“L’amico del popolo”, 13 marzo 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

STRAIGHT SHOOTING (Centro!, USA, 1917), regia di Jack Ford (John Ford). Sceneggiatura: George Hively, Fotografia: George Scott. Con: Harry Carey, Molly Malone, Duke Lee, Vester Pegg, Hoot Gibson, George Berrell, Ted Brooks,  Brown, Milt.

Cheyenne Harry, pistolero e fuorilegge, viene ingaggiato da Flint, il capo di un gruppo di allevatori, per guidare Sweet Water Sims dalla sua fattoria. Quando Harry va a casa di Sims, trova Sims e Joan, sua figlia, che piangono Ted, il figlio di Sims, che è stato colpito alle spalle da Fremont. Harry, oltraggiato da questo atto e toccato dal dolore di Sims e Joan, uccide Fremont in uno scontro a fuoco. Gli agricoltori sono attaccati dagli allevatori. Harry porta il suo vecchio amico Black-Eye Pete e i suoi fuorilegge per salvarli. Dopo la battaglia, Sims chiede a Cheyenne Harry di restare, ma lui non vuole farlo a causa del suo passato criminale. Alla fine, Harry è convinto a rimanere da Joan.

Straight Shooting fu ritrovato nel 1996. Caratterizzato da una maestria sorprendente in un regista ventitreenne, rivela una sottile padronanza della narrazione per immagini. Lo stile di Ford è già riconoscibile; nel film di debutto sono presenti alcuni dei temi visivi che verranno esplorati nei capolavori della maturità, come Stagecoach (Ombre rosse, 1939) e The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956). L'intreccio di Straight Shooting, basato su una guerra tra allevatori e fattori, suona fin troppo familiare essendo stato sfruttato da molti western girati prima e dopo, e l'interpretazione è talvolta guastata dal ricorso eccessivo a cliché melodrammatici; ma Ford si accosta al tema con una forza e una raffinatezza che a novant'anni di distanza rendono il film ancora appassionante ed emotivamente coinvolgente.
Fin dalla prima inquadratura sappiamo di trovarci nelle mani di un regista nato, dotato di un senso della composizione fresco e vivido. Straight Shooting già esemplifica l'eloquente descrizione fatta da Andrew Sarris, secondo il quale lo stile visivo di Ford "evolve quasi miracolosamente verso una doppia visione un cui un evento è colto in tutta la sua vitale immediatezza e simultaneamente nella sua immagine ricordo all'orizzonte della Storia". In parte frutto dell'abitudine quasi religiosa di Ford di considerare la vita quotidiana dal punto di vista dell'eternità, questo dualismo della sua visione del mondo spiega la profondità data al personaggio di Cheyenne Harry (Harry Carey) in Straight Shooting, un sicario che rinuncia a uccidere quando si trova davanti una famiglia di frontiera in difficoltà.
Dal punto di vista tematico, il film inaugura uno degli interessi dominanti dell'opera di Ford, il conflitto tra nomadismo e stabilità, o quello che, in un contesto più ampio, The Man Who Shot Liberty Valance (L'uomo che uccise Liberty Valance, 1962) definirà come conflitto tra "natura selvaggia" e "giardino della civiltà". Ma il doppio finale di Straight Shooting [dovuto al rimontaggio dopo la prima uscita] sembra particolarmente adatto a esprimere l'io scisso del giovane regista.

(in www.cinetecadibologna.it)

STRAIGHT SHOOTING (Centro!, USA, 1917), regia di John Ford

 

Una poesia al giorno

Della mia dolce Armenia, di Yeghishe Charents (Kars, 13 marzo 1897 - Yerevan, 27 novembre 1937)

Della mia dolce Armenia
amo la lingua che ha il sapore del sole,
la tragica voce e i lamenti dei bardi,
amo i fiori color del sangue,
l’intenso profumo delle rose
e le danze gentili delle figlie del Nairi.

