“L’amico del popolo”, 19 marzo 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

EMIGRANTES (Italia, 1949), regia di Aldo Fabrizi. Soggetto: Aldo Fabrizi. Sceneggiatura: Aldo Fabrizi, Piero Ballerini, Fulvio Palmieri. Produttore: Jaime Cabouli. Casa di produzione: Guaranteed Pictures Italia. Fotografia: Piero Portalupi, Marco Scarpelli. Montaggio: Rosalino Caterbetti. Musiche: Alessandro Derevitsky. Cast: Aldo Fabrizi: Giuseppe Bordoni. Ave Ninchi: Adele Bordoni, Loredana: Maria Bordoni. Eduardo Passarelli: Gennarino. Nando Bruno: Gigi, Julio Traversa. Nicolas Olivatti. Adolfo Celi: professore. Giuseppe Rinaldi: ingegnere, Michele Malaspina. Rino Salviati.

EMIGRANTES (Italia, 1949), regia di Aldo Fabrizi

“Al termine della guerra, il muratore trasteverino Giuseppe Borbone (Aldo Fabrizi) decide di lasciare l’Italia per trasferirsi in Argentina insieme alla moglie Adele (Ave Ninchi) e alla figlia Maria (Loredana). Giuseppe e la figlia sono pieni di entusiasmo, mentre Adele, non più giovanissima e prossima a divenire madre, parte a malincuore. Durante il viaggio, a bordo di un piroscafo argentino, Adele dà alla luce un bimbo il quale, pur battezzato con il nome di Italo, sarà un argentino. Giunto a destinazione, Giuseppe si mette subito al lavoro. Su sua proposta, e con l’aiuto degli italiani d’Argentina, si dà inizio alla costruzione di case per gli immigrati. Il giovane direttore del cantiere, un ingegnere argentino, che ama, riamato, Maria, la figlia di Giuseppe, favorisce l’iniziativa. Adele, però, non adattandosi alla nuova vita e soffrendo di nostalgia, insiste per tornare a Roma. Quando Giuseppe perde alle corse dei cavalli tutti i pochi soldi che era riuscito a risparmiare in cinque mesi di duro lavoro, non avendo il denaro per pagare il viaggio, pensa di rompersi apposta un braccio in cantiere, in modo da riscuotere l’assicurazione per gli infortuni. Nel frattempo, però, la situazione cambia, si inaugurano le nuove case per gli operai e Giuseppe acquista meriti. Così anche Adele cambia idea: resteranno in Argentina e la ragazza sposerà l’ingegnere.

Si tratta di un film molto raro, poco visto, che, alla sua uscita, fu ritenuto dalla critica troppo intriso di retorica e “buonista” per descrivere efficacemente la condizione degli emigranti italiani del secondo dopoguerra, di cui, comunque, ci offre ugualmente un ritratto mosso e partecipe, sempre venato di ironia. È il primo film diretto e interpretato da Aldo Fabrizi, già molto noto come attore (tra gli anni Quaranta e Cinquanta ne dirigerà altri sette). Adolfo Celi, invece, aveva partecipato solo a tre film, tra cui Proibito rubare di Luigi Comencini del 1948. In questo stesso anno, riceve la proposta da Aldo Fabrizi per Emigrantes, in cui il giovane attore messinese ha un ruolo secondario, una piccola parte. E tuttavia abbiamo voluto ugualmente inserirlo nella nostra rassegna sia perché, in un periodo così difficile e complesso per quanto concerne il problema dell’emigrazione, ci fa vedere “quando gli emigranti eravamo noi”, sia perché il film costituisce una svolta nella vita di Adolfo Celi che, al termine delle riprese, rimane in Argentina, da dove, poco tempo dopo, si trasferisce in Brasile, Paese in cui esplica un importante ruolo sia in ambito teatrale che anche cinematografico, ancora oggi non dimenticato.”

(Nino Genovese in www.ortobotanico.messina.it)

 

Ave Ninchi in EMIGRANTES (Italia, 1949), regia di Aldo Fabrizi

 

“Finita la guerra, il muratore trasteverino Giuseppe emigra con la famiglia in Argentina. La figlia trova un marito, la moglie s'ammala di nostalgia. Per procurarsi i soldi necessari al viaggio di ritorno, si rompe un braccio sul lavoro, ma lo soccorre anche la solidarietà dei compagni e degli altri lavoratori argentini. È il primo dei sei film che Fabrizi diresse tra il '49 e il '57, quello in cui mescola meglio buffo e patetico, commedia e melodramma con qualche eccesso di retorica nella conclusione, ma comunque utile a ricordarci il tempo in cui erano i nostri padri a migrare.”

