“L’amico del popolo”, 15 marzo 2019

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno III. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

SAIT-ON JAMAIS... (Un colpo da due miliardi, Francia, Italia, 1957), regia di Roger Vadim. Scritto da Roger Vadim, Pero Budak. Musica di John Lewis. Fotografia Armand Thirard. Montaggio di Victoria Mercanton. Cast: Françoise Arnoul nei panni di Sophie. Christian Marquand nel ruolo di Michel Lafaurie. Robert Hossein come Sforzi. O. E. Hasse come Eric von Bergen. Franco Fabrizi nel ruolo di Busetti. Franco Andrei come Bernard. Carlo Delle Piane come Jeannot. Mario Passante come ispettore. Lila Rocco come Lisa. Margaret Rung come contessa. Christian Cazau come Coco.

Il barone Eric von Bergen e il suo segretario Sforzi sono a Venezia per portare a termine un affare con uno Stato straniero: la vendita della matrice con la quale hanno fabbricato denaro falso durante la seconda guerra mondiale. A mandare all'aria la trattativa sarà il colpo di fulmine tra il fotoreporter Michel e la bella Sophie, l'amante del barone.

SAIT-ON JAMAIS... (Un colpo da due miliardi, Francia, Italia, 1957), regia di Roger Vadim

 

Una poesia al giorno

Ritorno in patria, di Paul Heyse

Qui è di nuovo la patria,
tra le alte fronde del giardino
mi dà il benvenuto la vecchia casa.
Con quanta timidezza
sono germogliate su ogni ramo
le verdi foglie di maggio nell’alito rigido
della primavera tedesca!
Da nessuna parte risplendono fiori,
come laggiù a migliaia,
un’unica rosa,
margheritine nel prato
e teneri si schiudono nel cespuglio
i boccioli della peonia.
Ma non si fidano dell’ingannevole sole,
che occhieggia allettante,
poiché solo ieri, ho sentito,
ha nuovamente
nevicato nella primavera di Monaco.
Con animo oppresso
varco la soglia.
Viziato
dal caldo sole del sud,
in questa fredda patria
mi abituerò di nuovo alla pallida luce?
Ma lì ai piedi della scala allarga
le snelle braccia l’Adorante, (1)
come a pregare Iddio,
che il mio ingresso sia benedetto,
e appena salgo,
mi saluta una schiera famigliare,
che mi ha atteso nel lungo inverno:
ricordi, tristi e felici,
sono qui presenti in ogni stanza,
dove ho vissuto, amato, sofferto,
stato giovane e diventato vecchio
e il mio cuore retto
tenuto in mani sicure.
E in me si grida: sia felice il ritorno!
Qui sei a casa e laggiù
sul tuo lago solo un ospite.
Infatti le radici profonde del tuo essere
affondano saldamente in terra tedesca,
anche se la cima volentieri
si libra nel cielo italiano.
Domani però,
se di notte nel tuo vecchio letto
hai riposato e, soave, il canto del merlo
di buon mattino ti ha destato,
vai per i ben noti
vicoli e piazze,
naturalmente non come laggiù
avvolti dal profumo delle siepi d’alloro, ma in compenso
di quando in quando ti si fa incontro
un volto che saluta affabile,
e qualcuno ti dà e ti stringe la mano:
Salve! Sei tornato finalmente?
Abbiamo sentito la tua assenza.
Ora, spero, rimarrai un poco qui!
Si, vecchi amici!
Se loro ci mancano, ci manca il meglio
anche nel paese, dove fioriscono i limoni.

(1) Si tratta di una statua in bronzo a grandezza naturale collocata all’inizio della scala che conduceva al secondo piano della villa di Heyse a Monaco.

La poesia è tratta dal volume di Paul Heyse Verse und Skizzen vom Gardasee - Versi e disegni dal Garda, a cura di Paolo Boccafoglio e Herfried Schlude, traduzione di Paolo Boccafoglio, editore Marco Serra Tarantola, 2010.