Amo il cielo blu profondo,
le acque limpide e il lago luminoso,
il caldo sole d’estate e i gelidi venti d’inverno
che soffiano con voce di drago,
i muri tristi e neri delle capanne sperdute nel buio
e le pietre millenarie delle antiche città.
Ovunque vada non dimenticherò
le nostre canzoni che hanno voce di dolore
e i libri di pergamena pieni di preghiere e di pianti.
Malgrado le piaghe
che feriscono il mio cuore addolorato
la mia Armenia diletta, insanguinata, io canto.
Per il mio cuore ebbro d’amore
non c’è leggenda più fulgida,
non vi sono fonti più pure
di quelle dei nostri antichi cantori.
Va per il mondo: non c’è vetta bianca
come quella dell’Ararat.
Come strada di gloria irraggiungibile, io l’amo.

Yeghishe Charents (Kars, 13 marzo 1897 - Yerevan, 27 novembre 1937)

Yeghishe Charents (Kars, 13 marzo 1897 - Yerevan, 27 novembre 1937) è stato un poeta, scrittore, patriota ed attivista politico armeno. Figura di primo piano del XX secolo anche al di là dell'ambito nazionale armeno, la sua opera multiforme fu dedicata alle sue esperienze di combattente volontario durante gli anni del Genocidio Armeno, alla rivoluzione socialista, alla storia ed ai miti della tradizione armena. Comunista della primissima ora, Charents aderì al partito bolscevico, ma con l'instaurarsi del terrore staliniano negli anni trenta si allontanò progressivamente dalle posizioni staliniste. Fu infine incarcerato ed assassinato durante la Grandi Purghe volute da Stalin, all'età di soli 40 anni.

 

Un fatto al giorno

13 marzo 1940: La guerra d’inverno russo-finlandese finisce.

“La guerra d'inverno, nota anche come guerra russo-finlandese, è un conflitto che fu combattuto tra il 30 novembre 1939 e il 12 marzo 1940 dalla Finlandia e dall'Unione Sovietica (URSS). L'attacco alla Finlandia da parte dell'Unione Sovietica ebbe come conseguenza l'espulsione di quest'ultima dalla Società delle Nazioni.
Le cause del conflitto furono, da un lato, l'aspirazione dell'Unione Sovietica ad acquisire alcuni territori finlandesi di importanza strategica dal punto di vista militare scambiandoli con propri territori di maggiore superficie e, dall'altro, la volontà della Finlandia di non cedere alle richieste sovietiche, sia per motivi patriottici legati a sentimenti politici anti-russi che per il timore dei pericoli insiti in una dimostrazione di debolezza verso il potente vicino, quale sarebbe potuta apparire la cessione di territori nazionali.
La guerra ebbe termine nel marzo 1940 con la firma di un accordo di pace, il trattato di Mosca, per il quale la Finlandia cedette all'Unione Sovietica circa il 10% del proprio territorio, tra cui gran parte della Carelia, alcune isole nel golfo di Finlandia nonché, all'estremo nord, la propria porzione della penisola di Rybačij.”

(Wikipedia)

13 marzo 1940: La guerra d’inverno russo-finlandese finisce

Nell’autunno del 1939 la Finlandia era un paese con appena vent’anni di storia alle spalle. Era stato parte della Svezia fino alle guerre napoleoniche, poi aveva fatto parte dell’impero degli zar e dal 1918 era riuscito ad ottenere l’indipendenza. Nei primi mesi di guerra, mentre la Germania nazista e l’Unione Sovietica si spartivano la Polonia, era rimasta neutrale, come tutto il resto della Scandinavia. In molti erano consci che si trattava di una neutralità che non poteva durare.

Con la firma del patto Molotov-Ribbentrop nel 1939, la Germania e l’Unione Sovietica erano diventate formalmente alleate. I confini occidentali della Russia erano sicuri e divenne evidente che Stalin aveva deciso di espandere i suoi territori a nord. Leningrado, l’odierna San Pietroburgo, era solo a una cinquantina di chilometri dal confine finlandese, oltre il quale si trovavano anche interessanti miniere di nickel.

