L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL BRAVO DI VENEZIA (Italia, 1941), regia di Carlo Campogalliani. Soggetto: Carlo Campogalliani, Alberto Spaini. Sceneggiatura: Carlo Campogalliani, Alberto Spaini. Casa di produzione: Scalera Film. Fotografia: Otello Martelli. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Umberto Mancini.
Cast
Gustav Diessl: Marco Da Ponte detto Fuser, bravo di Venezia. Rossano Brazzi: Guido Da Ponte, figlio di Marco. Paola Barbara: Leonora. Valentina Cortese: Alina. Emilio Cigoli: Alvise Guoro. Erminio Spalla: Franco da Milano. Carlo Duse: mastro Zaccaria. Romano Calò: avogadore. Giacomo Moschini: doge di Venezia. Giulio Paoli: Callisto. Cesare Fantoni: pittore Paolo Caliari, il "Veronese". Giuseppe Pierozzi: cerusico. Angelo Dessy: Matteo. Pina Gallini: governante Clotilde. Achille Majeroni: Inquisitore. Giulio Tempesti: Sergio. Amina Pirani Maggi: donna pettegola al pozzo. Emilio Petacci: amico di Leonora. Alfredo Martinelli: primo valletto di Alvise. Renato Malavasi: secondo valletto di Alvise. Attilio Dottesio: pittore, Giorgio Costantini: Gualtiero. Eugenio Duse: servo di Leonora, Vera Furlan: Giulia, Cesare Polesello: Silvestro, Alberto Sordi: aiutante del Veronese.
Nella Repubblica di Venezia del Cinquecento, Marco Da Ponte, detto "Fuser", torna in incognito per vedere il figlio Guido che ignora la sua vita da bandito dovuta a un delitto passionale avvenuto anni prima.
Il ragazzo, impiegato nello studio del pittore Veronese, è innamorato di Alina, nipote dell'usuraio Zaccaria alla quale è interessato anche Alvise Guoro, legato alla nobile Leonora, inutilmente corteggiata da Gualtiero.
Tradito da uno dei suo uomini, Marco viene arrestato e dopo poco anche il figlio finisce in carcere; scoperta la verità sul padre, lo rinnega. Su consiglio di Alvise Guoro il doge propone a Marco di diventare il loro "bravo", ovvero di uccidere su commissione i nemici della Repubblica. In questo modo l'uomo avrà salva la vita anche se dovrà vivere in incognito in quanto dichiarato morto.
Un giorno l'uomo si trova di fronte suo figlio, accusato ingiustamente di omicidio, in realtà vittima inconsapevole degli intrighi di alcuni aspiranti dogi. Grazie al sacrificio paterno, il giovane viene riconosciuto innocente e potrà così sposare la sua fidanzata.
“La Scalera Film puntò su questa pellicola per competere, negli incassi al botteghino, con l’altra nota casa di produzione Lux Film, che quell’anno fece uscire I promessi sposi, diretto da Mario Camerini, con protagonisti Gino Cervi nel ruolo di Renzo Tramaglino e Dina Sassoli in quello di Lucia Mondella e, per di più, con anche due attori presenti ne Il bravo di Venezia, ossia Carlo Duse nel ruolo d’un bravo e Cesare Fantoni in quello di Egidio.
Valentina Cortese, ai suoi primi ruoli cinematografici (nel 1941, oltre a Il bravo di Venezia, uscirono altri tre film da lei interpretati: L’orizzonte dipinto, diretto da Guido Salvini, L’attore scomparso, diretto da Luigi Zampa e Primo amore, diretto da Carmine Gallone), non fu soddisfatta della propria interpretazione e in un’intervista successiva dichiarò con molta sincerità che, rivisto il film, si sarebbe “fischiata da sola”.
Paola Barbara fu soprannominata la “madonnina dei marinai”, poiché aveva moltissimi ammiratori tra questi.
Rossano Brazzi, Erminio Spalla, Carlo Duse e Cesare Fantoni avrebbero recitato insieme nel film, ancora d’ambientazione veneziana, I due Foscari (1942, diretto da Enrico Fulchignoni), tratto dall’omonima tragedia teatrale di Lord Byron, sceneggiata col contributo d’un (allora) trentenne Michelangelo Antonioni.
Roberto Bianchi Montero, nel giro d’un paio d’anni, avrebbe concluso nel 1943 la carriera di attore per iniziare quella di regista cinematografico, poi proseguita fino al 1982.
Il promettente giovane Alberto Sordi, all’epoca ventunenne e alle prime esperienze cinematografiche, in realtà recitava per la terza volta diretto da Carlo Campogalliani (in precedenza era apparso in La notte delle beffe del 1939 con Eugenio Duse e Cuori nella tormenta del 1940 con Roberto Bianchi Montero); sarebbe stato poi diretto per la quarta volta ne L’innocente Casimiro (1945), con Erminio Macario.
