“L’amico del popolo”, 14 giugno 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

NAPOLÉON (Francia, 1955), regia di Sacha Guitry. Prodotto da Clément Duhour, Angelo Rizzoli. Sceneggiatura: Sacha Guitry. Musiche: Jean Françaix. Fotografia: Pierre Montazel. Montaggio: Raymond Lamy. Cast: Daniel Gélin, giovane Napoleone. Raymond Pellegrin, Napoleone anziano. Sacha Guitry, Talleyrand. Michèle Morgan, Joséphine de Beauharnais. Danielle Darrieux, Eléonore Denuelle. Maria Schell, Marie-Louise d’Austria. Lana Marconi, Marie Walewska. Dany Robin, Désirée Clary. Michèle Cordoue, Julie Clary. Patachou, Madame Sans-Gêne. Micheline Presle, Hortense de Beauharnais. Gianna Maria Canale, Pauline Bonaparte. Clément Duhour, Marshal Ney. Henri Vidal, Joachim Murat. Serge Reggiani, Lucien Bonaparte. Jean Marais, Montholon. Lucien Baroux, Louis XVIII. Pierre Brasseur, Barras. Jean Chevrier, Geraud Duroc. Maurice Escande, Louis XV. Noël Roquevert, Cambronne. Jean Gabin, Lannes. Yves Montand, Lefebvre. O. W. Fischer, Metternich. Erich von Stroheim, Ludwig van Beethoven. Orson Welles, Hudson Lowe. Jacques Dumesnil, Jean-Baptiste Bernadotte.

Il film segue la vita di Napoleone dalla sua prima infanzia in Corsica fino alla sua morte a Sant'Elena. Il film è noto per l'uso delle riprese di location per numerose scene, in particolare nelle tenute francesi di Malmaison e Fontainebleau, il Palazzo di Versailles e siti di battaglie napoleoniche tra cui Austerlitz e Waterloo.

NAPOLÉON (Francia, 1955), regia di Sacha Guitry

 

“…Un amante della guerra per la guerra. Un massacro di persone per la sua gloria. Si chiama film controproducente… Sacha Guitry non ha talento per la regia e le scene di battaglia sono disastrose. Risolti i colpi di andirivieni degli strappi dell'esercito, il carico di ponticelli a sciabola leggera girati in inseguimento sparato con il veicolo ma che non andava da nessuna parte, completa illeggibilità delle strategie militari. Non è molto meglio dal punto di vista dello sceneggiatore: le scene sono collegate senza alcun collegamento reale… L'aspetto positivo del film è la bellissima interpretazione di Raymond Pellegrin…
LA SCENA D’ANTOLOGIA: Il maresciallo Lannes (Jean Gabin), che ha sempre saputo preservare la sua schiettezza con Napoleone ed era uno dei più apprezzati marescialli dell'imperatore, amputato delle due gambe è sull'orlo della morte. Indica il campo di battaglia e grida "Basta" e muore. Breve apparizione di Jean Gabin e l'unica scena francamente ostile ai massacri napoleonici.”

(In www.rueducine.com)

NAPOLÉON (Francia, 1955), regia di Sacha Guitry

 

“…Napoleone, dal 1955, uno degli ultimi film del prolifico Guitry. Il cast è quasi senza pari e il casting è ispirato: Daniel Gélin interpreta il piccolo imperatore, Erich von Stroheim interpreta Beethoven (!) e Orson Welles interpreta Sir Hudson Lowe, il governatore di Sant'Elena mentre Bonaparte veniva esiliato lì. (Anche nel film: Danielle Darrieux, Jean Gabin, Michèle Morgan, Jean Marais, Pierre Brasseur, Serge Reggiani, Yves Montand) … Il film ha esattamente il tipo di effervescenza teatrale che ci si aspetta da un film di Guitry... Il film è raccontato dal punto di vista di Talleyrand - interpretato, ovviamente, da Guitry - che, al momento della morte di Napoleone, ricorda con i suoi amici la storia della vita del grande uomo.”

(Richard Brody in www.newyorker.com)

 

NAPOLÉON (Francia, 1955), regia di Sacha Guitry

 

Il film:

14 giugno 1807: la Grande Armata francese dell'imperatore Napoleone sconfigge l'esercito russo nella battaglia di Friedland in Polonia (il moderno Oblast di Kaliningrad russo) che pone fine alla Guerra della Quarta Coalizione.

 

Una poesia al giorno

Alla Primavera o delle favole antiche, di Giacomo Leopardi

Perché i celesti danni
ristori il Sole, e perché l’aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
delle nubi la grave ombra s’avvalla;
credano il petto inerme
gli augelli al vento, e la diurna luce
novo d’amor desio, nova speranza
ne’ penetrati boschi e fra le sciolte
pruine induca alle commosse belve;
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face del ver consunse
innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
di Febo i raggi al misero non sono
in sempiterno? ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
questo gelido cor, questo ch’amara,
nel fior degli anni suoi, vecchiezza impara?

Vivi tu, vivi, o santa
Natura? vivi, e il dissueto orecchio
della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
placido albergo e specchio
fûro i liquidi fonti. Arcane danze
d’immortal piede i ruinosi gioghi
scossero e l’ardue selve (oggi romito
nido de’ venti): e il pastorel ch’all’ombre
meridiane incerte, ed al fiorito
margo adducea de’ fiumi
le sitibonde agnelle, arguto carme
sonar d’agresti Pani
udì lungo le ripe, e tremar l’onda
vide, e stupì, ché, non palese al guardo,
la faretrata diva
scendea ne’ caldi flutti, e dall’immonda
polve tergea della sanguigna caccia
il niveo lato e le verginee braccia.

Vissero i fiori e l’erbe,
vissero i boschi un dí. Conscie le molli
aure, le nubi e la titania lampa
fûr dell’umana gente, allor che ignuda
te per le piagge e i colli,
ciprigna luce, alla deserta notte
con gli occhi intenti il viator seguendo,
te compagna alla via, te de’ mortali
pensosa immaginò. Che se, gl’impuri
cittadini consorzi e le fatali
ire fuggendo e l’onte,
gl’ispidi tronchi al petto altri nell’ime
selve remoto accolse,
viva fiamma agitar l’esangui vene,
spirar le foglie, e palpitar segreta
nel doloroso amplesso
Dafne o la mesta Filli, o di Climene
pianger credé la sconsolata prole
quel che sommerse in Eridano il Sole.

Né dell’umano affanno,
rigide balze, i luttuosi accenti
voi negletti ferîr, mentre le vostre
paurose latèbre Eco solinga,
non vano error de’ venti,
ma di ninfa abitò misero spirto,
cui grave amor, cui duro fato escluse
delle tenere membra. Ella per grotte,
per nudi scogli e desolati alberghi,
le non ignote ambasce e l’alte e rotte
nostre querele al curvo
Etra insegnava. E te d’umani eventi
disse la fama esperto,
musico augel, che tra chiomato bosco
or vieni il rinascente anno cantando,
e lamentar nell’alto
ozio de’ campi, all’aer muto e fosco,
antichi danni e scellerato scorno,
e d’ira e di pietà pallido il giorno.