Quando Stalin convocò una delegazione finlandese e gli espose le sue richieste, i finlandesi lasciarono l’intero mondo senza parole perché risposero di no. All’epoca era semplicemente incredibile pensare che un piccolo stato di appena 3 milioni e mezzo di abitanti potesse opporsi all’Armata Rossa e all’Unione Sovietica che si estendeva dal Pacifico al Mar Baltico. I finlandesi invece ci scherzavano. Una popolare (e un po’ macabra) battuta che girava all’epoca diceva più o meno: «I russi sono così tanti e il nostro paese è così piccolo. Dove troveremo lo spazio per seppellirli tutti?».

L’Armata Rossa mobilitò 120 mila soldati, 600 carri armati e migliaia di cannoni per schiacciare la Finlandia in quella che doveva essere una campagna rapida e semplice. I finlandesi erano armati in maniera antiquata mentre il loro esercito era costituito in larga parte da cittadini comuni, richiamati alle armi in tutta fretta. In un settore del fronte i finlandesi impiegarono due cannoni francesi del 1871, mentre in un altro usarono un treno corazzato che risaliva al 1918.
Ma i generali sovietici e lo stesso Stalin avevano trascurato diversi elementi. Il primo era che la Finlandia era priva di accessi facili, con poche strade e punteggiata di laghi. Le enormi e disorganizzate forze russe finirono per imbottigliarsi negli stretti passaggi. Il secondo fu che l’esercito era stato appena dissanguato dalle tremende purghe a cui Stalin aveva sottoposto i suoi ufficiali. Migliaia tra generali, ufficiali superiori e inferiori, erano stati accusati di colpe fantasiose, processati e giustiziati, lasciando l’Armata Rossa senza una guida professionale. Il terzo fattore è che lanciando l’attacco a novembre l’inverno finlandese era ormai arrivato.

Immagini: BBC Documentary - The Winter War of Finland and Russia

 

Una frase al giorno

“Mi chiesero cosa ne pensassi dell'illustre Mozart e dei suoi peccati. Risposi che avrei rinunciato volentieri a tutte le mie virtù per i peccati di Mozart”.

(Felix Mendelssohn, Amburgo, 3 febbraio 1809 - Lipsia, 4 novembre 1847)

(Felix Mendelssohn, Amburgo, 3 febbraio 1809 - Lipsia, 4 novembre 1847)

Jakob Ludwig Felix Mendelssohn Bartholdy, compositore, direttore d'orchestra, pianista e organista tedesco del periodo romantico, è tuttora il più sottovalutato tra i grandi musicisti del XIX secolo. Nato da una famiglia ebrea alto borghese, nipote del grande filosofo Moses Mendelssohn, si distinse per un’intelligenza illuminata molto atipica per i suoi tempi. Fu pianista, direttore d’orchestra, compositore, scrittore, poliglotta, disegnatore e pittore, ma anche organizzatore, fondatore e direttore del Conservatorio di Lipsia. Grazie a Mendelssohn, la musica di Bach è stata rivalutata (fu lui a riscoprire la Passione secondo Matteo) e da allora è stata riconsiderata come il fondamento della musica colta occidentale.
A causa delle persecuzioni antisemite di cui fu vittima, culminate con la censura della sua musica da parte del regime nazista, l’opera e la figura di Mendelssohn sono state a lungo misconosciute e fraintese. Il grande direttore tedesco Kurt Masur, uno dei più autorevoli interpreti di Mendelssohn, ha dichiarato: “Quando avevo 12 anni, durante il Nazismo, studiavo con un insegnante che mi assegnò le Romanze senza Parole, ma mi disse che era vietato suonarle, per cui mi impose di studiarle con le finestre chiuse. D’altronde durante il Terzo Reich la presenza della polizia segreta era molto forte.”