Il produttore cinematografico Michele Scalera, insieme ai fratelli Salvatore e Carlo, inizialmente era un costruttore edile vicino a Mussolini, destinatario di commesse e appalti del regime fascista. Avendo presentato il conto gonfiato di un’opera edile ed essendosene Mussolini accorto, il duce decise d’evitargli una pesante condanna, a condizione che Scalera fondasse una società di produzioni cinematografiche, in modo da disporre d’una filmografia nazionale e cessare l’importazione di pellicole dagli Stati Uniti”
(In: www.venicecafe.it)
"(...) Un film fatto bene, ecco tutto da un accurato e anche intelligente artigiano. Un po' è ispirato al Bandello delle grandi novelle drammatiche (...) molto a Michele Zevaco e ad altri potenti scrittori si lascia vedere: è congegnato con abilità, ci ha messo le mani uno dei nostri migliori giornalisti, ma strapazza troppo la storia.
(Volpone "Il Bertoldo" (3/10/1941, in www.comingsoon.it)
“Tra congiure, tradimenti e duelli si dipana questa bella storia testimone del periodo autarchico del nostro cinema, che nonostante tutto era in grado di produrre storie avvincenti e di grande impatto emotivo come in questo bel film. Emilio Cigoli, il più grande dei nostri doppiatori, è anche un ottimo co-protagonista interpretando il ruolo di un cattivo da consumato attore. Con lui una giovanissima coppia Rossano Brazzi e Valentina Cortese ad assicurare il lieto fine e l'apprezzamento del pubblico femminile con la loro storia di amore. Ma anche ottimi costumi e splendidi scenari veneziani che assicurano anche le cupe atmosfere notturne nelle quali agisce mascherato il sinistro Bravo.”
(In: cinemaestri.blogspot.com)
- Il film: Il bravo di Venezia (1941)
Un regista: Carlo Campogalliani
Attore e regista cinematografico, nato a Concordia (Modena) il 10 ottobre 1885 e morto a Roma il 10 agosto 1974. Cineasta di buon mestiere, eclettico e versatile, sperimentò tutti i filoni popolari. Diresse negli anni Trenta e Quaranta, i suoi lavori più significativi, tra i quali Montevergine (1939, noto anche con il titolo La grande luce), ambizioso progetto produttivo, accolto con successo alla Mostra del cinema di Venezia. Negli anni del cinema muto aveva lavorato anche come attore e creato (nel 1920) la casa di produzione Campogalliani Film, di breve durata. Con la moglie Letizia Quaranta, condivise molte esperienze artistiche, sia come partner sullo schermo, sia come regista dietro la macchina da presa.
Figlio di attori girovaghi, calcò giovanissimo le scene e si dedicò inizialmente alla scenografia, per poi inserirsi come attore in compagnie minori. Esordì nel cinema, grazie all'appoggio del produttore Luca Comerio, in Re Lear (1910) di Giuseppe De Liguoro, nella parte del buffone. Dal 1911 al 1914, C. partecipò in ruoli minori a Il debito dell'imperatore (1911) di Luigi Maggi, L'amico dello sposo (1912) di Eleuterio Rodolfi, Agenzia Griffard (1913) di Vitale De Stefano e Il romanzo di un re (1914) di Gino Zaccaria. Debuttò nella regia con Il rivale di papà, prodotto nel 1914 dalla Società Anonima Ambrosio. Da allora diresse, nell'arco di un decennio, almeno una trentina di film popolari, tra i quali Romanticismo (1915), Da boxeur a detective (1916), L'inverosimile (1919) e La casa della paura (1921), spesso interpretati anche da sua moglie, e portò al successo la celebre serie di Maciste, personaggio disegnato dall'attore Bartolomeo Pagano. Dalla metà degli anni Venti, realizzò vari film, come regista e interprete, in Argentina, in Brasile e in Germania (tra cui Ich hab' mein Herz im Autobus verloren, 1929). Rientrato in Italia, diresse nel 1931 un Ettore Petrolini scanzonato e burlesco in Cortile e in Il medico per forza, tra i primi esperimenti sonori del cinema italiano, tratti, rispettivamente, da un bozzetto di F.M. Martini e da una commedia di Molière. Dopo La lanterna del diavolo, ancora del 1931, ottenne successi e riconoscimenti alla Mostra del cinema di Venezia: nel 1934 venne premiato con la medaglia d'oro per Stadio, film di insolita ambientazione sportiva, sul mondo del rugby, e nel 1939 con una speciale coppa del Partito nazionale fascista per Montevergine, interpretato da Amedeo Nazzari, opera elogiata dalla critica per una certa raffinatezza e originalità sia di scrittura sia di regia. Lo stesso anno diresse ancora Nazzari in La notte delle beffe, mentre, in precedenza, nel 1936, aveva girato, esclusivamente con le marionette, l'insolito I quattro moschettieri.
Realizzò quindi film in costume, come Il bravo di Venezia (1941) interpretato da Rossano Brazzi, ma anche comici e commedie, come L'innocente Casimiro (1945) con Erminio Macario, e Bellezze in bicicletta (1951) con Silvana Pampanini, Delia Scala, Peppino De Filippo, Renato Rascel e Aroldo Tieri. Lavorò anche con cantanti lirici e di musica leggera, come Beniamino Gigli in Silenzio: si gira (1943), Milly Vitale in La canzone del cuore (1955), Luciano Tajoli in Ascoltami (1957) e Claudio Villa in Fontana di Trevi (1960). Concluse la sua carriera all'inizio degli anni Sessanta con film appartenenti al genere storico-mitologico, come Maciste nella valle dei re (1960), Ursus (1961) e Rosmunda e Alboino (1961), per i quali sperimentò anche il cinemascope.”
