“L’amico del popolo”, 15 luglio 2019

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LA GUERRE DU FEU (La guerra del fuoco, Francia, Canada, 1981), regia di Jean-Jacques Annaud. Soggetto: J. H. Rosny Aîné (romanzo). Sceneggiatura: Gérard Brach. Produttore: John Kemeny, Denis Héroux, Jacques Dorfmann, Véra Belmont. Fotografia: Claude Agostini. Montaggio: Yves Langlois.

«80.000 anni fa, la sopravvivenza degli uomini nelle immense distese inesplorate dipendeva dal possesso del fuoco. Per quegli esseri primitivi, il fuoco rimase un oggetto misterioso fino a quando non impararono a crearlo. Il fuoco doveva essere rubato alla natura, mantenuto in vita, protetto da vento e pioggia, difeso dai nemici. Il fuoco divenne simbolo di potere e sinonimo di sopravvivenza. Coloro che possedevano il fuoco, possedevano la vita.»

(Testo introduttivo del film)

LA GUERRE DU FEU (La guerra del fuoco, Francia, Canada, 1981), regia di Jean-Jacques Annaud

La tribù dei Cro-Magnon Ulman viene attaccata dai Wagabu, un gruppo di Homo erectus. Nella fuga il piccolo focolare che costituisce la sua riserva di fuoco, fonte di vita e di calore, finisce in acqua. In tre si mettono alla ricerca del fuoco, riuscendo a rubarlo a una tribù di neandertal cannibali. Nel trambusto una giovane donna di Homo sapiens di nome Ika, prigioniera dei cannibali, riesce a liberarsi dai legacci e si unisce ai tre cacciatori. Tra il capo dei cacciatori e la giovane nasce un legame. Durante il viaggio di ritorno i tre vengono in contatto con la tribù della giovane, dalla cui cultura più sviluppata apprendono la tecnica per accendere il fuoco, l'uso delle frecce scagliate col propulsore, ma anche la facoltà di ridere e di accoppiarsi in modo antropico. Tutto ciò lo trasmetteranno alla loro tribù una volta concluso il loro viaggio.

“Si tratta di un film d'avventura di ambientazione preistorica, la cui caratteristica peculiare è che gli interpreti si esprimono solo tramite gesti e suoni gutturali incomprensibili. Per rendere efficace questa scelta azzardata, Annaud si è servito di illustri consulenti: lo scrittore Anthony Burgess, noto per aver creato una lingua artificiale, il Nadsat, per il suo romanzo Arancia meccanica, ha ideato un linguaggio fittizio per il film, l'Ulam, mentre l'etologo Desmond Morris si è occupato invece del linguaggio gestuale.”

(Wikipedia)

“In piena preistoria due tribù si contendono il segreto del fuoco, che può conferire la superiorità all'una o all'altra. La sopravvivenza è messa in pericolo dagli elementi, dalle fiere, dai nemici, ma l'istinto e la primitiva intelligenza avranno la meglio. Film ambizioso, splendidamente fotografato, nel quale Annaud sfugge abilmente alle trappole (il ridicolo innanzitutto) che una tale ambientazione poteva creare”.

(www.mymovies.it)

LA GUERRE DU FEU (La guerra del fuoco, Francia, Canada, 1981), regia di Jean-Jacques Annaud

“Questo film originale, sperimentale, racconta un’immaginaria vicenda accaduta 80mila anni fa ad uomini primitivi, quando si stava affacciando sul pianeta l’homo sapiens. Meritava celebrazione. Per dare idea dell’importanza dell’opera, comincio ad elencarne i premi: Oscar 1983, miglior trucco; César 1982, miglior film e miglior regista; Saturn Award 1982, miglior film internazionale; Genie Awards 1983, costumi, suono, realizzazioni, attrice principale.

Una tribù, direi di neandertaliani, conserva un piccolo fagotto con all’interno una brace che si premura di mantenere sempre ardente, al fine di poter accendere in ogni momento il fuoco. Disporre del fuoco è vitale, serve certo a cuocere la carne delle prede ma soprattutto, cosa fondamentale, a non diventare preda! Li vedremo quegli animali che ancora risiedono nelle nostre paure ancestrali, e tra queste quella di morire sbranati è ancora la più temuta: lupi, mammut, tigri dai denti a sciabola, orsi.