La statua di Mendelssohn che campeggiava di fronte al Gewandhaus a Lipsia fu distrutta dai nazisti il 9 novembre 1936. E con la statua si cercò di cancellare anche la musica di Mendelssohn, di farla sparire dalla storia: al punto che nel 1938 il regime di Hitler commissionò a Carl Orff di riscrivere le musiche di scena per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, volendole sostituire a quelle, già celebri, di Mendelssohn.
Anche a causa di questi fatti storici, Mendelssohn ancora oggi attende una completa rivalutazione: alcune sue composizioni sono tuttora inedite e ineseguite, ed un catalogo delle sue musiche completo e scientificamente curato è stato pubblicato solo nel 2009 da Ralf Wehner (Breitkopf & Härtel). La sua reale importanza nella storia della musica sfugge ancora a molti. Del resto, come nota Kurt Masur, dobbiamo pensare che Mendelssohn era tedesco, per cui attirò i nemici dei tedeschi; era ebreo, ed ebbe i nemici degli ebrei. Ma poi fu battezzato. Per cui era seduto su tre sedie. Nessuno diceva “Questo è il nostro uomo”. Sentiva di essere tedesco, compose molti Lieder su testi di Heine, ma fu rifiutato dal Paese a cui apparteneva e che amava. Mendelssohn non era un ebreo praticante, e, come i suoi fratelli, si convertì al protestantesimo su spinta del padre Abraham, a sua volta convertito. Tuttavia, nella sua musica vi sono molti echi della cultura ebraica, con uso frequente di formule melodiche derivate dalla musica tradizionale ebraica. Spesso in una stessa opera Mendelssohn fa convivere elementi di origine ebraica con altri di matrice cristiana: i due grandi oratori Paulus e Elias sono emblematici in tal senso. Non sappiamo quanto Felix abbia letto degli scritti del nonno Moses Mendelssohn, ma l’attitudine alla tolleranza e l’ottimismo dell’illuminismo rappresentano certamente un forte legame con Moses. L’ottimismo idealistico, ma integrato con un approccio pragmatico nella vita reale, fu, del resto, una delle più belle eredità lasciate dalla famiglia Mendelssohn.
Il rapporto di Mendelssohn con la musica e con il suo significato era di grande modernità, e ciò si evince da una lettera che Mendelssohn scrisse a Marc André Souchay nel 15 ottobre 1842: Ciò che mi comunica la musica da me amata non è affatto troppo vago per essere convertito in parole, ma, al contrario, è troppo definito. Se mi si chiedesse a cosa pensavo mentre componevo un Lied ohne Worte, io risponderei: proprio la musica così come l’ho scritta. E se anche mi fosse capitato di avere in mente alcune parole per uno o l’altro di questi Lieder, non vorrei mai dirle ad alcuno, poiché le stesse parole non hanno lo stesso significato per diverse persone. Solo la musica può avere il medesimo significato per tutti, un significato che, comunque, non può essere espresso con le parole.

Mendelssohn incarna il perfetto connubio tra tradizione e innovazione: ha sperimentato nuove strutture musicali senza mai perdere il suo peculiare equilibrio formale, ha recuperato la grande tradizione della musica sacra di Bach e di Händel rinnovandola alla luce dell’esperienza del Romanticismo tedesco. Se Mendelssohn non fosse esistito, l’evoluzione della musica nella seconda metà dell’Ottocento sarebbe stata certamente molto diversa. Forse ora i tempi sono finalmente maturi per riscoprire la vera grandezza di questo artista”

("Felix Mendelssohn: un grande compositore ancora da riscoprire" di Roberto Prosseda)

Musica: Mendelssohn, Concerto per violino Op. 64, Isaac Stern con l’Orchestra Sinfonica di Gerusalemme

13 marzo 1845: prima esecuzione a Lipsia del Concerto per violino di Felix Mendelssohn, con Ferdinand David come solista.

 

Un brano musicale al giorno

Michel Blavet: Concerto per flauto in La minore

13 marzo 1700 nasce Michel Blavet, virtuoso di flauto e compositore francese (morto nel 1768). Benché Blavet imparasse a suonare quasi tutti gli strumenti, si specializzò nel fagotto e nel flauto che teneva a sinistra, l'opposto di quello che la maggior parte dei flautisti tiene oggi. Quantz scrisse di Blavet: "La sua disposizione amabile e il modo coinvolgente danno origine a un'amicizia duratura tra noi e io sono molto debitore nei suoi confronti per i suoi numerosi atti di gentilezza".

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k