Ma non cognato al nostro
il gener tuo; quelle tue varie note
dolor non forma, e te, di colpa ignudo,
men caro assai la bruna valle asconde.
Ahi, ahi! poscia che vòte
son le stanze d’Olimpo, e cieco il tuono,
per l’atre nubi e le montagne errando,
gl’iniqui petti e gl’innocenti a paro
in freddo orror dissolve; e poi ch’estrano
il suol nativo, e di sua prole ignaro,
le meste anime edúca;
tu le cure infelici e i fati indegni,
tu de’ mortali ascolta,
vaga Natura, e la favilla antica
rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
e se de’ nostri affanni
cosa veruna in ciel, se nell’aprica
terra s’alberga o nell’equoreo seno,
pietosa no, ma spettatrice almeno.

 

14 giugno 1837 muore Giacomo Leopardi, poeta e filosofo italiano (nato nel 1798)

 

“Canzone composta a Recanati nel gennaio 1822, e pubblicata per la prima volta nell’edizione di Bologna 1824. Il testo rappresenta un inno all’immaginazione, che nell’antichità e nell’età infantile di ogni uomo, consentiva di rendere “viva” “ogni cosa”. Questo tema era già stato più volte affrontato da Leopardi, ad esempio nel Discorso intorno alla poesia romantica e in diverse pagine dello Zibaldone (riferimenti essenziali per il Canto), ad esempio:

Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli. (Zib., pp. 63-4)

Nella poesia si legge che il ritorno della primavera, pur provocando un risorgimento del cuore e il ricordo della gioia passata, non può purtroppo far risorgere le illusioni dell’antica mitologia e della giovinezza, perché le rimpiante “favole antiche” del mondo classico sono ormai distrutte dal “vero” (“poscia che vite / son le stanze d’Olimpo, vv. 81-2):

Perché i celesti danni
ristori il sole ... (= “Per il fatto che il sole ripara i danni provocati dal cielo invernale”)
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede (= “torna”)
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face (= “fiaccola”) del ver consunse
innanzi tempo? ...

(vv. 1-2, 10-4)”

(In: www.internetculturale.it)

 

14 giugno 1837 muore Giacomo Leopardi, poeta e filosofo italiano (nato nel 1798)

 

1. Profilo linguistico
Giacomo Leopardi (Recanati, 1798 - Napoli, 1837) ricevette nell’infanzia un’educazione tradizionale, affidata a istruttori ecclesiastici. L’analisi linguistica degli scritti del periodo 1809-1810 non a caso rivela, specie per alcune scelte grafico-fonetiche e morfologiche, «la presenza di consuetudini formali della scuola dei Gesuiti» (Corti 1993: 10). Alcuni di questi tratti (uso del grafema j, troncamenti della vocale finale, ecc.) sarebbero scomparsi negli anni successivi; altri (come la prima persona dell’imperfetto indicativo in -a, il tipo per lo, per li davanti parola con iniziale consonantica, alternante con pel, pei), mantenuti in ogni genere di scrittura, con qualche infrazione più frequente negli usi epistolari: per es., per il passato compare in una lettera autografa del 22 luglio 1825; il tipo io ero è molto raro, ma i pochi esempi sono concentrati proprio nelle lettere, in particolare in quelle indirizzate ai familiari (Ricci 2003: 103-104).

La formazione del classicista, maturata da autodidatta con l’ausilio della ricca biblioteca paterna (studi di filologia classica, traduzioni di autori greci e latini, ecc.; Timpanaro 1973), si integra presto con lo studio dell’italiano letterario della tradizione tre-cinquecentesca. In questo ambito, che segna un passo decisivo per affinare il laboratorio linguistico delle opere maggiori (Canti, Operette morali), va segnalata l’attività di antologista e di commentatore: due antologie di testi in prosa e in poesia (la Crestomazia italiana del 1827 e la Crestomazia italiana poetica del 1828) suddivisi secondo generi tematico-testuali (narrazioni, descrizioni e immagini, allegorie, comparazioni e similitudini, ecc.), e un commento essenziale di tipo stilistico-grammaticale al Canzoniere petrarchesco (Le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, 1826), modernissimo nell’impostazione linguistica indirizzata ad ‘attualizzare’ la lingua di un autore antico a vantaggio di lettori stranieri o di lettori colti che non avessero una specifica formazione letteraria.

Una lingua molto scelta, ispirata ai modelli della tradizione e sapientemente bilanciata tra antico e moderno, è alla base delle poesie e delle prose letterarie maggiori: i Canti, pubblicati a Firenze nel 1831 e poi, in una seconda edizione accresciuta, a Napoli nel 1835 (vi compare per la prima volta “Il passero solitario”, ma non “La ginestra”, uscita postuma nel 1845), e le Operette morali, una raccolta di ventiquattro prose filosofiche di taglio e argomenti diversi pubblicata a Milano nel 1827, e in seguito, con lievi varianti linguistiche, a Firenze nel 1834 e a Napoli nel 1835.

Il carattere non convenzionale delle scelte linguistiche di Leopardi è testimoniato dalle prese di posizione contro il modello normativo della Crusca. Nelle “Annotazioni” alle dieci Canzoni (1824), che costituiscono il nucleo primitivo dei Canti, la difesa di alcune parole non registrate dalla Crusca nel suo Vocabolario (per es., l’esclamazione evviva! invece di viva!) o di latinismi particolari (erompere, equo, improbo, incombe, fratricida invece di fraticida, ecc.) avviene sulla base di «quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani […] incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole» (per Leopardi studioso del lessico, e a sua volta lessicografo e collaboratore del Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, cfr. Nencioni 1983; accademie nella storia della lingua).

Ma la vera e propria officina filosofica e linguistica leopardiana è senza dubbio lo Zibaldone di pensieri, composto di 4526 pagine autografe compilate dal 1817 al 1832 (ma ben 3500 sono concentrate nel periodo 1821-1823). Pubblicato postumo alla fine dell’Ottocento (un’antologia commentata di passi linguistici si trova in Leopardi, 1998), raccoglie molte osservazioni di linguistica generale, per es., la distinzione modernissima tra parole e termini, il concetto di europeismo lessicale (europeismi), di arcaismo, ecc., e altre più mirate alla componente grammaticale e al lessico dell’italiano che saranno messe a frutto sia dal poeta sia dal prosatore: si pensi all’impiego dell’ausiliare avere con i verbi transitivi pronominali (o riflessivi apparenti) nel tipo io me lo aveva dimenticato per io me lo era dimenticato (Zibaldone 4084); oppure alle numerose pagine dedicate all’uso aggettivale del participio passato con valore attivo, che ritroviamo spesso nei Canti, per es., negli sguardi innamorati di “A Silvia”, cioè «che innamorano», «che fanno innamorare».