C’è però un nemico, ed è il più imprevedibile di tutti, che non viene allontanato dal fuoco, ne è anzi attratto e non esita ad ucciderti per procurarselo. Sono gli altri uomini. Saranno lotte sanguinose. Solo i primi sapiens, capaci di produrselo sfregando legni, usciranno da questa vita nomade, perennemente violenta, e saranno capaci di creare i primi insediamenti stabili. Il film ci mostrerà quel periodo in cui sapiens e neandertaliani (si pensa) hanno convissuto, la fase di passaggio e il finale sarà davvero commovente in questo senso, mostrandoci proprio una metamorfosi, col neandertal legato alla donna sapiens che guarda alla luna dopo essere riuscito ad accendere un fuoco dal nulla. Ci sarà un caldo senso di umanità in questo, nell’uomo che finalmente occupa la sua mente in qualcosa di più alto, che non sia il semplice sopravvivere: si comincia forse a Vivere.

Questa del linguaggio, insieme alla ricostruzione ambientale e all’uso estremamente realistico degli animali, è la cosa che alla fine più mi ha colpito, anche e soprattutto dal punto di vista cinefilo. Non preoccupatevi di cercarlo in alcuna lingua o doppiaggio: si sentono solo dei suoni che nella vostra onomatopeica interpretazione, unita alla gestualità che comunque non è assimilabile alla nostra moderna, assumeranno i significati che voi spettatori vorrete dargli. Scoprirete lo stupore di “cominciare a capirli”, inteso non in modo testuale ovviamente. Ci si calerà nel contesto del periodo, e il poco che si faceva era brevemente descrivibile. Chiaro che il linguaggio non è una scienza indipendente, s’è evoluta con l’evolversi delle esigenze, ha seguito di pari passo il progresso delle organizzazioni sociali e dell’evoluzione tecnica/tecnologica.
Capolavoro notevolissimo per i tempi e ancora molto attuale, per qualità d’immagini, di trucco e di contenuti. Visione obbligatoria.

(robydick)

LA GUERRE DU FEU (La guerra del fuoco, Francia, Canada, 1981), regia di Jean-Jacques Annaud

"Uno dei grandi successi della stagione viene a premiare un regista francese ingiustamente ignorato finora; e autore di un'opera più che originale (La victoire en chantant, sguardo grottesco sul colonialismo, girato nel 1976).

Dire che La guerra del fuoco sia nata da un'iniziativa originale e coraggiosa è poco: ci voleva infatti l'insolenza dell'indubbio talento di Annaud per osare filmare senza cadere nel didattismo o nel ridicolo, la nascita dell'uomo. La guerra del fuoco è infatti la storia di una iniziazione, il viaggio di tre ominidi alla ricerca appunto del fuoco, ma soprattutto di una statura umana. Questo passaggio dalla dimensione animale a quella umana Annaud ha avuto un altro coraggio: quello di girarla in ambienti naturali (che sono, tra l'altro, di grandissimo effetto). E di scegliere un tono dissacrante. L'animale impara ad essere uomo, ad incontrare il sacro, a scoprire il linguaggio e l'amore. Ma, al tempo stesso, ma mano che l'azione prosegue, i personaggi si caricano di quei miti comportamentali (la gag dell'albero spogliato dai due uomini primitivi assediati dalla belva, la caratterizzazione del compagno di viaggio, frustrato dalla mancanza di una compagna) che hanno maturato l'evoluzione del cinema.

La guerra del fuoco è un film molto preciso. Annaud si è cautelato in ogni aspetto del film: la sceneggiatura scritta con Gerard Brach, che è il collaboratore degli ultimi Antonioni, Ferreri e Polansky. Non solo: per il "linguaggio" ha voluto Anthony Burges come consulente, e per la gestualità Desmond Morris. Paradossalmente (ma non poi così tanto, poiché la poesia non nasce ovviamente da una somma di addendi) la grande cura con la quale Annaud ha preparato il suo film finisce con il nuocere alla dimensione dello stesso. Annaud ha voluto dire tutto, mostrare l'impossibile. E da questo eccesso di realismo nascono i pregi del film (la sua attenzione per i personaggi, i gesti, le espressioni) ma anche i limiti. C'è più emozione, più sintesi cosmica in una sola sequenza di Kubrick (il celebre lancio della clava che si trasforma in astronave dell'inizio di Odissea dello spazio) che in tutta la durata di La guerra del fuoco. Ma anche se Annaud non è Kubrick, il film rimane perfettamente godibile”.