(Stefania Carpiceci - Enciclopedia del Cinema, 2003, in: www.treccani.it)
Una poesia al giorno
Elegia Pasquale, di Andrea Zanzotto
Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?
Dagli orti di marmo
ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti
pasqua ventosa che i mali fa più acuti
E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato
questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane
Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.
Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.
Zanzòtto, Andrea. Poeta italiano (Pieve di Soligo 1921 - Conegliano 2011). La poesia di Z. s'inscrive nelle tracce e memorie del suo paese di nascita: "qui non resta che cingersi intorno il paesaggio", contemplato in Filò. Laureato in lettere a Padova nel 1942, e a lungo insegnante di scuola media, raramente si allontana dal suo altopiano, dalle tracce del "petèl", mentre la sua cultura, le traduzioni, la saggistica, di ampi orizzonti europei, rendono più vivida la sua "ignarità che brucia pur di estreme sapienze" (Ligonàs, 1998).
Opere di poesia: Dietro il paesaggio (1951); Elegia e altri versi (1954); Vocativo (1957; 2a ed. ampliata 1981); IX Ecloghe (1962); La Beltà (1968); Gli sguardi, i fatti e senhal (1969, poi 1990); A che valse? (Versi 1938-1942), (1970); Pasque (1973); Filò (1976, con una lettera di F. Fellini, e una nota dell'autore; poi 1988); II Galateo in bosco (pref. di G. Contini, 1978); Fosfeni (1983); Idioma (1986); Meteo (1996); Ligonàs (1998). Le poesie e prose scelte sono state raccolte nei "Meridiani" (1999); ha fatto seguito Sovrimpressioni (2001). La sua prosa narrativa e critica è raccolta in Racconti e prose, intr. di C. Segre (1990; poi, con ampliamenti, 1995); Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta (1991); Aure e disincanti del Novecento letterario (1994); Europa melograno di lingue (1995); infine Scritti sulla letteratura (2 voll., 2001). Meditazioni autobiografiche nella conversazione con F. Simongini, Il nido natale come una catacomba, in "Lingua e letteratura", 14-15 (1990); autoritratti sono in "L'Approdo letterario", 77-78 (1977) e in "L'Ateneo veneto", 18 (1982); ed ora: Eterna riabilitazione da un trauma di cui s'ignora la natura (2007).
I "due poli contrapposti della tradizione letteraria nel nostro Novecento" - Artaud e Mallarmé - indicati da Z. nella sua Testimonianza su Ungaretti (ora in Fantasie di avvicinamento) sono ben presenti anche nella sua propria poetica, nella sua lingua: da un lato l'impegno strenuo di Mallarmé a risolvere il mondo in scrittura, "a cancellare la propria corporeità spostandola tutta sul lato della dissoluzione del corporeo nel verbale", a costo anche della "tautologia assoluta" o dell'"esplosione del testo", come appunto nel Coup de dés; dall'altro la 'matericità' di Artaud, il testo come "spostamento, slogamento, lacerazione di elementi corporei": "ogni espressione, come tale, è sanguinolenta". Un "Fuori idioma": un dire di "aghi di mutismi", un depositarsi 'sindonico' del dolore del mondo; e, come in Michaux, "l'acre acume di un'anima che si dissolve in vampe, in grumi, in meccanismi, che si concede e si fa campo di battaglia, che si lascia succhiare dall'interno e dall'esterno, pluralizzare, deformare in incubo: e che, tuttavia, continuamente si nega a queste operazioni, e sta tutta raccolta in se stessa" (Michaux, il buon combattente).
"Ulcerale stigma", non meno, del buon combattente Zanzotto: che non sublima, non àltera la distonia nel Sonetto del decremento e dell'alimento: "Catene alimentari vanno al trogolo" (Il Galateo in bosco, IV) formula che lo apparenta alla poesia europea di più risentita denuncia e meditazione: "Al trogolo siamo andati, Signore. || Era sangue, era quello | che tu hai versato, Signore" (Paul Celan, Tenebrae, da Sprachgitter, 1959). Sempre la sua poesia si tende, ferita, "al confine / del visibile e in grate catturate" (Carità romane).”
(Carlo Maria Ossola in: www.treccani.it)
- Immagini: Andrea Zanzotto, la poesia mia difesa
10 ottobre 1921 nasce Andrea Zanzotto, poeta italiano (morto nel 2011)
Un fatto al giorno
10 ottobre 732: Battaglia di Poitiers. Nei pressi di Poitiers, in Francia, il capo dei Franchi, Carlo Martello, e i suoi uomini, sconfiggono per la prima volta nell'Europa occidentale un'armata di Mori, seppur di dimensioni modeste. Il governatore di Cordova, Abd-ar-Rahman, rimane ucciso in battaglia.
“Il mondo medievale è costellato da lotte e battaglie decisive: nelle nazioni che stanno prendendo forma in Europa, alcune tribù si uniscono, allargano i loro confini, conquistano i nemici e abbastanza spesso respingono gli invasori.