(In www.centrobalducci.org)

 

Aldo Fabrizi in EMIGRANTES (Italia, 1949)

 

Un’attrice: Loredana, all'anagrafe Loredana Padoan (Venezia, 19 marzo 1924 - Roma, 18 gennaio 2016), attrice italiana che è stata attiva negli anni Quaranta. È stata interprete di film storici, in costume, melodrammatici o ispirati a opere liriche, alcuni dei quali ambientati nella sua città natale, Venezia e girati tra il 1943 ed il 1945, nel breve periodo di attività del cosiddetto Cinevillaggio, centro di produzione del cinema italiano durante la Repubblica Sociale Italiana. Di lei resta una discreta filmografia comprendente titoli che hanno fatto una sorta di storia del costume dell'Italia a cavallo fra gli anni Trenta (I grandi magazzini, di Mario Camerini) ed i Quaranta (Ecco la radio! di Giacomo Gentilomo).”

(In wikipedia.org)

Loredana Padoan (Venezia, 19 marzo 1924 - Roma, 18 gennaio 2016), attrice italiana

 

Una poesia al giorno

Madrigal, di Joë Bousquet

Du temps qu’on l’aimait lasse d’elle-même
Elle avait juré d’être cet amour
Elle en fut le charme et lui le poème
La terre est légère aux serments d’un jour

Le vent pleurait les oiseaux de passage
Berçant les mers sur ses ailes de sel
Je prends l’étoile avec un beau nuage
Quand la page blanche a bu tout le ciel

Dans l’air qui fleurit de l’entendre rire
Marche un vieux cheval couleur de chemin
Connais à son pas la mort qui m’inspire
Et qui vient sans moi demander sa main

 

 

Madrigale, di Joë Bousquet
(traduzione di Annamaria Laserra, in lapoesiaelospirito.wordpress.com)

Dal tempo che era amata stanca di se stessa
Lei aveva giurato d’essere questo amore
E ne fu l’incanto lui ne fu il poema
La terra è leggera a promesse passate

Il vento piangeva gli uccelli migranti
Cullando i mari sulle ali di sale
Prendo la stella con una bella nuvola
Se la pagina bianca ha consumato il cielo

Nell’aria che fiorisce al suo riso
C’è un vecchio cavallo color del cammino
Capisci al suo passo la morte che m’ispira
E che va senza me a chiederne la mano

 

 

Joë Bousquet (Narbona, 19 marzo 1897 - Carcassonne, 28 settembre 1950) poeta francese. Durante la Prima Guerra mondiale, il 27 maggio 1918, all'età di 21 anni, fu gravemente ferito nella battaglia di Vailly alla colonna vertebrale. Paralizzato all'altezza del petto, perse l'utilizzo della parte inferiore del corpo. Visse il resto dei suoi giorni a Carcassonne (53, rue de Verdun), in una camera le cui imposte rimasero sempre chiuse. Con gli amici François-Paul Alibert, Ferdinand Alquié, Claude-Louis Estève e René Nelli fondò nel 1928 la rivista Chantiers. Fu in contatto epistolare con numerosi scrittori e artisti, tra cui Paul Éluard, Max Ernst, Jean Paulhan e Simone Weil.
Joe Bousquet lasciò un'opera poetica considerevole.”

(In wikipedia.org)

 

Joë Bousquet dipinto da Hans Bellmer nel 1945 

Joe Bousquet: la Dolorosa Coscienza di un Viaggiatore Immobile.