2. Idee sulla lingua e sullo stile: parole, termini, europeismi
Legate alla filosofia sensistica del Settecento sono alcune note dello Zibaldone risalenti al periodo 1820-1821. Mettendo a punto un’osservazione di Cesare Beccaria (Ricerche intorno alla natura dello stile, 1770), secondo cui «i termini delle arti e i termini tecnici tutti […] debbono fuggirsi da chi scrive per dilettare e per persuadere vivamente l’animo», Leopardi oppone le voci scientifiche o termini «perché determinano e definiscono la cosa da tutte le parti» e «presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto», alle parole che «esprimono un’idea composta di molte parti e legata con molte idee concomitanti» (Nencioni 1983: 270-271; per le fonti illuministiche, Gensini 1984: 103-124); ai termini appartiene la precisione della lingua e il suo essere geometrica e razionale, alle parole la proprietà, cioè la sua originalità, che si discosta «dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale e del discorso umano regolato dalla dialettica».

Le parole sono dunque più adatte alla letteratura (soprattutto alla lingua poetica) che i termini denotativi propri del linguaggio filosofico e scientifico. Così parole come lontano, antico, notte, notturno, oscurità, profondo, solitudine, silenzio e simili sono «vaghe» e «indefinite» (aggettivi usati spesso in coppia) cioè «piacevoli» e «leggiadre» (vago non nel senso di «incerto, impreciso» che ha assunto nella lingua di oggi), perché producono sensazioni «indeterminate» e «indefinite».

All’opposizione tra termini e parole, Leopardi aggiunge, in un passo dello Zibaldone datato 26 giugno 1821, un terzo elemento, che chiama voci europee o (con un neologismo da lui coniato) europeismi, formato da voci comuni a tutte le lingue colte d’Europa, specialmente «in politica e in filosofia», ma appartenenti «a quella filosofia che entra tuttogiorno nella conversazione o nel discorso meno colto, meno studiato, meno artifiziato» (cfr. Tesi 1994: 17-19, dove si precisa la distinzione tra i termini delle scienze e gli europeismi). Tali parole - Leopardi ne cita alcune, attinte ora dal nuovo vocabolario affettivo postrinascimentale o dei comportamenti individuali (sentimentale, originalità), ora dal lessico tecnico di scienziati e filosofi (analisi e analizzare), ora dal vocabolario della sfera politica (demagogo, dispotismo, fanatismo) - si differenziano dai termini tecnico-scientifici perché «esprimono cose più sottili, e dirò così, più spirituali di quelle che potevano arrivare ad esprimere le lingue antiche e le nostre medesime ne’ passati secoli» e sono comuni nell’«uso quotidiano di tutte le lingue, e degli scrittori e parlatori di tutta l’Europa colta».

Anche in questo caso l’aspetto non convenzionale delle posizioni di Leopardi nei confronti di molti suoi contemporanei è sottolineato dal rifiuto di censurare gli europeismi o di definirli barbarismi o gallicismi (cioè francesismi), in nome di una concezione antipuristica della lingua (comune, per es., a quella di Melchiorre Cesarotti) che ha salde radici nell’Illuminismo europeo.

3. Arcaismi e arcaismi moderati
In campo linguistico l’interesse teorico di Leopardi si coniuga spesso con la prassi dello scrittore. È il caso, per es., della nozione di arcaismo (arcaismi). In una nota del 1821 Leopardi scrive: «Odio gli arcaismi, e quelle parole antiche, ancorché chiarissime, ancorché espressivissime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massime nella prosa» (Zibaldone 1099). Questo rifiuto però ammette delle eccezioni, per es., la facoltà di recuperare dall’uso degli scrittori antichi «parole e modi oggi disusati», i quali oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono così lontani da ogni senso di affettazione o di studio a usarli, e in somma così freschi […] che il lettore il quale non sa da che parte vengano, non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca (ibid.).

È bene sottolineare in linea generale che nelle Operette (ma anche nella prosa argomentativa dello Zibaldone) l’arcaismo non investe né la resa grafica (per es., il nesso ‹ns› in instituto), né la fonetica (per es., il tipo scuopre / cuopre costante in prosa), né la morfologia (per es., il pronome personale eglino «essi», la desinenza dell’imperfetto indicativo io era, il condizionale saria, ecc.) o la morfosintassi (per es., l’ordine dei clitici in se gli «gli si», l’enclisi facoltativa con i verbi di modo finito del tipo narrasi, ecc.): gli aspetti più propriamente strutturali della lingua leopardiana rimangono infatti legati all’uso scritto letterario del primo Ottocento e non possono definirsi in alcun modo scelte stilistiche individuali dell’autore…”

(Leggi l'articolo completo di Riccardo Tesi - Enciclopedia dell'Italiano, 2010, in: www.treccani.it)

14 giugno 1837 muore Giacomo Leopardi, poeta e filosofo italiano (nato nel 1798)

 

Un fatto al giorno

14 giugno 1944: Seconda guerra mondiale. Dopo diversi tentativi falliti, l'esercito britannico abbandona l'operazione Perch, il suo piano per catturare la città occupata dai tedeschi di Caen.

“L'operazione Perch fu un'offensiva britannica durante la seconda guerra mondiale tra il 7 e il 14 giugno 1944, durante la battaglia di Normandia. Lo scopo dell'operazione era di circondare e catturare la città di Caen, in mano tedesca, la quale era uno degli obiettivi principali dell'operazione Overlord. L'efficace resistenza tedesca e alcuni errori dei comandanti britannici fecero fallire l'operazione prima che gli obiettivi fossero raggiunti."

(Articolo completo in wikipedia.org)

Immagini:

 

Una frase al giorno

“Non si persegue il progresso per costruire belle fabbriche ma per fare belle persone. A che serve il progresso se fa poveri, schiavi, morti? Il capitalismo non è progresso, è sfruttamento di una classe sull'intero pianeta”

(Ernesto Rafael Guevara De la Serna, più noto come Che Guevara, nato a Rosario, il 14 giugno 1928, morto il 9 ottobre 1967, rivoluzionario, guerrigliero, politico, scrittore e medico argentino).

Ernesto Rafael Guevara De la Serna, più noto come Che Guevara, nato a Rosario, il 14 giugno 1928, morto il 9 ottobre 1967, rivoluzionario, guerrigliero, politico, scrittore e medico argentino

 

Ernesto Guevara nacque da una ricca famiglia borghese. Il padre, Ernesto Rafael Guevara Lynch, era un ingegnere civile; la madre era Celia de la Serna, una donna molto colta e assidua lettrice, che ebbe un ruolo determinante nella formazione politica e culturale del giovane Ernesto. Primogenito di cinque figli, trascorse la sua giovinezza in modo spensierato con i fratelli, trasferendosi più volte a causa di una forte asma contratta al secondo anno di vita che lo segnerà per tutta la vita. Fino a 17 anni visse in un paesino vicino Còrdoba, città montana dal clima secco che mitigava l’asma del giovane. Dai primi anni di vita si mostrò sempre molto energico e determinato, a scapito dei continui attacchi d’asma che lo attanagliavano. Impossibilitato dalla malattia a frequentare con regolarità la scuola, venne istruito principalmente dalla madre che gli insegnò a leggere e a scrivere e con cui instaurò un rapporto molto stretto e sincero. Durante la giovinezza Ernesto, continuamente esposto a nuovi stimoli, fu travolto da molteplici passioni: era un grande amante degli scacchi, praticò molti sport, soprattutto rugby; insaziabile lettore, si appassionò anche alla poesia e negli anni, le armi entrarono nella sua vita: suo padre era solito portarlo a sparare nelle domeniche estive. I genitori si interessarono attivamente alla guerra civile spagnola, accogliendo in casa esuli repubblicani. Coinvolsero così il giovane, che fu attratto per la prima volta da questioni politiche. Dopo essersi iscritto per un breve periodo alla facoltà di ingegneria, iniziò a studiare medicina all’Università di Buenos Aires.