Ma rare sono le battaglie che hanno davvero cambiato la storia del mondo per la loro importanza. Una di queste viene considerata la Battaglia di Poitiers, combattuta nel 732 d.C. tra le forze cristiane dei Franchi, capeggiati da Carlo Martello, e quelle del governatore musulmano omayyade di al-Andalus, il territorio iberico e in piccola parte francese conquistato dagli arabi.
Questo conflitto feroce e distruttivo, che secondo alcuni storici ha plasmato il futuro dell’Europa rimanendo famoso nel tempo, è stato una grande scommessa, combattuta contro ogni previsione di vittoria.
Intorno al 700 d.C. il califfato musulmano omayyade si sta allargando rapidamente. E’ il secondo dei quattro grandi califfati che si susseguono dopo la morte di Maometto, e in quel tempo è uno dei più grandi imperi del mondo.
Dopo aver conquistato le terre del Nord Africa, l’Europa continentale sembra lì a portata di mano, con appena una striscia d’acqua, lo stretto di Gibilterra, a separarle.
All’epoca sono i Visigoti a governare l’Iberia, ma nel 710 il duca Roderico spodesta il re Agila, che chiede aiuto a un governatore cristiano (forse bizantino o forse visigoto), che a sua volta si rivolge ai musulmani d’Africa. Un piccolo esercito attraversa lo stretto nel 711 d.C., sotto la guida del berbero Tariq ibn Ziyad, che subito dopo si scontra con i Visigoti nella battaglia di Guadalete, nell’estremo sud dell’Iberia.
I musulmani, anche grazie all’aiuto di quei nobili ostili a Roderico, penetrano con grande facilità nella penisola, e quella che doveva essere solo scorreria, di fatto mette fine al regno dei Visigoti. In poco meno di sette anni gli arabi conquistano quasi tutta la penisola iberica (tranne quel territorio che diventerà il Regno delle Asturie), e arrivano a occupare la Settimania (oggi è la Linguadoca francese) e la sua capitale Narbona, fino ad allora controllata dai Visigoti. Da lì muovono verso Tolosa e la cingono d’assedio, ma i Franchi sbaragliano le forze musulmane.
Una decina d’anni dopo, nel 732, il generale ‘Abd al-Rahaman valica i Pirenei e parte alla conquista dell’Aquitania. I musulmani prendono la città di Bordeaux, che saccheggiano e incendiano, poi si dirigono verso la ricca Tours. Solo a quel punto il duca Oddone d’Aquitania, che era in lotta con Carlo Martello, potentissimo funzionario del regno franco, si decide a chiedergli aiuto.
Le forze di Carlo Martello si attestano alla confluenza di due fiumi, il Clain e il Vienne, su un piccolo rilievo boscoso. Il condottiero ha scelto quel punto strategico, consapevole di avere un esercito numericamente inferiore, inferiorità che tenta di mascherare posizionando alcune truppe all’interno del bosco, per trarre in inganno il nemico sul reale numero dei guerrieri. Per proseguire l’avanzata verso Tours i musulmani devono necessariamente affrontare i Franchi, perché l’unico ponte sui due fiumi è a monte, ma la foresta protegge in qualche modo le truppe franche dagli attacchi laterali.
Quando ‘Abd al-Rahaman, comandante esperto quanto Carlo Martello, si avvicina all’esercito cristiano, capisce che probabilmente i Franchi avrebbero avuto il sopravvento. Nonostante ciò schiera le sue truppe e si prepara per la battaglia.
Gli eserciti si studiano per una settimana, impegnandosi in piccole scaramucce, senza arrivare a una battaglia conclusiva. Pare che quella situazione di attesa fosse una tattica deliberata, condotta da al-Rahaman per radunare tutto il suo esercito.
Finché, con l’inverno alle porte, il 10 ottobre del 732, il generale arabo scatena la battaglia. Si affida prevalentemente alla cavaliera, cercando di rompere le linee nemiche, ma non ci riesce. La fanteria dei Franchi resiste e mantiene la posizione: quando qualche linea vacilla, viene subito rimpiazzata. Nel corso della battaglia, il duca Oddone inizia con i suoi cavalieri un’operazione ai fianchi del nemico, e raggiunge l’accampamento musulmano. Riesce a infliggere gravi perdite, libera circa duecento Franchi prigionieri, recupera il bottino e attira su di sé le forze nemiche, che abbandonano il campo di battaglia principale. Una situazione senza precedenti, inattesa per al-Rahaman, che non riesce a riportare all’ordine le sue truppe. Carlo Martello approfitta subito di quel momento di sbandamento e praticamente accerchia i musulmani. E’ una carneficina, che dura fino a quando c’è luce. Cade anche ‘Abd al-Rahaman, forse proprio sotto l’ascia di Carlo Martello.
Con il loro generale morto, i sopravvissuti fuggono con il favore delle tenebre, lasciando sul campo i morti e i feriti, oltre che il prezioso bottino razziato in Aquitania.
I musulmani ricorderanno la battaglia come “il lastricato dei martiri”: molti dei loro morti sono uccisi lungo la strada romana su cui si erano schierati. Carlo Martello, quando il giorno seguente scopre che non c’è più l’ombra di un nemico rimane stupito, e probabilmente sollevato.