Paul Johann Ludwig von Heyse (Berlino, 15 marzo 1830 - Monaco di Baviera, 2 aprile 1914) scrittore, poeta e drammaturgo tedesco

Motivazione del Premio Nobel: «Un tributo alla consumata capacità artistica, permeata dall'idealismo, che egli ha dimostrato durante la sua lunga carriera produttiva come poeta lirico, drammaturgo, novellista e scrittore di storie brevi famose nel mondo»

Paul Johann Ludwig von Heyse (Berlino, 15 marzo 1830 - Monaco di Baviera, 2 aprile 1914) scrittore, poeta e drammaturgo tedesco.
Tra i maggiori esponenti del circolo dei poeti di Monaco, vincitore nel 1910 del premio Nobel per la letteratura, scrisse soprattutto novelle, spesso ambientate in Italia, tra cui L'arrabbiata (1855) e Villa Falconieri und andre Novellen (1888). Scrittore di vivace fantasia, era altresì dotato di una acuta capacità di indagare i problemi dell'intimo, anche i più profondi e complessi.

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Da ascoltare:

  • Mädchenlied (Canto di fanciulla), op. 107 n. 5, lied per voce e pianoforte, 1886. Musica: Johannes Brahms (1833-1897) Testo: Paul Heyse. Prima esecuzione: Vienna, Singakademie von Gesellschaft der Musikfreunde, 11 febbraio 1887
  • Christa Ludwig, "Mädchenlied"; Johannes Brahms

Paul Johann Ludwig von Heyse (Berlino, 15 marzo 1830 - Monaco di Baviera, 2 aprile 1914) scrittore, poeta e drammaturgo tedescoMädchenlied

Auf die Nacht in der Spinnstub'n
Da singen die Mädchen,
Da lachen die dorfbub'n
Wie flink geh'n die Rädchen.

Spinnt jedes am Brautschatz,
Dass der Liebste sich freut.
Nich lange, so gibt es
Ein Hochzeitgeläut.

Kein Mensch, der mir gut ist,
Will nach mir fragen,
Wie bang mir zu Mut ist,
Wemm soll ich's klagen?

Die tränen rinnen
Mir Ubers Gesicht -
Wofür soll ich spinnen?
Ich weiss es nicht!


Canto di fanciulla

Di notte nella stanza delle filatrici
cantano le fanciulle,
ridono i ragazzi del villaggio,
come veloci girano le rotelline.

Ogni fanciulla fila il suo corredo da sposa
per la delizia del suo amato.
Tra non molto, si udranno
le campane del giorno di nozze.

Nessun uomo, che mi va bene,
mi chiederà in sposa,
che paura ho nell'animo,
con chi posso sfogarmi?

Le lacrime scorrono
grondando su tutto il mio viso -
perché mai devo io filare?
Proprio non lo so!

(Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia; Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 22 febbraio 1985)

 

Un fatto al giorno

15 marzo 1564: l'imperatore Mughal Akbar abolisce la "jizya" (imposta pro-capite).

Akbar il Grande, Akbār-e Aẓam (Umarkot, 15 ottobre 1542 - Agra, 27 ottobre 1605)Muḥammad Abū l-Fatḥ Jalāl al-dīn, meglio conosciuto come Akbar il Grande, Akbār-e Aẓam (Umarkot, 15 ottobre 1542 - Agra, 27 ottobre 1605), fu il terzo sovrano timuride dell'Impero Moghul, Gran Mogol dal 1556 fino alla morte. I fatti della sua vita sono narrati nell'Akbarnama (Akbar nāmeh), cronaca ufficiale, riccamente miniata sul suo regno, commissionata dallo stesso sovrano.

Fra i più importanti imperatori dell'Impero Mogul, grazie all'impegno militare (operò diverse conquiste espandendo i domini della dinastia) e alla politica di riforma amministrativa, e inoltre agli sforzi in campo religioso, fu impegnato nel far convivere le religioni maggioritarie del regno, come l'induismo e l'islam.