Mentre frequentava l’università, decise di intraprendere un viaggio in solitaria, spinto dalla voglia di conoscere in prima persona le zone più disagiate della sua Argentina. Modificò una bicicletta, montandoci sopra un piccolo motore e visitò il nord del paese. Tornato a Buenos Aires, alternò momenti di studio ad esperienze lavorative. Nel 1951, a seguito di un nuovo viaggio, lo spirito nomade che fin da piccolo lo contraddistingueva, lo spinse ad interrompere nuovamente gli studi per partire con il suo amico d’infanzia Alberto Granados, alla volta dell’America Latina. I due, in sella ad una moto denominata La Poderosa partirono da Alta Gracia, vicino Còrdoba, e visitarono Cile, Perù, Venezuela e Colombia. In Perù ebbe modo di vivere un’esperienza significativa al servizio di un lebbrosario dove conobbe Hugo Pesce, esperto ricercatore medico e marxista che i due amici chiamavano “maestro”.

A Caracas, ultima tappa del viaggio, Guevara si divise dal compagno per volare a Miami dove rimase per una ventina di giorni. Tutti i pensieri e tutte le vicende vissute vennero annotate in dei diari dai quali nacquero le “Notas de viaje”, un testo fondamentale noto anche come “Latinoamericana”. Non abbandonò mai l’abitudine di scrivere ed annotare; in seguito alla morte, vennero pubblicati tutti i testi frutto delle sue esperienze. Ma due, possono essere considerate le opere più iconiche e conosciute: “La guerra di guerriglia” del 1961, un manuale approfondito di tattica e strategia che venne persino studiato dalla CIA stessa per braccare Guevara in Bolivia. Il secondo è “Diario della rivoluzione Cubana” del 1963, una vasta panoramica celebrativa della rivoluzione, dal suo inizio fino alla vittoria definitiva.

Ernesto Guevara nel 1951

Questi viaggi, colpirono profondamente il giovane Guevara: segnato dall’ingiustizia sociale, dal razzismo e dallo sfruttamento subito dalle popolazioni locali, si animò in lui un vivo interesse per le politiche sociali, mentre il suo pensiero politico si formava sotto le influenze marxiste dell’epoca, rimanendo affascinato dall’idea di una rivoluzione sociale come unico vero mezzo garante di equità e giustizia. In particolare, criticava aspramente l’imperialismo americano e lo sfruttamento che esercitava attraverso le multinazionali, come la United Fruit Company, che soggiogava praticamente tutto il continente latinoamericano.

Egli sognava una grande America meridionale unita, senza nazioni a porre confini fra i vari popoli, poiché nella sua ottica, si aveva tutti un’unica cultura condivisa da secoli. Dopo essersi laureato nel 1953, con una tesi sull’allergologia, riprese i suoi viaggi alla scoperta del continente, visitando Bolivia, Panama, Nicaragua e San Salvador: tutti paesi con un’instabilità politica più o meno forte. Nel 1954 raggiunse il Guatemala, dove il Presidente Jacopo Arbenz Guzmàn stava portando avanti una rivoluzione sociale attraverso varie riforme agrarie. Qui conobbe Hilda Gadea, sua prima moglie, che lo inserì in ambienti vicini al governo.

Ebbe modo di conoscere molti esuli cubani che parteciparono all’assalto della caserma Moncada - prima azione della rivoluzione cubana - e lo portarono a conoscenza del “Movimento 26 luglio” (data dell’assalto alla caserma). Giunse a conoscere lo stesso capo del movimento: Fidel Alejandro Castro Ruz.

È in Guatemala che Guevara inizia la sua attività di rivoluzionario - senza troppa fortuna - cercando di mettere in piedi una resistenza in difesa del governo Arbenz, attaccato da un esercito sovvenzionato dalla CIA e dalla United Fruit Company. Dopo pochi giorni, il Presidente Arbenz, isolato anche dai militari, fu costretto a dimettersi e Guevara, assieme ad esuli cubani, si rifugiò nel vicino Messico.

Consolidato il rapporto con la moglie Hilda, dalla quale ebbe una figlia, lavorò per un breve periodo ad un giornale sportivo per potersi sostentare. Riavvicinatosi agli esuli cubani conosciuti in Guatemala, conobbe Raul Castro, fratello di Fidel, il quale preparò un incontro col fratello che cambierà la sorte di entrambi i protagonisti di quell’occasione. Come lo stesso Guevara dichiarò nella sua ultima lettera inviata a Castro, c’era diffidenza circa le doti di Fidel come rivoluzionario e comandante: “Pensando alla mia vita passata credo di aver lavorato con sufficiente onorabilità e dedizione per consolidare il trionfo rivoluzionario. Il mio unico rimpianto di una certa gravità è di non aver confidato in te dai primi momenti della Sierra Maestra, e non aver compreso con sufficiente chiarezza le tue qualità di condottiero e di rivoluzionario”.

Fidel Castro e Ernesto Guevara

Nonostante ciò, parafrasando le parole di Guevara, fra i due esisteva: “Un legame di romantica simpatia avventurosa e la considerazione che per un ideale così puro valeva la pena di morire su una spiaggia straniera”.
Così, un giovane speranzoso aderì al Movimento 26 Luglio, guidato da Fidel, che si prefiggeva il compito di liberare Cuba dalla dittatura corrotta e sanguinaria di Fulgencio Batista. Entrò a far parte del gruppo col ruolo di medico. È in questa situazione che si guadagna il soprannome “Che”, intercalare argentino, datogli dai compagni cubani che sentivano questa parola uscire da ogni frase pronunciata dal medico del gruppo. Partecipò ad un basilare addestramento militare, ma lo sbarco a Cuba venne ritardato perché poliziotti messicani, pagati da Batista, arrestarono prima Castro e, in seguito, gran parte della compagnia.

Dopo questo inconveniente, il 25 Novembre 1956 lo scafo Granma, con a bordo 82 rivoluzionari di cui alcuni fra i principali interpreti della rivoluzione, partì per Cuba. I sette giorni di navigazione e lo sbarco furono drammatici: quasi tutti i membri soffrivano il mal di mare, vi era scarsità di viveri e appena sbarcati, individuati dall’esercito batistiano, furono costretti a scappare in mezzo ad una palude senza precisi ordini e scopi se non quello di sopravvivere per riorganizzarsi e mettersi in contatto con il resto della organizzazione. Dopo qualche giorno dallo sbarco, a causa di ingenuità dovute alla stanchezza, la compagnia subì un’imboscata ed il Che fu costretto a fare una scelta:
“Avevo davanti uno zaino pieno di medicamenti e una cassa di proiettili, pesavano troppo per trasportarli insieme: presi la cassa di proiettili. Forse quella fu la prima volta che mi si pose davanti il dilemma se dedicarmi alla medicina o al mio dovere di soldato rivoluzionario”.