Talora la fatalità ferisce un uomo. Lo spettacolo delle sue sofferenze insegna a coloro che lo vedono che non vi è individuo senza ferita. L’individualità stessa è la ferita” Attraverso il dolore, la superficie della conoscenza si rompe, si apre all’abisso delle profondità delle cose e ci svela la loro possibile insensatezza. Il dolore fisico, difficilmente è traducibile in parola, piuttosto è qualcosa che si prova, che attraversa il nostro corpo, tutto. La poesia tenta di indagare la natura cieca del dolore. L’uso di un linguaggio che si nutre di metafore accompagna e sostiene il cammino arduo da intraprendere, permette l’accesso all’Oltre-nero. L’esperienza del dolore ci offre quindi una conoscenza vissuta delle cose, ci fa uscire dalla fantasia e approdare alla realtà. Permette una capacità di comprensione del mondo altrimenti impossibile. Una lucidità assoluta. Il dolore è una esperienza necessaria, inevitabile per ogni uomo.
L’espressione del dolore attraverso il linguaggio poetico è forse il tentativo più umano e naturale di mantenere viva l’attenzione su di sé, per non disperdersi nella transitorietà quotidiana e resistere all’oblio della memoria. Ogni uomo si misura con la sua finitezza, con l’illusorietà della vita e la propria limitatezza, dall’insoddisfazione che ne deriva si genera inquietudine e quel male dell’anima che non dà pace. Nel proprio cammino l’uomo non incontra solo il male di vivere, come lo definiva Montale, fa i conti anche con il dolore del corpo che soffre, e quando la misura di questo dolore è estrema, inaccettabile, non può che straripare, venir fuori e generare pensieri e parole.
Ecco che, come la poesia, il dolore è varcare la soglia, è andare oltre il confine, aprire lo sguardo dentro di sé…

Joe Bousquet, grande poeta francese, in Italia a torto poco conosciuto, visse trent’anni paralizzato in un letto, dopo che sul fronte, durante la Prima Guerra Mondiale, un colpo di fucile gli spappolò il midollo spinale. Pochi mesi prima dell’armistizio, nel maggio del 1918, durante un contrattacco sul fronte francese, un proiettile lo centrò in pieno petto, gli attraversò i polmoni spezzandogli la colonna vertebrale, rimarrà in coma per tre mesi. Sarà un parente chirurgo a strapparlo alla morte, ma resterà paralizzato dalla vita in giù e con un solo rene funzionante. Nella casa del nonno di Carcassonne, al 41 di rue Verdun, oggi méta di continui viaggi degli appassionati della sua poesia, egli visse avvolto nell’ombra fino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1950.
In questa immobilità il poeta dapprima si chiuse in se stesso (persino le persiane della sua stanza rimasero sempre chiuse, a separarlo dal mondo), nella solitudine atemporale dei suoi ricordi, cominciando così un periodo di letture e d’introspezione incessante. In tal modo intraprese un viaggio col suo letto-vascello nel suo immenso spazio interiore, diventando nomade del suo dolore, per comprenderne le ragioni, per trovarne il senso. Un senso che giustificasse la profonda ferita di un giovane di vent’anni, cui la vita era stata negata, una vita che fin dall’inizio però lo aveva da vicino esposto e predisposto alla morte, che lui stesso definì il diamante delle vertigini…

Dopo un lungo periodo di tormentato silenzio dal 1930 al 1950, il suo tempo si tramuta in scrittura, la parola si farà corpo, divenendo un vero e proprio gesto riparativo. “Il linguaggio non è una vana sequenza di parole, è l’atmosfera stessa dell’anima, un’alba che s’illumina, non certo del sole, ma di ciò che la terra dischiude in noi, sul fianco oscuro dello sguardo.” La parola di Joe Bousquet non smetterà più il suo fluire emorragico incessante. Scrisse poesie, cahiers, tenne diari con meditazioni, appunti, ricordi, sogni. Una scrittura disorganica, che mostra un io frammentato in un infinito racconto intimo, che dirà sempre di un dolore diventato conoscenza e coscienza di sé…”

(Articolo completo di Emilia Maggiordomo e Laura Costa, 30 Maggio 2011, in: www.sedaicu.it)

 

Un fatto al giorno

19 marzo 1962: La guerra d'indipendenza algerina termina.