Akbar considerava con grande serietà il fatto di essere l'imperatore di un popolo con più religioni e dedicò molto tempo e risorse per cercare punti di contatto tra le diverse fedi del popolo su cui regnava. Si spese così, oltreché in campo amministrativo migliorando l'apparato burocratico, anche sul fronte sociale attenuando i prelievi fiscali, sforzandosi di renderli omogenei (tale parità di trattamento implicava anche un uguale riconoscimento di natura religiosa). Egli era estremamente tollerante nei confronti dell'induismo, mentre al contrario era molto critico nei confronti dell'Islam; volle così approfondire la conoscenza di altri culti, invitando a dibattere pubblicamente e liberamente alcuni esponenti delle principali religioni presenti nel suo regno: mussulmani, zoroastriani, indù, giainisti e anche cristiani, questi ultimi provenienti da Goa, possedimento portoghese, nonché dalle missioni francescane e gesuite. Applicò per primo, cosa evidentemente di grande novità per quel tempo (soprattutto presso i regni mussulmani), un criterio di tolleranza religiosa, facendo in modo che i vari credi potessero convivere senza che ne prevalesse alcuno.
La sua fama di sovrano clemente (soprattutto per il trattamento accondiscendente verso le missioni e le ambascerie cristiane ed europee) si estese all'Occidente, dove fu noto col nome di "Gran Mogol", dovuto all'origine mongola (il suo antenato Tamerlano era di etnia turco-mongola) della sua dinastia, e che venne esteso in seguito anche ai suoi successori. Le frequenti diatribe, i sottili ragionamenti teologici e soprattutto i vari tentativi di conversione nei suoi confronti, operati soprattutto da parte dei missionari gesuiti, ebbero il risultato di allontanare definitivamente Akbar da ogni tipo di religione ufficiale, tanto che nel 1579, sfiduciato anche dagli esponenti di un Islam ortodosso, si autoproclamò infallibile in materia di fede e nel 1582 fondò una sua personale religione chiamata Din-i tawhid-i ilahi ("monoteismo"), che purtuttavia rimase circoscritta alla cerchia dei letterati di corte, e non ebbe alcun seguito presso il popolo, che rimase totalmente legato alle proprie antiche fedi.
La nuova religione derivava dalla lunga permanenza di Akbar in Persia, e si basava fondamentalmente sull'Islam, in particolare sufi, ma registrava anche una forte influenza dallo sciismo; era comunque fondata sul concetto dell'unicità di Dio e dell'unità del reale.
Akbar assunse il titolo di "Rivelatore di quanto è all'interno e rappresentante di quanto esiste", titolo di chiara derivazione sciita, che vede l'imam come colui che sparge la conoscenza di Dio e plasma il mondo in funzione di tale conoscenza. Tra le derivazioni da altri credi vi sono il rispetto di tutti gli esseri viventi, tipico del giainismo, ed il Culto del Sole e della divinità dell'imperatore, provenienti dallo zoroastrismo, che creò forti attriti con l'ortodossia islamica.
Akbar è uno dei personaggi principali del romanzo di Salman Rushdie L'incantatrice di Firenze, edito nel 2008 in inglese e in italiano nel 2009, un romanzo storico basato su una minuziosa documentazione.”

(In it.wikipedia.org)

“Jizya (in traslitterazione scientifica "ğizya") è un termine arabo che indica un'imposta di capitazione, detta di "compensazione", che dal periodo islamico classico fino al XIX secolo ogni suddito non-musulmano non facente parte della umma islamica (detto dhimmi, cioè membro della ahl al-dhimma, "gente protetta") pagava alle autorità islamiche. L'imposta gravava su cristiani, ebrei, zoroastriani, sabei, induisti, ovvero tutti coloro che professavano religioni monoteistiche rivelate praticate prima dell'avvento dell'islam. Il dhimma (patto di protezione) garantiva una condizione particolare di protezione (dalle aggressioni esterne, libertà personale, libertà di culto) per i dhimmi (i non musulmani monoteisti), e li esentava dal servizio militare e dal pagamento della zakat.
L'imposta riguardava i sudditi maschi puberi in grado di produrre reddito ma ne erano esentati quasi sempre gli appartenenti al clero di religioni "protette". Basata su prontuari che tenevano conto del livello di ricchezza di un paese e dell'andamento reale dell'economia, essa era percepita da un apposito incaricato statale, detto 'āmil (agente), che era tenuto a versarla nell'erario statale islamico (il cosiddetto "bayt al-māl" o "casa della ricchezza") perché fosse utilizzata per speciali fini caritatevoli o di pubblica utilità da parte delle autorità.