(Fabio Fumagalli in www.filmselezione.ch)

LA GUERRE DU FEU (La guerra del fuoco, Francia, Canada, 1981), regia di Jean-Jacques Annaud

 

Una poesia al giorno

Di memoria e di oblio, di Walter Benjamin (traduzione in Sonetti e poesie sparse, Einaudi, 2010, a cura di R. Tiedemann)

Di memoria e di oblio un giorno niente
resterà se non un canto presso la sua culla
nulla celando e nulla rivelando
canto senza parole dalle parole non compreso

canto che salirebbe dal profondo dell’anima
come dalla terra convolvoli e nasturzi
come voci nel suono d’organo alla messa
si stringerebbe il nostro sperare in questo canto

nessun conforto esiste oltre questo canto
e nessuna tristezza lontana da quel canto
contiene astro e animale come in un tessuto

e morte e amici senza distinzione
ogni cosa vive in questo canto
poiché vi entrò del più venusto il passo.

Walter Bendix Schöenflies Benjamin (Berlino, 15 luglio 1892 - Portbou, 26 settembre 1940) 

Walter Benjamin (nome completo Walter Bendix Schöenflies Benjamin, Berlino, 15 luglio 1892 - Portbou, 26 settembre 1940) è stato un filosofo, scrittore, critico letterario e traduttore tedesco, pensatore eclettico che si è occupato di epistemologia, estetica, sociologia, misticismo ebraico e materialismo storico. Il lavoro di Benjamin, riconosciuto postumo, ha influenzato filosofi (quali Theodor Adorno, Georg Lukács e Hannah Arendt), mistici (come Gershom Scholem) e drammaturghi come Bertolt Brecht.”

(Wikipedia)

“Benjamin Walter, filosofo, critico e sociologo tedesco, studiò a Berlino, Friburgo e Monaco, laureandosi in filosofia a Berna (1919). Si accostò quindi al marxismo di G. Lukács e strinse amicizia con M. Horkheimer e Th. W. Adorno con i quali collaborò a Francoforte s. M. e, dopo l'avvento del nazismo, a Parigi. In seguito alla disfatta della Francia, cercò di fuggire negli Stati Uniti, ma alla frontiera spagnola, per non cadere nelle mani della Gestapo, si uccise. Punto di incontro di significative e talora contrastanti esperienze culturali - dal misticismo teologico di G. Scholem alle dottrine critiche di E. Bloch, al neokantismo di H. Cohen e H. Rickert, alla sociologia di M. Horkheimer e Th. W. Adorno, al marxismo di G. Lukács e B. Brecht - la riflessione di B. si è sviluppata attorno al problema del linguaggio, aspetto decisivo tanto dell'esperienza filosofica, che di quella artistica e letteraria. Egli è così pervenuto a una teoria dell'interpretazione basata sul concetto di un'unica e divina lingua originaria, scaduta nel corso del tempo a insieme di segni e a convenzionale strumento di comunicazione (Ueber Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, 1916; Die Aufgabe des Uebersetzers, 1923). In questa prospettiva assumono rilievo i suoi studî sulle avanguardie e sui fenomeni artistici nella moderna società di massa, con la perdita di quel "quid" sacrale, magico e misterioso (aura) da cui l'arte era originariamente circondata e il suo scadimento a oggetto di consumo (Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1928, trad. it. 1980; Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936, trad. it. 1966). In polemica poi con le correnti storicistiche contemporanee e facendo personale uso delle categorie marxiste, B. ha anche elaborato sue tesi di filosofia della storia che pongono nella rottura rivoluzionaria con il presente e nel recupero di una tradizione teologica, messianica e sacrale, la "redenzione" dell'uomo. La maggior parte degli scritti sono raccolti in Schriften, 2 voll., 1955 (trad. it. parziale Angelus novus, 1962) e Briefe, 2 voll., 1965. Altre opere apparse in Italia: Sull'hascish (1975) e Parigi, capitale del 19° secolo (1986).”

(Treccani)

 

Un fatto al giorno

15 luglio 484 a.C.: Dedicazione del Tempio di Castore e Polluce nell'antica Roma.