Solo una dozzina di soldati sopravvisse all’imboscata, il resto dell’equipaggio fu catturato e giustiziato mentre molti altri si divisero dal gruppo principale. Nonostante ciò, il gruppo raggiunse la Sierra Maestra - la principale catena montuosa cubana - dove riuscì a riassestarsi. Sulle pendici della Sierra Maestra ebbe inizio la guerra di guerriglia. I primi successi portarono morale e nuovi arruolati fra le file del movimento castrista e la rivoluzione che, col passare graduale del tempo, inglobò l’intero popolo cubano già diffidente nei confronti della dittatura batistiana.

Da ora in poi Che Guevara coprirà più il ruolo di soldato che di medico, guadagnandosi incarichi di prestigio fra le file dell’esercito rivoluzionario. Punto culminante fu il guidare la battaglia di Santa Clara, offensiva finale che portò alla vittoria l’esercito rivoluzionario il primo gennaio 1959. L’evento segnò anche la fuga di Batista, oramai isolato anche dai militari che stavano firmando una pace separata. A seguito della vittoria della rivoluzione Guevara ottenne la “cittadinanza cubana per diritto di nascita”, divorziò da Hilda Gadea, dalla quale si era separato ormai da tempo e si risposò con una rivoluzionaria cubana: Aleida March, dalla quale ebbe quattro figli.

Ernesto Rafael Guevara De la Serna, più noto come Che Guevara, nato a Rosario, il 14 giugno 1928, morto il 9 ottobre 1967, rivoluzionario, guerrigliero, politico, scrittore e medico argentino 

Divenne procuratore del tribunale rivoluzionario istituito alla prigione di La Cabaña. Ricoprì svariati ruoli all’interno del governo cubano, diventando un uomo politico fra i più importanti dell’isola. Da questo momento, mise temporaneamente da parte le sue pulsioni rivoluzionarie per dedicarsi ai vari incarichi governativi. Questi, gli permisero di visitare moltissimi paesi e di sviluppare in modo più maturo la sua idea politica, fondata sull’unione dei popoli soggiogati dalla piovra imperialista. A capo di varie delegazioni economiche, viaggiò in Medio Oriente, Africa, Cina, Unione Sovietica ed Europa, incontrando esponenti politici di rilievo: Gamal Abd el-Nasser, Josip Broz Tito, Jawaharlal Nehru e Sukarno, tutti personaggi che aderiranno - insieme a Cuba - al movimento dei non allineati. Si dedicò fino al 1965 ai vari incarichi coperti all’interno di Cuba: nel 1960 venne posto a capo del primo campo di lavoro castrista istituito nell’isola di Guanahacabibes, allo scopo di punire: “la gente che ha mancato nei confronti della morale rivoluzionaria”.

Promosse un processo di alfabetizzazione, lavorò per l’Istituto Nazionale per la Riforma Agraria, ricoprì il ruolo di Presidente della Banca centrale della Repubblica di Cuba e nel 1961 divenne Ministro dell’industria e dell’Economia. Rispolverò la vecchia passione per gli scacchi, promuovendo il gioco fra i ragazzi cubani e organizzando tornei internazionali. Inoltre, fu un personaggio fondamentale per la trasformazione del processo rivoluzionario: da liberazione dalla dittatura di Batista a rivoluzione socialista. Egli fu un convinto sostenitore della teoria marxista-leninista, ammiratore di Lenin e per molti versi di Stalin ed accanito critico dell’imperialismo americano. A seguito della rivoluzione, iniziò a scostarsi dal comunismo di stampo sovietico, criticandone il conformismo ideologico, la gestione del blocco socialista e l’eccessiva burocratizzazione di questi paesi. Nel ruolo di Ministro delle Industrie, con una lettera al Ministro della cultura cubana Armando Hart, criticò la pubblicazione di manuali sovietici per l’insegnamento della dottrina comunista, accusati di impedire lo sviluppo di un pensiero proprio, poiché il partito lo faceva al posto di ogni singolo individuo. Il distacco dall’Unione Sovietica divenne più marcato nel 1962, a seguito della crisi missilistica di Cuba: mentre l’intero pianeta trattenne il respiro per sei giorni, con il terrore che potesse scoppiare un conflitto atomico, il Che vide come un tradimento il ritiro dei missili sovietici da Cuba, che aveva fortemente voluto installare. Come affermerà in seguito nel messaggio alla Tricontinentale del 1966, egli sarebbe stato a favore di una terza guerra mondiale se questa avesse permesso ai popoli oppressi di liberarsi dal giogo statunitense: “In definitiva, bisogna rendersi conto che l’imperialismo è un sistema mondiale, fase suprema del capitalismo, e che bisogna batterlo in un grande scontro mondiale. La finalità strategica di questa lotta deve essere la distruzione dell’imperialismo”.

Aveva una visione molto cinica sulla rivoluzione socialista, e sempre in questo messaggio, afferma la necessità di creare un uomo nuovo, spietato e animato dall’odio verso l’imperialismo: “L’odio come fattore di lotta - l’odio intransigente contro il nemico - che spinge oltre i limiti naturali dell’essere umano e lo trasforma in una reale, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così, un popolo senza odio non può vincere un nemico brutale”.

Nel 1964 ebbe modo di confrontarsi due volte con l’ONU: prima a Ginevra, per la conferenza sul commercio e lo sviluppo, dove espose una lucida denuncia - di grande modernità - del meccanismo di dominio imperialistico: “Il Fondo monetario internazionale, l’International bank of reconstruction and development, il General agreement of tariffs and trade e, nella nostra America, il Banco interamericano de Desarollo sono esempi di organismi internazionali posti al servizio delle grandi potenze, fondamentalmente dell’imperialismo nordamericano […]. Tutti questi organismi […] in realtà non sono altro che i feticci dietro i quali si nascondono gli strumenti più sottili per la perpetuazione dell’arretratezza e dello sfruttamento”.

Poi a New York in occasione dell’Assemblea generale dell’Onu, in qualità di capo della delegazione cubana. Guevara inizia il suo intervento con una panoramica mondiale su tutti i soprusi attuati dagli Stati Uniti; il discorso viene poi incentrato sulle indipendenze: attacca ancora una volta l’imperialismo americano accusato, questa volta, di aver scavalcato la sovranità dell’isola in più occasioni, cercando addirittura di ribaltare il governo con la spedizione di Playa Giron, l’arcinota invasione della baia dei Porci.