(In it.wikipedia.org)

 

Una frase al giorno

“Ho letto, quasi per intero, il primo volume delle lettere francesi (lettere scelte di M.e de Sévigné) e ho trovato di che inebriare notevolmente il mio spirito con un inesprimibile piacere al di sopra delle mie attese, perché quantunque si debba preferire la lingua della propria Patria, piuttosto di quelle straniere, tuttavia in fatto di lettere sono obbligato ad ammettere che non ho trovato mai una penna italiana che mi sia stata così deliziosa quanto quella francese della quale a lei è piaciuto onorarmi. Per questo, essendo la lingua francese molto importante soprattutto per chi deve fare figura in brillanti conversazioni e più ancora per la nobile eleganza che è propria di questa lingua, accetti che l'esorti a perfezionarsi molto nella conoscenza della medesima, essendo oggi lo studio delle lingue una parte necessaria in una distinta educazione.”

(Daniele Comboni, chierico, a Giuseppina Bertoldi, Verona, 27 dicembre 1850. Traduzione dal francese)

Daniele Comboni (Limone sul Garda, Brescia, 15 marzo 1831 - Khartoum, 10 ottobre 1881)

Daniele Comboni: un figlio di poveri giardinieri-contadini che diventò il primo Vescovo cattolico dell'Africa Centrale e uno dei più grandi missionari nella storia della Chiesa.
Nasce a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831, in una famiglia di contadini al servizio di un ricco signore della zona. Papà Luigi e mamma Domenica sono legatissimi a Daniele, il quarto di otto figli, morti quasi tutti in tenera età. Essi formano una famiglia unita, ricca di fede e valori umani, ma povera di mezzi economici. Ed è appunto la povertà della famiglia Comboni che spinge Daniele a lasciare il paese per andare a frequentare la scuola a Verona, presso l'Istituto fondato dal Sacerdote don Nicola Mazza.
In questi anni passati a Verona, Daniele scopre la sua vocazione al sacerdozio, completa gli studi di filosofia e teologia e soprattutto si apre alla missione dell'Africa Centrale, attratto dalle testimonianze dei primi missionari mazziani reduci dal continente africano. Nel 1854 Daniele Comboni viene ordinato sacerdote e tre anni dopo parte per l'Africa assieme ad altri 5 missionari mazziani, con la benedizione di mamma Domenica.
Nonostante le difficoltà, Comboni invece di scoraggiarsi si sente interiormente confermato nella decisione di continuare la sua missione: «O Nigrizia o morte», o l'Africa o la morte.
Ed è sempre l'Africa e la sua gente ciò che spinge il Comboni, una volta ritornato in Italia, a mettere a punto una nuova strategia missionaria. Nel 1864 elabora il suo famoso Piano per la rigenerazione dell'Africa, un progetto missionario sintetizzabile nella frase «Salvare l'Africa con l'Africa», frutto della sua illimitata fiducia nelle capacità umane e religiose dei popoli Africani.
Si dedica ad una instancabile animazione missionaria in ogni angolo d'Europa, chiedendo aiuti spirituali e materiali per le missioni africane tanto a Re, Vescovi e signori, quanto a gente povera e semplice. E come strumento di animazione missionaria crea una rivista missionaria, la prima in Italia.
Nascono, rispettivamente nel 1867 e nel 1872, l'Istituto maschile e l'Istituto femminile dei suoi missionari, più tardi meglio conosciuti come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane.
...Il 2 luglio 1877 Comboni viene nominato Vicario Apostolico dell'Africa Centrale e consacrato Vescovo un mese dopo: è la conferma che le sue idee e le sue azioni, da molti considerate troppo coraggiose se non addirittura pazze, sono quanto mai efficaci per l'annuncio del Vangelo e la liberazione del continente africano.
Nel 1880, con la grinta di sempre, il Vescovo Comboni ritorna, per l'ottava e ultima volta, in Africa, a fianco dei suoi missionari e missionarie, deciso a continuare la lotta contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l'attività missionaria con gli stessi africani. Un anno dopo, provato dalla fatica, dalle frequenti e recenti morti dei suoi collaboratori e dall'amarezza di accuse e calunnie, il grande missionario si ammala. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant'anni, muore a Khartoum, tra la sua gente, cosciente che la sua opera missionaria non morirà.
Il 5 ottobre 2003 viene canonizzato da Giovanni Paolo II in San Pietro.