La battaglia di Poitiers è considerata, ma non da tutti gli storici, di fondamentale importanza: “Poche battaglie sono ricordate 1000 anni dopo esser state combattute […] ma la Battaglia di Tours è un’eccezione […] Carlo Martello fece ritornare indietro un’avanzata musulmana che avrebbe potuto conquistare la Gallia, se le fosse stato concesso di continuare” (M. Bennet, Fighting Techniques of the Medieval World, 2005). Nessuno può dire quale sarebbe stato il futuro dell’Europa se i musulmani avessero vinto a Tours. Sicuramente diede coraggio ai cristiani della penisola iberica, per il significato simbolico che fu dato a quella battaglia: in una cronaca di quegli anni, un monaco portoghese chiama i guerrieri di Carlo Martello (che provenivano da tribù diverse, in maggioranza franche, ma anche germaniche) “europei”, a indicare con un solo aggettivo, mai usato fino ad allora, quell’esercito eterogeneo che aveva combattuto unito contro il nemico comune.”
(Annalisa Lo Monaco, in: www.vanillamagazine.it)
Una frase al giorno
“Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente... È come se la realtà fosse continuamente dietro i velari che si strappano. Ce n'è ancora un'altra, sempre un'altra.”
(Alberto Giacometti, Borgonovo di Stampa, 10 ottobre 1901 - Coira, 11 gennaio 1966, scultore, pittore e incisore svizzero).
Alberto Giacometti nasce il 10 ottobre del 1901 a Borgonovo in Val Bregaglia, nella Svizzera italiana, da Giovanni Giacometti, pittore postimpressionista di buon talento, e da Annetta Stampa, primo di quattro figli insieme a Diego, che ne diventerà l’inseparabile collaboratore e modello, Ottilia e Bruno. Nel 1904 la famiglia si trasferisce nel vicino paese di Stampa, dove, a 12 anni, Alberto rivela una precoce vocazione artistica, coltivata sotto la guida del padre e del pittore fauve Cuno Amiet. Fra il 1920 e il 1921 viaggia in Italia, prima a Venezia e Padova, dove si entusiasma per Tintoretto e Giotto, e in seguito a Firenze, Assisi, Roma, Napoli, Paestum, Pompei, copiando dipinti, mosaici e sculture. Nel 1922 è a Parigi, dove frequenta i corsi di scultura e disegno di Antoine Bourdelle all’Académie de la Grande Chaumiére, esponendo anche le prime opere ispirate a Brancusi e, più ancora, al primitivismo dell’arte africana, egizia, messicana e cicladica, come le famose Plaques.
Ma è dopo il 1929, quando entra in contatto con Max Ernst, Joan Mirò e gli ambienti del surrealismo, che Giacometti attira l’attenzione di critici e intellettuali con un gruppo di opere di ispirazione surrealista come Boule sospendue, esposta nel 1930 alla mostra con Arp e Mirò, o come La femme egorgée e Palais à quatre heures du matin nella cui onirica visionarietà si intrecciano violenza e ambiguo erotismo.
Abbandonato nel 1935 il gruppo surrealista, Giacometti attraversa un lungo periodo di solitaria e tormentata ricerca scultorea che si conclude nel ’45, dopo la guerra - trascorsa a Ginevra insieme alla madre - con la creazione delle prime figure esili e allungate, sigla stilistica della sua opera più matura, esposte per la prima volta nel 1948 in un’importante mostra alla Pierre Matisse Gallery, accompagnata da un catalogo con il saggio di Jean Paul Sartre, La ricerca dell’assoluto, che fa dell’opera di Giacometti l’espressione artistica più genuina dell’esistenzialismo.
Ma è il grande collezionista e mercante d’arte Aimé Maeght, che più di ogni altro ne farà conoscere l’opera nel corso degli anni ’50, quando Giacometti avvia una profonda e sofferta riconsiderazione critica dei modi della sua percezione visiva, raggiungendo una forza espressiva sempre più intensa e coinvolgente. In questi anni diviene un artista unico nel panorama internazionale, grazie alle sue sculture - come le Femmes de Venise, esposte alla Biennale di Venezia del ’56 -, ai suoi ossessivi ritratti pittorici - come quelli di Isaku Yanaihara - sempre più monocromatici, e ai suoi busti sempre più tormentati del fratello Diego, della moglie Annette, sposata nel ’49, di Caroline, la prostituta che ne diventa modella e amante, di Elie Lotar. Nasce in questi stessi anni, su impulso dell’amico ed editore Tériade, la serie delle 150 litografie di Paris sans fin, il libro pubblicato postumo nel 1969. La sua fama è ormai altissima quando nel 1964 nasce in Svizzera, fra grandi polemiche, la Fondazione Alberto Giacometti, dopo che anche Maeght aveva creato una propria Fondazione a Saint Paul de Vence in cui aveva riunito le opere dell’artista. E mentre si moltiplicano nel mondo le retrospettive dedicate alla sua opera, la sua salute comincia ad aggravarsi: nel ‘63 era stato operato a Parigi per un cancro allo stomaco.