Tempio di Castore e Polluce a Roma

"Il Tempio di Castore e Polluce (italiano: Tempio dei Dioscuri) è un antico tempio nel Foro Romano, a Roma, nel centro Italia. E 'stato originariamente costruito in segno di gratitudine per la vittoria nella battaglia del Lago Regillo (495 a.C). Castore e Polluce (Polesipi greci) erano i Dioscuri, i "gemelli" dei Gemelli, i figli gemelli di Zeus (Giove) e Leda. Il loro culto venne a Roma dalla Grecia attraverso la Magna Grecia e la cultura greca del Sud Italia.
Il tempio romano è uno dei numerosi templi di Dioscuri rimasti nell'antichità.

L'ultimo re di Roma, Lucio Tarquinio Superbo, ei suoi alleati, i latini, condussero guerra alla neonata Repubblica Romana. Prima della battaglia, il dittatore romano Aulus Postumio Albus Regillensis giurò di costruire un tempio per i Dioscuri se la Repubblica fosse vittoriosa.

Secondo la leggenda Castore e Polluce apparvero sul campo di battaglia come due abili cavalieri in aiuto della Repubblica; e dopo che la battaglia era stata vinta, apparvero di nuovo sul Foro a Roma innaffiando i loro cavalli nella Primavera di Juturna annunciando così la vittoria. Il tempio si trova sul punto presunto del loro aspetto.
Uno dei figli di Postumius fu eletto duoviro per dedicare il tempio il 15 luglio (le idi di luglio) 484 a.C."

(Articolo completo in en.wikipedia.org)

“Il tempio dei Dioscuri (meglio noto come tempio dei Càstori) è un tempio del Foro Romano nell'antica Roma. Il suo nome ufficiale era aedes o templum Castoris ("tempio" o "santuario di Càstore"), ma nelle fonti si ritrova anche nominato come aedes Castorum o aedes Castoris et Pollucis ed era dedicato ai Dioscuri. Si trovava all'angolo sud-orientale della piazza del Foro, nei pressi della fonte di Giuturna.
Venne promesso in voto dal dittatore Aulo Postumio Albo Regillense nel 499 o 496 a.C. in seguito all'apparizione dei Dioscuri, che avevano abbeverato i loro cavalli presso la fonte di Giuturna dopo la battaglia del lago Regillo. Venne dedicato nel 484 a.C. dal figlio di Postumio, nominato duoviro per sovraintendere alla sua erezione.
Primo esempio di tempio romano dedicato a divinità elleniche, fu sempre legato alla classe degli equites e probabilmente dal tempio partiva la tradizionale parata degli equites (transvectio equitum), istituita da Quinto Fabio Massimo Rulliano nel 304 a.C. e che si teneva ogni anno il 15 luglio, anniversario della battaglia.
A partire dal 160 a.C. fu adoperato come luogo di riunione del Senato e nello stesso periodo davanti al tempio venne istituito un importante tribunale. Per tutto il I secolo a.C. ebbe una funzione più di edificio pubblico, legato alla vita politica, che di edificio religioso. Negli ambienti aperti nel podio erano conservati i pesi e le misure ufficiali e alcuni di essi erano utilizzati come "banche" o depositi.
Dopo la fondazione subì diverse ricostruzioni, attestate dalle fonti.

“Su un alto podio sorgono le tre colonne corinzie superstiti del tempio dei Dioscuri, ovvero dei due gemelli divini Castore e Polluce. La leggenda narra che, nel corso della battaglia presso il lago Regillo (499 a.C.), che opponeva i Romani ai Latini, alleati di Tarquinio il Superbo nel tentativo di riconquistare Roma, apparvero due misteriosi cavalieri, che guidarono i Romani alla vittoria. Subito dopo, gli stessi cavalieri furono visti abbeverare i cavalli alla Fonte di Giuturna ed annunciarono in città la vittoria, per scomparire subito dopo. Il popolo riconobbe in essi i Dioscuri: il dittatore Aulo Postumio Albino fece voto di erigere un tempio in loro onore, che fu dedicato da suo figlio nel 484. Il tempio fu restaurato da L. Cecilio Metello Dalmatico nel 117 a.C. e poi ancora da Verre. Un ultimo restauro si ebbe dopo l'incendio del 12 a.C. ad opera di Tiberio: il nuovo edificio, al quale appartengono i resti monumentali ancora visibili, fu dedicato nel 6 d.C. Il podio, di cui resta soltanto la parte in opera cementizia, è in gran parte quello del 117 a.C. ed ingloba vari resti della fase precedente: vogliamo ricordare che un blocco marmoreo del tempio fu asportato ed utilizzato come base della statua equestre di Marco Aurelio...”