“Come scrive Bernard Guetta, ancora oggi la guerra di Algeria rappresenta una delle insanabili e più longeve fratture presenti nella società francese. Le spaccature presenti in una delle nazioni più grandi, forte e antiche dell’Europa vengono costantemente riprese nei dibattiti politici che in questi giorni occupano le testate dei grandi giornali francesi e non. Ma la battaglia di indipendenza, vinta ma ancora nel turbine delle polemiche, come influisce sulla storia francese e ancora di più sulle imminenti presidenziali?
La guerra d'Algeria, o guerra d'indipendenza algerina è il conflitto che oppose, tra il novembre 1954 e il 19 marzo 1962, l'esercito francese e gli indipendentisti algerini guidati dal Front de Libération Nationale, che aveva rapidamente imposto la propria egemonia sulle altre formazioni politiche. Lo scontro si svolse principalmente in Algeria ma, a partire dal 1958, il FLN decise di aprire un secondo fronte in Francia, scatenando una serie di attentati. Nel corso del conflitto, la minoranza europea d'Algeria – i pieds noirs, installati nelle tre grandi città di Orano, Algeri e Costantina – riuscì a imporre il ritorno di de Gaulle al potere, minacciando un colpo di Stato. L'inedito successo di un movimento dagli evidenti tratti eversivi determinò il crollo della pericolante IV Repubblica e l'avvento della V Repubblica, caratterizzata da una nuova Costituzione che conferiva poteri molto estesi al Presidente.
La guerra fu particolarmente cruenta, con un altissimo numero di vittime, soprattutto tra i civili algerini. Fu un episodio chiave nella lotta alla colonizzazione. Dopo sette anni e mezzo di uno scontro senza esclusione di colpi (generalizzazione della tortura, attentati, terrorismo, rappresaglie, napalm...), gli algerini conquistarono l'indipendenza che fu proclamata il 5 luglio 1962. Ma la battaglia, almeno quella ideologica e sociale, non è considerata conclusa da molti, soprattuto dall’estrema destra, contraria alla decolonizzazione dell’Algeria francese, che non ha mai perdonato l’indipendenza algerina né ai gaullisti né alla sinistra. Il grande paradosso è che quella stessa destra che oggi considera l’islam come una minaccia, continua a rammaricarsi che la Francia abbia rinunciato a 40 milioni di musulmani, cioè l’attuale popolazione dell’Algeria.
Ma oltre alle contraddizioni politiche, che il Front National stia ancora riaprendo questa ferita non sorprende molto. Da sempre Marine Le Pen, e prima ancora suo padre Jean-Marie Le Pen, sfruttano la scia europea anti-islamista e quella nazionalista per creare consenso in tutto lo Stato. Le politiche estremiste dei leader di FN incitano all’odio, si scontrano anche con la destra gollista, propongono la via verso l’uscita della Francia dall’Unione. E rimpiangono l’impero colonialista francese, o almeno i territori algerini. Qual è l’obiettivo dell’ala estrema francese? Guardare al fragile mondo di oggi, fatto di cambiamenti, novità e integrazione, o rimpiangere la forza usurpatrice e colonialista di un tempo? La risposta sta nei programmi della Le Pen, che propone una chiusa e radicale combinazione tra una visione sprezzante verso la globalizzazione e l’integrazione, anti-europea e anti-euro, e un nostalgico sguardo al passato, in cui affonda una delle radici del suo partito.”

(Giulio Ucciero in university.it)

19 marzo 1962: La guerra d'indipendenza algerina termina

 

“I primi movimenti nazionalisti erano già sorti dopo la prima guerra mondiale. La Stella Nord-Africana (ENA, Etoile Nord-Africaine) viene fondata, sotto l'egida del PCF (Partito Comunista Francese) nel 1925 fra il proletariato algerino residente in Francia. Il primo segretario fu Hadj Abd-el-Kader, membro del comitato direttivo del PCF, mentre il presidente era Messali Hadj, membro anch'egli del PCF. Nel programma dell'ENA l'indipendenza nazionale era collegata alla liberazione sociale e si rivendicava la nazionalizzazione di banche, miniere, porti, ferrovie e servizi pubblici. L'ENA passò da 3.000 iscritti nel 1927 a 40.000 nel 1931. Il più noto e diffuso è il Partito del Popolo Algerino (PPA), fondato nel 1937 da Messali Hadj; messo fuorilegge dai francesi, fu rifondato nel 1946 con il nome di Movimento per il Trionfo della Libertà e della Democrazia (MTLD) dallo stesso Hadj, cui si accompagnava un'Organizzazione segreta (OS) dedita a sporadiche azioni armate. Nel periodo della seconda guerra mondiale, come altrove in Africa, ancor più in Algeria si consolidò il sentimento nazionalista e indipendentista. Nel 1945, i primi moti furono repressi duramente dai francesi in Cabilia.

(Leggi tutto in: wikipedia.org)

“Le lotte del 1960-62.
Altri tentativi di golpe militari al grido di “Algérie Française” furono spazzati via da De Gaulle nel 1960 e nel 1961. Nel contempo, l’Oas (organizzazione dell’esercito segreto), formata da coloni di estrema destra, iniziò una politica di terrorismo individuale in Francia. Anche a sinistra avveniva una radicalizzazione...”