In questi stessi anni si erano fatti più intensi anche i rapporti di Alberto Giacometti con gli ambienti intellettuali e della critica d’arte milanesi, avviati fin dal ’57 grazie all’amicizia con lo scultore valtellinese Mario Negri e col medico e collezionista d’arte chiavennasco Serafino Corbetta. Ma Giacometti non riuscirà a vedere del tutto realizzati i progetti editoriali sulla sua opera avviati allora nell’ambiente milanese. Stremato dall’estenuante tour delle sue numerose mostre aperte nel mondo, alla fine del ’65 Giacometti lascia il suo studio parigino e decide di ricoverarsi all’ospedale di Coira, dove muore l’11 gennaio 1966 per un attacco cardiaco. E’ sepolto nel cimitero di Borgonovo-Stampa, in Val Bregaglia, accanto ai suoi familiari.”
(Articolo completo in www.archimagazine.com)
“Ho sempre l'impressione o la sensazione della fragilità degli esseri viventi. Ho la percezione che debbano contare su un'energia formidabile per stare in piedi, istante dopo istante, sempre con la minaccia di crollare. Questo lo sento ogni volta che lavoro dal vero". La frase è di Alberto Giacometti, una sintesi perfetta dell'idea che lo ha condotto a immaginare un mondo di figure allampanate, smagrite, scabre, nate da un processo di sottrazione in cui la statuaria perde peso e volume per acquistare potenza espressiva. Giacometti ha da poco raggiunto l'incredibile record d'asta di 74 milioni di euro per una versione del suo Homme qui marche, opera che sembra davvero la raffigurazione fisica dell'uomo "gettato nell' esistenza" teorizzato da Jean-Paul Sartre, destinato per sempre a camminare senza approdo.
La Fondazione che porta il suo nome ha scelto di collaborare alla mostra, aperta fino al 15 maggio alle Scuderie di Villa Manzoni a Lecco, che mette in scena l'accostamento affascinante e pieno di suggestione di un'opera di Giacometti come la Femme debout con L'ombra della sera, uno dei capolavori della scultura etrusca, realizzato probabilmente nel III secolo a.C. e conservato al Museo Guarnacci di Volterra. Non si sa se questo fanciullo filiforme, forse battezzato in maniera così poetica da Gabriele D' Annunzio, sia mai capitato sotto gli occhi di Giacometti. Certo è che il dialogo a distanza di un paio di millenni tra i due bronzi, entrambi investiti dalla magia dell'archetipo, ha un potere evocativo formidabile. Se da Lecco si raggiunge Gallarate, nelle sale del Maga dove fino al 5 giugno è aperta l'esposizione Giacometti l'anima del Novecento, curata da Michael Peppiatt (catalogo Electa), si scopre l'universo intimo, quotidiano e in parte anche segreto dello scultore. "Gran parte delle opere in mostra, un centinaio, provengono da una stessa collezione privata di proprietà degli eredi", spiega la direttrice del museo Emma Zanella. Ci sono sculture, dipinti e disegni. Questi ultimi coprono in maniera febbrile qualsiasi superficie. Sono esposti, ad esempio, libri di storia dell'arte su cui Giacometti ha copiato le immagini riprodotte: da Van Gogh all' arte egizia. Ma anche giornali dove la sua mano ha tracciato segni, ritratti come il frammento del France-Soir dove a penna è ripetuta più volte la sagoma nuda di Christine Keeler, la protagonista dello scandalo Profumo. E addirittura vignette, fumetti in cui Giacometti inserisce qualche interprete della storia in più. La sua ossessione, d' altra parte, era quella di afferrare l'esistenza, la realtà, il mondo che lo circonda, "quello che io vedo". Nato a Stampa, in Svizzera, nel 1901, dal 1922 l'artista si trasferisce a Parigi, dove dal 1927 lavora in un misero studio nei pressi di Montparnasse. E anche quando raggiunge una certa fama accompagnata dal benessere economico, è in queste due stanze che resta, girovagando la notte tra brasserie e bordelli, continuando a sentire di non aver fatto abbastanza, afflitto da una specie di maledizione del fallimento. Scolpisce l'essere e sartrianamente si imbatte nel nulla. Così ricomincia ancora. Tenendo presente pochi soggetti: uomini condannati al cammino, donne in piedi, immobili come esiliate dal flusso vitale, la madre, il fratello Diego, la moglie Annette, il nipote Silvio. Mentre ne plasma i busti è come se già intravedesse il disfacimento della carne. Sembra che all'Accademia invece di lavorare sul modello dal vero, fosse attratto soprattutto dai teschi, posseduto dalla volontà di recuperare i palpiti che un tempo li avevano animati. Vita e morte si intrecciano. Non è un caso che Giacometti sia diventato il cantore dell'angoscia esistenziale che investe il dopoguerra. Ha catturato lo sgomento dello sguardo, l'insostenibile leggerezza di membra fragili e inadeguate a affrontare il mondo. La mostra di Gallarate vuole dare la sensazione di entrare nello spazio del suo atelier, quasi di aprirne i cassetti. Ci sono molte opere di piccole dimensioni, ma non sono bozzetti. Giacometti, a caccia di verità, allucinato non dal sogno, come i surrealisti con cui condivide una breve iniziale stagione, ma da troppa realtà, dal 1940 è dominato dal desiderio di levare e esegue sculture sempre più piccole. Tanto che, nel dopoguerra, quando rientra a Parigi dalla Svizzera dove si era rifugiato nel 1941, per riportare nello studio la sua produzione gli basta una piccola scatola. Spesso la base è più grande dell'opera, come se volesse davvero rovesciare il senso della monumentalità della scultura. A guardarle così, una accanto all' altra, queste figure minuscole e potenti sembrano arrivare da lontano, come se il tempo le avesse corrose. "Rimpicciolivo la scultura per situarla alla distanza reale in cui avevo visto il personaggio che volevo rappresentare - spiegava l'artista - Inoltre, per afferrare l'insieme, per non perdermi nei particolari, bisognava che fossi lontano. Ma i particolari mi disturbano sempre... Allora indietreggiavo sempre di più, finché non restava niente". La fase successiva è quella che vede l'affacciarsi delle figure allungate, icone di pathos e di espressività. "Ho giurato a me stesso che non avrei più lasciato rimpicciolire le mie statue d' un sol pollice. Allora è successo questo: hanno guadagnato in altezza ma sono diventate sottili... Immense e filiformi". Incerti eppure indistruttibili fantasmi. O forse ombre proiettate nella sera.”