Il 24 febbraio 1965, Guevara fece quella che viene definita la sua ultima apparizione pubblica, tenendo un discorso ad Algeri innanzi al Secondo seminario economico sulla solidarietà afroasiatica. Il suo discorso è fondamentale poiché rappresenta il testamento politico del Che: esso esorta i popoli sottosviluppati ad unirsi per intraprendere una lotta dura e sanguinosa contro colonialismo, neocolonialismo ed imperialismo, che per secoli hanno impedito lo sviluppo di popoli e nazioni. Ma a suscitare scalpore fu l’invettiva ai paesi socialisti, complici di contribuire tacitamente a questo sfruttamento: “lo sviluppo dei paesi, che iniziano il cammino verso la liberazione (dall’imperialismo) deve pesare sui paesi socialisti […] non può esistere il socialismo se nelle coscienze non si opera un cambiamento che provochi un nuovo atteggiamento fraterno di fronte all’umanità, sia di indole individuale, nella società nella quale si sta costruendo il socialismo o è stato già costruito, sia di indole mondiale, in relazione a tutti i popoli che soffrono l’oppressione imperialista. Crediamo che con questo spirito vada affrontata la responsabilità di aiuto ai paesi dipendenti e che non si deve più parlare di sviluppare un commercio di mutuo beneficio […] se stabiliamo questo tipo di relazione (mutua assistenza) fra i due gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in una certa maniera, complici dello sfruttamento imperiale. I paesi socialisti hanno il dovere morale di liquidare la tacita complicità con i paesi sfruttatori dell’occidente. Un grande cambio di concezione consisterà nel cambiare l’ordine delle relazioni internazionali: non deve essere il commercio che stabilisce la politica, bensì, al contrario, il commercio deve essere subordinato ad una politica fraterna verso i popoli”.

A marzo, di ritorno a Cuba, venne accolto con grande solennità da Fidel e Raul Castro, coi quali ebbe un lungo colloquio al quale presero parte anche alcuni comandanti della rivoluzione. Il tema della conversazione resta tutt’oggi oscuro, poiché impossibile da verificare attraverso testimonianze orali o scritte. Probabilmente venne presa la decisione di affidare al Che il comando del primo intervento militare cubano in Africa, più precisamente in Congo a sostegno dei Simba, movimento ribelle marxista. Ad ogni modo, dopo questo colloquio, si ritirò dalla vita pubblica e la sua ubicazione fu il grande mistero cubano per quasi un anno. Il 3 ottobre 1965 Fidel Castro rese pubblica una lettera inviatagli presumibilmente diversi mesi prima da Guevara. In questa lettera egli asseriva la propria volontà di lasciare l’isola per: “Lottare contro l’imperialismo ovunque esso sia”.

La missione era quella di esportare la rivoluzione partita da Cuba. Rinunciò ad ogni incarico governativo e alla cittadinanza cubana, riaffermando comunque la sua solidarietà e il suo forte attaccamento al popolo che lo accolse come uno di loro. Molti storici attribuiscono il ritiro e l’abbandono di Cuba all’insuccesso del piano di industrializzazione, altri alle divergenze con i dirigenti cubani, altri ancora attribuiscono questo ritiro alle forti pressioni provenienti dall’URSS, sempre più allarmata dalle tendenze filocinesi di Guevara, nel momento in cui le divergenze fra i due maggiori paesi socialisti si facevano più marcate. In realtà, Che Guevara non diede mai modo di far suppore le sue simpatie verso la Cina, piuttosto criticò a più riprese l’amministrazione sovietica: di fronte agli studenti universitari cubani o nei discorsi ai quadri del Ministero dell’industria; queste critiche culminarono nel già citato discorso di Algeri, dove comunque la Cina non venne esentata da critiche, essendo anch’essa una potenza socialista.

Ad ogni modo, il Congo rappresentava il paese perfetto per esportare la rivoluzione: in forte fermento sociale, erano in corso tumulti dovuti all’assassinio del Presidente filocomunista ed antimperialista Patrice Lumumba, avvenuto nel 1961. All’interno del paese si erano formati due governi contrapposti: uno, affiancato dagli USA con capitale a Léopoldville ed uno con capitale a Stanleyville, affiancato da URSS e altri paesi minori socialisti fra cui, appunto, Cuba. Che Guevara aveva avuto pochi rapporti con il continente africano, i maggiori contatti li ebbe con l’Algeria, a seguito della guerra di indipendenza terminata nel 1962, dove strinse un sincero rapporto con Ahmed Ben Bella, rivoluzionario e primo Presidente d’Algeria. L’operazione in Congo era finalizzata ad affiancare movimenti ribelli fedeli alle idee di Lumumba. I movimenti erano però fortemente separati e impregnati di settarismo, animismo e sciamanesimo.

Le truppe autoctone erano solite usare una pozione magica prodotta dagli stregoni locali, che li avrebbe dovuti proteggere dalle pallottole del nemico. Erano presenti anche fazioni ruandesi che volevano esportare la rivoluzione nel loro paese; dopo pochi mesi abbandonarono la guerriglia a causa della scarsa volontà combattiva dei congolesi, affermando che se dovevano morire in questo modo, sarebbe stato meglio farlo nella propria terra. Le differenze culturali e i rapporti di forza all’interno dei movimenti furono fatali per la spedizione. L’addestramento si rivelò poco efficace e la trasmissione di malattie veneree attanagliò tutte le truppe non congolesi. A seguito dell’eccessivo immobilismo e di svariati fallimenti militari, Guevara insieme al contingente cubano, fu costretto ad abbandonare la guerriglia. Siamo nel novembre 1965; egli descrisse il ritiro come uno spettacolo doloroso, lamentevole, bruciante e senza gloria.

I successivi mesi vennero trascorsi dal Che a Dar es Salaam, a Praga e nella Repubblica Democratica Tedesca. In questo lasso di tempo, rifletterà sul fallito tentativo rivoluzionario in Congo, ammettendo i suoi errori incentrati sulla volontà di voler traslare le modalità della guerriglia sulla Sierra Maestra in Congo. Che Guevara rimase profondamente deluso del proprio fallimento e dopo un breve periodo trascorso in incognito a Cuba, raggiunse la Bolivia con passaporto falso nel novembre 1966. Il partito comunista boliviano comprò un pezzo di terra nella regione del fiume Nancahuazù, nel sud-est del paese, per poter addestrare gli uomini alla guerriglia e dove installare il campo base dei rivoluzionari. Il gruppo era composto da una cinquantina di persone tra cubani, peruviani e boliviani che però, non conoscevano la regione. I guerriglieri dovettero subito far fronte alle condizioni non favorevoli della foresta boliviana e all’indifferenza, nei migliori dei casi, dei contadini boliviani avversi agli stranieri.

La regione prescelta era poco abitata e questo impossibilitava ogni sostegno popolare. Tuttavia, il morale delle truppe era alto. Anche la differenza di supporto logistico e strumentale con il Congo, era notevole: nel paese africano i contatti fra Cuba ed il contingente cubano non cessarono mai grazie alle radiotrasmittenti; la Tanzania, paese alleato a Cuba, permetteva il passaggio d’armi ed era facilmente raggiungibile. In Bolivia la situazione era ben diversa: le radio trasmittenti erano difettose e smisero di funzionare dopo due mesi, il partito comunista boliviano, dopo l’iniziale aiuto concesso ai rivoluzionari, voltò le spalle a Guevara e compagni, espellendo i militanti che avevano preso parte o aiutato la guerriglia e condannò l’Esercito di Liberazione Nazionale di Bolivia.