(Articolo completo in: old.marxismo.net)

 

Una frase al giorno

“Tutti gli uomini sono per natura liberi e indipendenti”

(Filippo Mazzei)

E’ una delle frasi più significative della Carta Costituzionale americana che tutti conoscono, ma che pochi sanno nascere dal pensiero di Filippo Mazzei (Poggio a Caiano, 25 dicembre 1730 - Pisa 19 marzo 1816), un italiano che ha contribuito moltissimo alla nascita degli Stati Uditi d’America.

Filippo Mazzei (Poggio a Caiano, 25 dicembre 1730 - Pisa 19 marzo 1816)

Personaggio estremamente eclettico - fu medico, filosofo, pensatore illuminato - Filippo Mazzei, nel periodo che passò in America, dopo un tentativo (fallito) di coltivare viti e ulivi in Virginia, partecipò alla Guerra di Indipendenza, con il compito di acquistare armi per lo Stato della Virginia. In questo periodo ebbe modo di stringere amicizia con molti personaggi che hanno scritto la storia degli Stati Uniti, tra cui cinque futuri presidenti: George Washington, John Adams, James Madison, James Moore e Thomas Jefferson, suo vicino di casa e amico fraterno.
Queste frequentazioni e le sue pubblicazioni nelle quali si faceva promotore dei principi che animeranno la Costituzione Americana - dalle libertà individuali, ai diritti civili, alla tolleranza religiosa - lo fanno, oggi come allora, considerare uno dei Padri della Costituzione. Tra l'altro, anche se ovviamente non esistono riscontri documentali, si dice che si debba a lui la bandiera 'a stelle e strisce': parlando con George Washington, Mazzei gli avrebbe descritto lo stemma di Ugo di Toscana (tre strisce argento o bianco su sfondo rosso) e l'alternanza bianco e rosso sembra che piacque particolarmente a Washington che l'adottò per la bandiera dei neonati Stati Uniti d'America.
Tornato in Europa, dopo la Guerra di Indipendenza, visse in Francia e in Polonia, dove fu primo consigliere e, poi, rappresentante a Parigi di Stanislao Augusto di Polonia. Gli ultimi anni della sua vita li trascorse a Pisa, rimanendo comunque sempre in contatto con i suoi amici americani, che ne hanno sempre auspicato il rientro in quella che per Mazzei è stata una vera e propria seconda patria, proprio per l'importanza che Mazzei ha avuto nel creare le fondamenta di questa nazione.”

19 marzo 1816 muore Philip Mazzei, medico e filosofo italo-americano (nato nel 1730).

 

Un brano musicale al giorno

Francesco Gasparini (1661-1727), Andate o miei sospiri, Cantate da camera a voce sola, Op.1. (Venezia, 1712)

Roberta Invernizzi, soprano
The Gasparinin Album - Opera Arias

Francesco Gasparini (1661-1727)