(Lea Mattarella Gallarate, in: ricerca.repubblica.it)
Un brano musicale al giorno
King Crimson - In The Court Of The Crimson King (1969)
“In the Court of the Crimson King (sottotitolato An Observation by King Crimson) è il primo album in studio del gruppo musicale britannico King Crimson, pubblicato il 10 ottobre 1969 dalla Island Records.
È generalmente considerato uno dei più grandi album del rock progressivo: la musica in esso contenuta travalica, secondo i critici, i confini del rock e attinge dal jazz e dalla musica classica, costituendo comunque un ponte tra generi diversi. Nel suo libro Rocking the Classic, il critico Edward Macan afferma che l'album «potrebbe essere l'album di rock progressivo più influente mai pubblicato», mentre Pete Townshend, il leader degli Who, lo definì «un capolavoro sbalorditivo».
Nel Regno Unito l'album ha scalato le classifiche fino ad arrivare al quinto posto della Official Albums Chart, mentre negli Stati Uniti d'America ha raggiunto il ventisettesimo posto nella Billboard 200 e in Giappone la prima posizione. Nel giugno del 2015 la rivista Rolling Stone ha collocato l'album al secondo posto tra i 50 migliori album progressive di tutti i tempi, dietro soltanto a The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd.
Nel 1967 il chitarrista Robert Fripp rispose a un annuncio dei fratelli Giles, Mike e Peter, rispettivamente batterista e bassista: i due, infatti, erano alla ricerca di un cantante e organista. Nel 1968, il gruppo Giles, Giles & Fripp ottenne un contratto con la Deram, etichetta sussidiaria della Decca, e con essa pubblicò un album nel mese di settembre, The Cheerful Insanity of Giles, Giles & Fripp, del quale vennero vendute solamente 600 copie. Al trio si unisce Judy Dyble, già cantante dei Fairport Convention, e il suo ragazzo Ian McDonald, dotato di un'ottima padronanza di sassofono, clarinetto, flauti, chitarra e tastiera.
McDonald si inserì presto nel gruppo, ma la sua relazione con Judy Dyble finì presto e la cantante abbandonò i membri restanti; successivamente anche Peter Giles lasciò il progetto, a causa degli scarsi risultati e della direzione più sperimentale che la band stava prendendo; Fripp, non riuscendo a convincere Peter Giles a restare, contattò Greg Lake, cantante e bassista conosciuto a Bournemouth. Il gruppo quindi si compose di quattro elementi (Fripp, Michael Giles, Lake e McDonald), con la collaborazione del poeta Peter Sinfield. Proprio quest'ultimo, insieme a McDonald, scrisse il brano The Court of the Crimson King (letteralmente "La corte del Re Cremisi", con riferimento a Beelzebub) che diede il nome al gruppo.
I King Crimson esordirono ufficialmente nella scena britannica il 9 aprile 1969, dopo tre mesi di prove quotidiane, allo Speakeasy Club di Londra. Il gruppo ebbe un impatto molto forte e subito acquisì una certa notorietà. La BBC invitò il gruppo a registrare quattro brani, tra maggio e agosto, per trasmetterli al programma radiofonico Top Gear, mentre il proprietario del Marquee Club, dove per la prima volta si esibirono il 16 maggio 1969 come band di supporto degli Steppenwolf, propose un concerto settimanale, e molti artisti famosi come Jimi Hendrix e Pete Townshend assistettero all'esibizione. In primavera il gruppo riuscì a firmare con l'etichetta Island, in contemporanea con i Mott the Hoople; molto importante risultò, il 5 luglio 1969, l'apparizione ad un concerto gratuito all'Hyde Park come gruppo spalla dei Rolling Stones e dei Family, davanti a più di 300.000 persone; grazie a questa esibizione il quotidiano britannico The Guardian lì definì «un gruppo sensazionale», mentre il magazine Rock & Folk affermò che si trattava di «un eccellente nuovo gruppo». I King Crimson presero anche parte al Palm Beach Pop Festival (il loro esordio negli USA), esibendosi con artisti come Janis Joplin, Johnny Winter, Iron Butterfly e, nuovamente, Rolling Stones.
