padre e figlio, si solidifica ulteriormente e c'è persino la miopia ad accomunarli, il motivo per cui Cantelli imparava le partiture a memoria. Nel 1956 venne nominato direttore stabile della Scala e stava pensando a molte altre tournée all'estero. Questo continuo viaggiare non lo spaventava, in alcune dichiarazioni professava di essere certo della sicurezza degli aerei: eppure, proprio in quel 1956, più precisamente il 24 novembre, perse la vita in un incidente aereo che si verificò all'aeroporto parigino di Orly, mentre era in procinto di recarsi a New York. Tutto il talento e le promesse sparirono per sempre e si preferì non informare Toscanini di questa tragica morte: il sommo maestro, quasi novantenne, non seppe mai nulla di come terminò la vita di Cantelli e morirà due mesi dopo. I funerali furono caratterizzati da tanta gente attonita e l'orchestra della Scala lo salutò con il Largo dal Serse di Händel, l'ultimo brano diretto, e con un podio vuoto a simboleggiare la sua assenza. Fu poi sepolto nel cimitero di Novara. Chissà cosa ci avrebbe regalato con le sue doti ancora tutte da scoprire: alcune registrazioni di Debussy, Rossini e Ravel confermano tale giudizio, così come quella dell'unica opera disponibile, Così fan tutte di Mozart”.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k