Nel marzo 1967, avvennero i primi scontri con l’esercito governativo: il risultato fu favorevole ai guerriglieri, i quali tuttavia furono costretti ad abbandonare il campo base, ove vennero trovate delle foto che ritraevano, fra gli altri, Che Guevara. Quando il Presidente René Barrientos - democraticamente eletto - venne a conoscenza della presenza del rivoluzionario argentino, intensificò la lotta alla guerriglia. Dopo il primo scontro, si unirono al gruppo due internazionalisti: il francese Regis Debray e l’argentino Ciro Bustos; invece di migliorare la situazione la complicarono: vennero arrestati dall’esercito governativo e confermarono l’effettiva presenza di Che Guevara. Da quel momento il governo statunitense iniziò ad inviare personale della CIA ed uno speciale contingente Rangers, esperti nel combattimento nelle giungle tropicali e idonee all’addestramento degli inesperti soldati dell’esercito governativo.

Ad aprile, scontri con l’esercito regolare causarono dei feriti fra le fila dei ribelli e il gruppo si divise in due colonne che non si sarebbero più rincontrate per la mancanza di radio trasmittenti, pur giungendo a distanze molto ravvicinate. A giugno, gli operai delle miniere dichiararono i distretti minerari “territorio libero” e di voler sostenere la guerriglia. Sembrò la scintilla che avrebbe fatto accendere il braciere rivoluzionario, ma il 24 giugno si consumò il massacro di San Juan: decine di minatori vennero uccisi e circa duecento furono deportati in campi di lavoro. A luglio, nuovi scontri costrinsero l’esercito ribelle ad una fuga tempestiva, nel corso della quale vennero persi vari zaini, fra cui quello con le medicine del Che. Le condizioni dei guerriglieri erano sempre peggiori, l’asma di Guevara lo costringeva a duri sforzi. Il 26 settembre a La Higuera, l’esercito ribelle subì ulteriori perdite; la situazione era drammatica, molti erano i feriti e si scelse una via di fuga percorribile da tutti, ma più esposta. I guerriglieri vennero avvistati: nell’ultima battaglia, Che Guevara venne ferito e disarmato con un colpo che mise fuori uso la sua arma: era la fine dell’avventura boliviana.

Guevara si arrese, venne catturato dall’esercito e rinchiuso in una scuola. Il governo boliviano lo avrebbe voluto morto e Barrientos, annunciò pubblicamente la sua morte, affermando che era avvenuta durante gli scontri. L’agente della CIA Félix Rodriguez, che conduceva le operazioni, aspettava la decisione del governo statunitense in merito alla sorte del Che. La risposta non tardò ad arrivare. Se ne decretò l’esecuzione capitale, che avvenne il 9 ottobre 1967. Il corpo fu trasferito a Vallegrande, dove fu esposto a fotografi e giornalisti come un macabro trofeo. Successivamente, gli vennero mozzate le mani da un medico militare per verificarne l’effettiva identità. Al fratello, che chiedeva la restituzione della salma alla famiglia, fu impedito di vedere il corpo, che venne poi gettato in una fossa comune sempre a Vallegrande, nei pressi dell’aeroporto militare. I resti di Guevara, vennero ritrovati soltanto nel 1997. Furono poi trasportati a Cuba e successivamente tumulati nel grande mausoleo ancora oggi visibile a Santa Clara.

La morte di Guevara coincise con il tramonto delle speranze che avvolgevano la fine degli anni Sessanta: speranze di cambiamento, pace, equità e giustizia sociale. Le idee espresse nei suoi discorsi sono tutt’altro che passate; le critiche nei confronti di un sistema di sottomissione dei popoli sono ora più attuali che mai, con la differenza che, ora più di prima, questo sistema agisce in modo subdolo e nascosto, ma pur sempre con gli stessi attori. A noi rimane il mito di un uomo che ha dato la vita per gli ideali in cui credeva e la speranza che un giorno le battaglie portate avanti dal Che, non debbano più essere combattute.

Le frasi della celebre canzone Stagioni di Francesco Guccini, racchiudono il sentimento che a molti suscitò la morte dell’indimenticabile rivoluzionario.

“Ci prese come un pugno, ci gelò di sconforto,
sapere a brutto grugno che Guevara era morto:
in quel giorno d’ottobre, in terra boliviana
era tradito e perso Ernesto “Che” Guevara…
Si offuscarono i libri, si rabbuiò la stanza,
perché con lui era morta una nostra speranza:
erano gli anni fatati di miti cantati e di contestazioni,
erano i giorni passati a discutere e a tessere le belle illusioni…
“Che” Guevara era morto, ma ognuno lo credeva
che con noi il suo pensiero nel mondo rimaneva…”.”

(Manfredi Caruso in: www.lintellettualedissidente.it)

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Un brano musicale al giorno

Antonio Sacchini, Chimène ou Le Cid (Fontainebleau, 1783)

Antonio Maria Gaspare Sacchini (Firenze, 14 giugno 1730 - Parigi, 6 ottobre 1786) è stato un compositore e insegnante italiano appartenente alla scuola musicale napoletana ma particolarmente attivo a Londra e a Parigi.

Interpreti:

Agnieszka Slawinska, Chimène
Artavazd Sargsyan*, Rodrigue
Enrique Sanchez-Ramos, Le Roi
Matthieu Lecroart, Don Diègue
Jérôme Boutillier, Un Hérault

Les Chantres du Centre de musique baroque de Versailles
Le Concert de la Loge

Direttore: Julien Chauvin

Antonio Maria Gaspare Sacchini (Firenze, 14 giugno 1730 - Parigi, 6 ottobre 1786) è stato un compositore e insegnante italiano appartenente alla scuola musicale napoletana ma particolarmente attivo a Londra e a Parigi

Chimène ou Le Cid è una tragedia in 3 atti di Antonio Sacchini, su libretto di Nicolas-François Guillard andata in scena a Fontainebleau il 16 novembre 1783. Il soggetto dell'opera è ispirato alla tragicommedia, Le Cid, di Pierre Corneille, ed indirettamente all'epica spagnola del Cantar de mio Cid (XII secolo) ed ai drammi di Guillén de Castro y Bellvís, Las mocedades del Cid. Comedia primera e Comedia segunda (nota anche come Las hazañas del Cid) (1605-1615).

Sacchini si era già accostato al soggetto del Cid Campeador due volte. La prima occasione era stata a Roma, nella stagione di Carnevale del 1769, quando, sotto il titolo de Il Cidde, aveva messo in musica un libretto di Giovacchino Pizzi in precedenza già utilizzato da Piccinni, e che sarebbe rimasto in auge per almeno un altro decennio. Protagonista dell'opera era stato il soprano castrato, allora sulla cresta dell'onda, Tommaso Guarducci. Un volta trasferitosi a Londra, Sacchini aveva ripreso in mano il soggetto per il suo esordio inglese (Il Cid, 1773), utilizzando una rielaborazione del libretto di Pizzi effettuata da Giovanni Gualberto Bottarelli, poeta ufficiale del King's Theatre, la quale includeva nuove scene spettacolari, in particolare "una marcia trionfale, cori e balletti, intese a tener desto l'interesse in un pubblico che conosceva poco l'italiano". Protagonista dell'opera era stato, in questa seconda occasione, un altro dei grandi castrati dell'epoca, Giuseppe Millico, il quale, una volta rientrato in Italia, sponsorizzò una seconda messa in musica dello stesso libretto di Bottarelli da parte di Giovanni Paisiello, a Firenze, nel 1775.