Francesco Gasparini (Camaiore, 19 marzo 1661 - Roma, 22 marzo 1727) fu un compositore italiano, secondo dei cinque figli di Nicolao e Elisabetta Belfiore. Si è ipotizzato che possa avere ricevuto i primi insegnamenti da Giovanni Domenico Giuliani, maestro di cappella della collegiata di S. Maria Assunta a Camaiore dal 1674 al 1679.  Nel 1682 viveva Roma dove aveva assunto l'incarico di organista della chiesa della Madonna dei Monti. Fu ammesso il 27 giugno 1684 all'Accademia Filarmonica di Bologna come cantante e successivamente, il 17 maggio 1685, come compositore. A Roma il 28 novembre 1685 sposò Maria Rosa Borrini, cantante romana.
Nel dicembre 1686 debuttò in teatro a Livorno, collaborando alla rappresentazione dei drammi Olimpia vendicata di Alessandro Scarlatti e Roderico di Carlo Francesco Pollarolo, per i quali in questa occasione potrebbe aver scritto diverse arie nuove.
Nel 1689 entrò a far parte della Congregazione di Santa Cecilia di Roma. Per la quaresima 1689 compose l'oratorio latino Iudith de Holoferne triumphans eseguito all'oratorio del Ss. Crocifisso di S. Marcello. Durante il carnevale 1690 al Collegio Clementino venne rappresentato il suo primo dramma Bellerofonte (libretto G. M. Conti). Due anni dopo nello stesso collegio fu eseguito il suo oratorio Atalia (1692).
Nel giugno 1701 si trasferì a Venezia, dove il 5 di quel mese era stato nominato «maestro di choro» all'Ospedale della Pietà. Nell'istituzione veneziana ebbe come collega Antonio Vivaldi, che nel 1703 era stato nominato maestro di violino. Per l'Ospedale della Pietà compose 9 oratori su testo latino eseguiti negli anni 1701-1714. Nell'aprile 1713 i governatori della Pietà concessero a Gasparini di allontanarsi per sei mesi da Venezia, ma il compositore lasciò la città senza farvi più ritorno. Nel periodo veneziano Gasparini compose 24 opere, molte delle quali andate in scena al Teatro Tron di San Cassiano. Durante la sua permanenza nella città lagunare ebbe occasione di incontrare i grandi compositori veneziani dell'epoca, come Antonio Lotti e Carlo Francesco Pollarolo.
Nel febbraio 1713 si era stabilito con la famiglia a Città di Castello, dove la moglie aveva delle proprietà. Dalla cittadina umbra si allontanò soltanto in occasione della rappresentazione di sue opere nei teatri di Genova, Roma, Reggio Emilia e Firenze.
Nel 1716 fece rientro a Roma per rappresentare due opere al teatro Capranica: il Ciro e il Venceslao (in parte con musica di Francesco Mancini). Nel luglio 1718 entrò al servizio del principe Francesco Maria Ruspoli, come maestro di cappella al posto di Antonio Caldara, mantenendo questo posto fino al giugno 1718. Negli stessi anni riprese i rapporti con il principe Marcantonio Borghese e la consorte Livia Spinola, con i quali era stato in contatto fin dal 1711. Dal 1720 compare col titolo di «virtuoso del principe Borghese», pur non essendo dei ruoli di questa famiglia. Nel 1718 fu ammesso all'Accademia dell'Arcadia.
Dal 1725 fino alla morte fu maestro della cappella Borghese in Santa Maria Maggiore e della basilica di San Giovanni in Laterano.

Considerazioni sull'artista

È considerato uno dei migliori compositori del suo tempo. La sua musica denota in lui un'elevata abilità e qualità compositiva, soprattutto nelle cantate, le quali furono particolarmente apprezzate anche da Charles Burney. Altrettanta bravura ebbe anche nelle composizioni sacre, scritte con maestria, usando spesso tecniche compositive complesse. La maniera dei suoi lavori teatrali è tipica del periodo, tranne per i suoi ultimi lavori, nei quali si osservano caratteristiche melodiche e ritmiche tipiche delle opere delle generazioni successive. Scrisse circa 60 opere, tra le quali la più famosa fu l'Ambleto (o Amleto), una variazione basata sull'Amleto di William Shakespeare.

Nonostante l'intensa attività di operista, Gasparini fu attivo anche come insegnante; tra i suoi allievi più illustri Benedetto Marcello, Johann Joachim Quantz, Domenico Scarlatti e il cantante Giovanni Ossi. La sua notorietà resta legata al trattato L'armonico pratico al cimbalo. Regole, osservazioni e avvertimenti per ben suonare il basso e accompagnare sopra il cimbalo, spinetta e organo, pubblicato a Venezia, presso Antonio Bortoli, nel 1708, e ristampato in almeno nove edizioni fino al 1808. Si tratta del primo importante trattato riguardante il basso continuo; in esso l'autore in parte riprende i metodi della prassi seicentesca e in parte illustra le novità della tecnica, dello stile e del gusto del suo tempo, come il «suonar pieno», raddoppiando le consonanze, o l'uso di acciaccature e mordenti, vale a dire l'uso di introdurre note estranee all'armonia al fine di creare un «mirabile effetto» sonoro.”

(In wikipedia.org)

  • Una sua opera completa: Francesco Gasparini, AMBLETO - Rai Napoli, 30.09.1971

Personaggi e interpreti:
Ambleto: Elena Zilio, Ildegarda: Francine Girones, Gerilda: Bruna Rizzoli, Veremonda: Giovanna Santelli, Valdemaro: Carlo Gaifa, Fengone: Leonardo Monreale.
Orchestra Alessandro Scarlatti della Rai di Napoli
Direttore: Herbert Handt

19 marzo 1661 nasce Francesco Gasparini, compositore e insegnante italiano (morto nel 1727)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k