(In www.vatican.va)

Immagini:

 

Un brano musicale al giorno

Karl Davydov, Concerto per violoncello No. 2, Op.14 (1863?)

Karl Yulievich Davydov (15 marzo 1838 - 26 febbraio 1889) è stato un violoncellista russo di grande fama durante il suo tempo, e descritto da Pyotr Ilyich Tchaikovsky come lo "zar dei violoncellisti". Era anche un compositore, principalmente per il violoncello.

Karl Yulievich Davydov (15 marzo 1838 - 26 febbraio 1889) violoncellista russo

“Karl Davydov è ricordato tra i principali violoncellisti del XIX secolo; da lui prende nome il violoncello costruito nel 1712 da Antonio Stradivari, suonato poi da Jacqueline du Pré e attualmente concesso in uso a Yo-Yo Ma. Karl Davydov nasce in Lettonia, nella città di Kuldiga, allora parte dell’impero russo. Bambino prodigio, impara prestissimo a suonare il pianoforte; all’età di 12 anni inizia a studiare il violoncello sotto la guida di Heinrich Schmidt, primo violoncellista del Teatro di Mosca. Seguendo le direttive dei propri genitori Karl Davydov si laurea in matematica e, nello stesso tempo, completa la sua formazione musicale con Carl Schuberth, direttore dell’orchestra imperiale a San Pietroburgo. Volto a intraprendere la carriera di musicista, studia composizione a Lipsia con Moritz Hauptmann; chiamato a sostituire Friedrich Grutzmacher, primo violoncellista dell’Orchestra del Gewandhaus, matura da questa esperienza la decisione di dare priorità all’attività concertistica. La sua fama si diffonde in tutta Europa; da Ciajkovskij è indicato con l’appellativo di “Zar dei violoncellisti”. Compone nei momenti di libertà e alla fine del 1859 presenta il primo dei suoi quattro concerti per violoncello. Ritornato in Russia, Karl Davydov insegna al Conservatorio di San Pietroburgo e fa perte del Quartetto d’archi della Società Musicale Russa. Nel 1876, concorrendo con Ciajkovskij, è nominato Direttore del Conservatorio di San Pietroburgo; mantiene questa carica fino al 1877, poi viene sostituito temporaneamente da Anton Rubinstein, fondatore del Conservatorio, a seguito di una vicenda poco chiara, forse una tresca amorosa con una giovane studentessa. Karl Davydov riprende per qualche tempo l’attività concertistica. Alla fine di gennaio 1889 un malore lo costringe a interrompere l’esecuzione di un brano di Beethoven; muore improvvisamente dopo pochi giorni, senza aver compiuto il 51° anno d’età. La maggior parte della sua produzione musicale è costituita da composizioni per il violoncello; si ricordano anche un Quartetto e un Sestetto per archi, un Quintetto con pianoforte, nonché trascrizioni per violoncello accompagnato dal pianoforte di Notturni, Mazurche e Valzer di Chopin.”

(In diesisebemolle.wordpress.com)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k