(Articolo completo con foto in www.romasegreta.it)

 

Una frase al giorno

“I pazienti spesso cercano di morire di fame, di impiccarsi, di tagliarsi le arterie; pregano di essere bruciati, sepolti vivi, cacciati nei boschi e lasciati morire. Uno dei miei pazienti ha colpito il collo così spesso sul bordo di uno scalpello fissato a terra che tutte le parti morbide sono state tagliate attraverso le vertebre.”

(Emil Kraepelin, Neustrelitz, 15 febbraio 1856 - Monaco di Baviera, 7 ottobre 1926, è stato uno psichiatra e psicologo tedesco).

“Kraepelin fu un uomo erudito e brillante; grazie all'aiuto di numerosi altri psichiatri del tempo elaborò concetti quali parafrenia, demenza precoce, ebefrenia e catatonia, dando loro una valida spiegazione. Fu pioniere del concetto di malattia nella psichiatria basata su tre elementi quali: psicopatologia descrittiva, eziologia organica e storia naturale. Attraverso i suoi scritti mostrò una reale comprensione per le variabili psicologiche legate all'ambiente ed elencò, tra i primi, situazioni cliniche in cui fattori sociali svolgevano un ruolo predominante.

Il nome di Kraepelin è per lo più associato a due malattie: la demenza precoce e la mania depressiva. Attraverso i suoi studi e attraverso la pubblicazione delle sue opere determinerà una spaccatura generazionale all'interno della psichiatria italiana. Con le rinnovate edizioni dei suoi trattati lo psichiatra tedesco consoliderà l'impianto della psichiatria ad indirizzo clinico, venendo così a creare un divario tra coloro che consideravano la psichiatria come una disciplina risucchiata dai problemi della gestione manicomiale, e le cosiddette "giovani leve", attratte dalla novità d'impostazione di tale disciplina messa in luce dallo stesso Kraepelin. ... Il nome di Kraepelin è strettamente connesso a due malattie: la Dementia Praecox e la "Mania Depressiva".

La Demenza precoce, era a suo avviso dovuta a sintomi quali la demenza semplice, ebefrenia, catatonia e paranoia. Il concetto di mania depressiva è invece dovuto a quello di alienazione periodica e ciclica e da tre sottosintomi quali mania semplice, malinconia e amenza. Per Kraepelin era importante formulare una diagnosi, quindi una successiva prognosi. Nacque così una prima distinzione tra i due fenomeni in base al loro sviluppo e alla loro eziologia, ma essendo a quel tempo il criterio eziologico alquanto speculativo, tutto ciò si basò essenzialmente sulle differenze nello sviluppo della malattia.

Fu però questo un criterio caduco e poco duraturo, in quanto si mise in evidenza che, se da un lato le condizioni di una parte degli schizofrenici andavano migliorando, quelle di alcuni maniaci depressivi subivano invece un continuo peggioramento. Attualmente le sue teorie fondamentali sulla eziologia e la diagnosi dei disturbi psichiatrici costituiscono la base di tutti i principali sistemi diagnostici attualmente in uso, in particolare l'American Psychiatric Association's DSM-IV e il World Health Organization's ICD-10...”

(Articolo completo in: it.wikipedia.org)