Già nel 1969 i King Crimson avevano tentato due volte in due studi di registrazione diversi di registrare il loro materiale, con il produttore Tony Clarke, famoso per il suo lavoro con i Moody Blues, che aveva tentato di far firmare la band per la loro etichetta, la Threshold Records, ma i King Crimson non furono soddisfatti delle registrazioni, che rimasero incompiute e andarono perdute; perciò il gruppo decise di impegnarsi in un'autoproduzione. Le registrazioni richiesero solamente otto giorni e vennero effettuate con un registratore Ampex a 8 tracce nei Wessex Sound Studios di Londra, con la supervisione di Robin Thompson. L'inizio delle registrazioni dell'album, che per la loro durata vennero definite da McDonald «tranquille», seguì di poche ore il primo sbarco dell'uomo sulla Luna e la notizia di quello storico avvenimento era stata annunciata, la notte precedente, dal bassista e cantante del gruppo Greg Lake al pubblico del Marquee Club di Londra, subito prima del concerto. Poco dopo le sessioni di registrazione, però, i componenti del gruppo si accorsero che alcuni nastri erano disallineati, e che ciò aveva portato a una perdita delle alte frequenze e a dei crepitii che colpiscono alcune parti del disco; per questo la batteria, secondo alcuni critici, è il punto debole delle registrazioni.
Il successo riscosso dall'album porta i King Crimson ad effettuare un tour negli Stati Uniti. Di ritorno dagli States, Ian McDonald e Michael Giles annunciarono di voler lasciare la band. Di lì a poco se ne andò anche Greg Lake, che proprio durante il suddetto tour americano aveva ricevuto l'offerta di Keith Emerson dei Nice di unirsi a lui in quello che poi sarebbe divenuto il celebre trio Emerson, Lake & Palmer, e al contempo non riteneva onesto che il gruppo mantenesse il nome "King Crimson" senza due elementi cruciali come McDonald e Giles, ma prima di abbandonare il gruppo partecipò alle registrazione del secondo album della band, In the Wake of Poseidon, ma esclusivamente come cantante. Nel 1971 McDonald e Giles realizzarono l'album McDonald and Giles, che sarà l'unico prodotto della loro collaborazione. Infine il gruppo britannico degli Yes, visto l'abbandono del chitarrista Peter Banks, propose a Robert Fripp di unirsi alla band, ma Fripp rifiutò l'offerta. Destabilizzati dalle crisi interne al gruppo, i King Crimson rimasero con solamente due dei membri originali, Robert Fripp e Peter Sinfield, e passarono diciotto mesi prima del loro ritorno sul palco.
Nessuno dei brani ha una durata equivalente o comparabile con quelli pop tipici degli anni Sessanta: tutti e cinque superano infatti i sei minuti. Tuttavia lo stile musicale non è del tutto estraneo al gusto dell'epoca, ad eccezione di 21st Century Schizoid Man, che si muove chiaramente fuori dagli schemi musicali abituali; i testi dei brani si riferiscono alla guerra del Vietnam all'indomani della Summer of Love del 1967, durante la quale la controcultura hippie si è manifestata al grande pubblico, e alla temerarietà di Woodstock, parlandone però in termini pessimistici. Diversi autori denotano la natura concettuale dell'album. Fra questi Piero Negri Scaglione, secondo il quale esso sarebbe una «riflessione sull'uomo contemporaneo», mentre, similmente, Cesare Rizzi dichiara:
«È un crudo resoconto delle paure e delle angosce dell'uomo del ventunesimo secolo che rifugge solitudine e alienazione (I Talk to the Wind) rifugiandosi nella corte del Re Cremisi: una dimensione maestosa e lisergica fatta di sogni e illusioni, delicate armonie di tempi lontani (Moonchild) e mondi antichi, personaggi fantasy, pupazzi che danzano, buffoni di corte, illusionisti.»
L'album si conclude con The Court of the Crimson King, la cui melodia fu scritta da Ian McDonald; il testo è composto da quattro strofe, separate da una sezione interamente strumentale intitolata The Return of the Fire Witch, che descrivono la corte del Re Cremisi, in cui, in un'atmosfera medievale, si susseguono vari personaggi, come la "Regina Nera" («the Black Queen») o la "Strega di fuoco" («the Fire Witch»). Il brano dopo circa sette minuti sembra interrompersi, ma poi continua attraverso una ripresa chiamata The Dance of the Puppets, prima di terminare con una brusca chiusura.
The Court of the Crimson King fu l'unico singolo estratto dall'album, e raggiunse l'80esima posizione in America nella Billboard Hot 100 nel gennaio del 1970; in seguito il brano è stato interpretato dal gruppo heavy metal Saxon nell'album del 2001 Killing Ground col nome di Court of the Crimson King in una versione leggermente più breve, dal gruppo degli Asia in un tour del 2006, da Ian McDonald e John Wetton con Steve Hackett nell'album dal vivo The Tokyo Tapes, e inoltre fece parte della colonna sonora del film I figli degli uomini, di Alfonso Cuarón.”
(In wikipedia.org)
10 ottobre 1969: il gruppo britannico King Crimson pubblica l'album d'esordio "In the Court of the Crimson King", considerato l'album che dette il via al Progressive Rock.
- Full album in: www.nicovideo.jp
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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