Trasferitosi da Londra a Parigi nel 1781, e riuscito faticosamente ad esordire all'Opéra nel gennaio del 1783 con il Renaud, Sacchini si risolse, per la sua seconda opera francese, a riprendere in mano il soggetto del Cid Campeador, questa volta su un nuovo libretto, intitolato Chimème, preparatogli da colui che doveva diventare il suo poeta di riferimento a Parigi, Nicolas-François Guillard. "Come ci si poteva aspettare, - rileva Dennis Libby in proposito - questo libretto la più stretta somiglianza con la tragedia di Corneille, nel mentre esso veniva incontro al gusto francese per cori e balletti". Secondo Lajarte, "Chimène era, ad esser precisi, una traduzione, e non un'opera nuova", mentre Pitou scrive direttamente che "essa era stata messa in scena a Roma e a Londra precedentemente alla sua prima parigina". In effetti vale per Chimène ciò che è stato accertato anche per il Renaud rispetto alle precedenti Armida (Milano e Firenze, 1772) e Rinaldo (Londra, 1780), e cioè che, al di là delle frequenti illazioni circa un presunto rapporto di filiazione progressiva tra i vari lavori cronologicamente successivi, "paiono non esserci interrelazioni musicali di qualsiasi sostanza tra le tre opere ciddiane di Sacchini, anche se ciò non può essere asserito con assoluta certezza non essendo l'edizione londinese sopravvissuta nella sua interezza (ne furono [comunque] pubblicati estratti insolitamente ampi)".

La gestazione della seconda opera parigina di Sacchini va collocata nel quadro della lotta delle fazioni che animava allora il mondo musicale francese, in una sorta di ripresa, a tempo scaduto, della Querelle des Bouffons di un paio di decenni prima. Le ostilità erano state aperte, a metà degli anni '70, degli italofili avversari della musica teutonica di Gluck, i quali erano riusciti ad attirare a Parigi uno dei campioni della scuola napoletana, Niccolò Piccinni, praticamente coetaneo, compagno di studi e persino collaboratore, agli inizi, di Sacchini. La battaglia tra i due partiti, "gluckisti" e "piccinnisti", era continuata fino al 1779, quando Gluck, di fronte al fiasco del suo Echo et Narcisse, aveva deciso di riparare provvisoriamente a Vienna; dopodiché, le ostilità avevano continuato a covare sotto la cenere. L'arrivo di Sacchini a Parigi, nel 1781, era stato caldeggiato dallo stesso Piccinni che vedeva in lui un naturale alleato, ma il vuoto lasciato sul campo dal musicista tedesco, le trame dei nemici di Piccinni, la suscettibilità e il bisogno di denaro di Sacchini avevano finito per mettere inevitabilmente in competizione anche i due italiani, ed una specie di terzo partito musicale si era allora affacciato sulla scena parigina: i "sacchinisti", «sorta di gluckisti moderati, i quali, come disse argutamente Grimm, avevano aderito alla nuova setta solo per invidia nei confronti di Piccinni. Con la sua irresolutezza e debolezza, Sacchini arrivò solo a mettersi contro l'uno e l'altro partito senza riuscire ad farsi benvolere da alcuno dei due; ed al momento della lotta li ebbe entrambi contro».

Nella stagione operistica che l'Académie Royale e la Comédie Italienne avevano avuto mandato di organizzare congiuntamente per l'autunno del 1783 a corte, nel Castello di Fontainebleau, era già da tempo prevista la rappresentazione di un'opera nuova di Piccinni, la Didon, e Sacchini si fece convincere ad affrettare la composizione del secondo dei tre lavori che aveva in contratto con l'Opéra, e per il quale, come già detto, venne prescelto come soggetto quello ispirato alla tragedia Le Cid di Corneille. I due melodrammi vennero messi apertamente in competizione: «Didon doveva essere rappresentata il 16 ottobre e Chimène il 18 novembre 1783. Per meglio comunque parificare le chance, la Saint-Huberty [primadonna dell'Opéra] doveva ricoprire i ruoli del titolo in entrambe le opere ... per ciascuna [delle quali] erano state previste due rappresentazioni».

La Didon, probabilmente il capolavoro di Piccinni in ambito serio, risultò un trionfo, mentre Chimène ebbe più che altro un successo di stima e fu rappresentata una sola volta delle due previste, perché il «re in persona, che pure non era certo un melomane, volle riascoltare Didon una terza volta. "Quest'opera - diceva - mi fa l'effetto di una bella tragedia".» Come che fu, sia Piccinni che Sacchini furono «presentati al re, e, siccome si era appena accordata al primo una pensione di seimila lire, anche al secondo ne fu attribuita una eguale; Sacchini [ebbe], in più del suo emulo, il prezioso onore di essere presentato al re dalla regina medesima», la quale era in effetti la sua grande patrona, avendo lui probabilmente occupato nel suo cuore il posto che era stato del suo grande maestro di gioventù, Gluck, ora lontano da Parigi.

Non sempre il giudizio della corte corrispondeva però a quello del pubblico parigino, e molti aspettavano al varco le successive rappresentazioni all'Opéra, ospitata all'epoca nella Salle du Théâtre de la Porte-Saint-Martin, nella speranza di in un eventuale riscatto dell'opera sacchiniana, dalla quale la stessa primadonna Saint-Huberty era stata rapita al punto da definirne "incantatrice" la musica. Tuttavia, questo riscatto non si verificò appieno, né possono essere chiamate a giustificazione le difficoltà speciose create dal Comitato dell'Académie Royale, che portarono ad un rinvio fino al 9 febbraio 1784 della messa in cartellone del lavoro (la Didon, invece veniva programmata regolarmente dal 1º di dicembre e la Saint-Huberty fu addirittura incoronata in scena il 16 gennaio), e neanche quelle reali connesse con un'indisposizione della primadonna, che costrinsero ad una nuova interruzione del regolare corso delle rappresentazioni fino al 27 febbraio, quando la stessa regina si ripresentò in teatro. Certo, il successo fu franco ed anche duraturo: l'opera fu data 21 volte nel 1784 e fu poi ripresa altre trentacinque volte prima della sua definitiva uscita dal repertorio nel 1808, ma la vita della Didon si prolungò ben oltre, fino al 1826, godendo di un totale di duecentocinquanta rappresentazioni. Essa può pure vantare almeno una ripresa moderna da parte del Petruzzelli di Bari, nel 2001, e una corrispettiva registrazione discografica, fortune queste che non risultano invece ancora arrise alla Chimène.”

(Leggi la descrizione delle scene in: wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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