“La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906 dal neuropatologo Alois Alzheimer (1863-1915). Fu durante la Convenzione psichiatrica di Tubingen che Alzheimer presentò il caso di una donna di 51 anni affetta da una sconosciuta forma di demenza. Ma fu soltanto nel 1910 che la malattia ebbe un nome, quando Emil Kraepelin, il più famoso psichiatra di lingua tedesca dell'epoca, ripubblicò il suo trattato "Psichiatria", nel quale definiva una nuova forma di demenza scoperta da Alzheimer, chiamandola appunto malattia di Alzheimer.
Risulta peraltro che, nella caratterizzazione della malattia, abbia avuto un ruolo chiave anche un giovane ricercatore italiano: Gaetano Perusini (1879-1915). Egli faceva parte di un gruppo di psichiatri italiani che preferì non seguire la moda allora vigente della teorie non organiche, vale a dire della soluzione e del trattamento psicoanalitico come privilegiati per le malattie mentali. Essi preferirono affidare la propria preparazione allo studio anatomico dei cervelli dei pazienti. Su questa linea era anche Alois Alzheimer, che seguiva gli orientamenti della scuola prettamente anatomica di Emil Kraepelin.
Il Perusini si recò nel 1906 a Monaco, proprio presso la scuola di Kraepelin e sembra che sia stato quest'ultimo ad affiancarlo ad Alzheimer nella ricerca. Non si conosce con esattezza la data di arrivo di Perusini a Monaco: non è certo cioè che egli avesse già iniziato a frequentare il laboratorio di Alzheimer all'epoca della Convenzione di Tubingen (3-4 novembre 1906). Certo è invece che il maestro affidò al giovane ricercatore italiano almeno la continuazione della sua ricerca sulla strana forma di demenza e tanto dovette esserne soddisfatto da permettergli di rianalizzare (o di continuare) persino il suo primo caso clinico, che Alzheimer non doveva considerare concluso. Perusini studiò quattro casi e organizzò il suo studio in 54 pagine e 79 figure, che furono pubblicate sulla rivista Histologische und histopathologische Arbeiten; autori Franz Nissl ed Alois Alzheimer. Perusini non veniva nemmeno citato. L'importanza di questo studio, comunque, sta soprattutto nel fatto che Perusini percepì l'azione di una specie di cemento che incollava insieme le fibrille neuronali. Questa scoperta di fatto risale a circa dieci anni fa, esattamente al 1984, quando venne fatto ampio uso della più sofisticata biologia molecolare.”

(In www.alzheimer.it)

  • 15 luglio 1910: nel suo libro Clinical Psychiatry, Emil Kraepelin dà un nome al morbo di Alzheimer, nominandolo dopo il suo collega Alois Alzheimer.

 

Un brano musicale al giorno

Giovanni Buonaventura Viviani, Sonata per tromba e organo in do maggiore

I. Andante 00:00
II. Allegro 01:34
III. Presto 02:54
IV. Allegro 04:18
V. Adagio 05:54

Maurice André, tromba. Heldwig Bilgram, organo.

 

Giovanni Buonaventura Viviani (Firenze, 15 luglio 1638 - Pistoia, 1693 circa)

Giovanni Buonaventura Viviani (Firenze, 15 luglio 1638 - Pistoia, ...dopo il 1692) fu un compositore e violinista italiano. Lavorò alla corte di Innsbruck come violinista almeno tra il 1656 e il 1660. Tra il 1672 e il 1676 fu direttore della musica di corte a Innsbruck, che, dopo l'estinzione degli Asburgo tirolesi, era passato sotto il controllo dell'imperatore. Sebbene nelle pubblicazioni del 1678 Viviani si descrivesse ancora come detentore di questa posizione, sembra più probabile che egli fosse effettivamente a Venezia lavorando alla sua sistemazione dello Scipione l’Africano di Francesco Cavalli e alla sua opera Astiage, che furono entrambe rappresentate a Venezia quell'anno. Sempre quell'anno, Viviani dirige un oratorio presso l'Oratorio di San Marcello a Roma con Arcangelo Corelli e Bernardo Pasquini. Fu probabilmente elevato alla nobiltà nello stesso anno, da quando in seguito si nominò "Nobile del Sacro Romano Imperio". Tra il 1678 e il 1679 e tra il 1681 e il 1682 fu a Napoli come direttore di una troupe di cantanti d'opera e, mentre era lì, eseguì alcune delle sue opere e oratori. Nel 1686 fu maestro di cappella del principe di Bisignano. Dal gennaio 1687 al dicembre 1692 fu maestro di cappella del Duomo di Pistoia.

Come compositore Viviani è conosciuto soprattutto per le sue opere e cantate soliste che seguono lo stile di Antonio Cesti. Si ipotizza che Viviani abbia studiato con Cesti durante i suoi anni di Innsbruck, che spiega le somiglianze nello stile tra i due compositori; in ogni caso, certamente conosceva il lavoro di Cesti. Le sue opere strumentali sono prevalentemente in stile italiano, anche se sono riconoscibili anche influenze della Germania meridionale e austriache. Di particolare interesse sono i recitativi strumentali della Sinfonia cantabile nella sua op. 4, che è scritto a imitazione di una cantata solista; ci sono anche due sonate in op. 4 per tromba e basso continuo. I Solfeggiamenti, pezzi vocali privi di testo destinati a fini didattici, sono insoliti esempi di questo genere a causa del numero dei loro movimenti e della loro lunghezza eccezionale. Le sue altre composizioni includono due sonate per tromba e organo, due sonate per tromba solista, sonate per violino e basso continuo, e diversi Capricci

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k