“L’amico del popolo”, 2 luglio 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini. Soggetto: Stefano Calanchi, Ennio Lorenzini. Sceneggiatura: Aldo De Jaco, Ennio Lorenzini, Stefano Calanchi, Gianni Toti. Fotografia: Gualtiero Manozzi. Montaggio: Roberto Perpignani, Piera Gabutti. Musiche: Roberto De Simone, Umberto Leonardo, Lina Sastri, Virgilio Villani, Francesco Tiano. Cast: Angela Goodwin, Enrichetta. Stefano Satta Flores, Carlo Pisacane. Alessandro Haber, Nicotera. Giulio Brogi, Il maggiore De Liguoro. Sergio Serafini, Congiurato. Bruno Cattaneo, Relegato. Bruno Corazzari, 'Ntoni. Nico D’Alessandria, Relegato. Barbara Betti, Teresina. Sandro Tuminelli, Un vecchio di Padula. Laura De Marchi, La donna di Padula. Elio Marconato, Falcone. Giuseppe Scarcella, Bucci.

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini

“Il film, il cui titolo è quello di una canzone popolare rielaborata da Roberto De Simone che è considerato l'antesignano del folk revival napoletano degli anni Settanta, racconta l'impresa del duca Carlo Pisacane organizzata alla maniera mazziniana, badando cioè più all'entusiasmo patriottico che ad una severa preparazione. Imbarcatosi a Genova con ventiquattro volontari con lo scopo di avviare una rivoluzione dei contadini meridionali, fece dirottare la nave, diretta a Tunisi, all'isola di Ponza dove liberò 323 detenuti e si rifornì di armi.

Dopo lo sbarco a Sapri, Pisacane si rese subito conto del mancato aiuto dei liberali napoletani che non vollero avere a che fare con quella spedizione mista con ergastolani che i contadini temevano come una banda di briganti. Nonostante tutto Pisacane volle proseguire nell'impresa, convinto che sarebbe bastato accendere la scintilla perché la rivoluzione divampasse in tutto il Sud d'Italia. Furono invece proprio i contadini ad attaccare e costringere alla fuga i congiurati che in località Salemme presso Sanza vennero circondati e 25 di loro massacrati. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati ai gendarmi.

Lorenzini reinventa la storia della spedizione facendo risaltarne lo spontaneismo ma rispettandone lo spirito patriottico ideale che l'animava, mostrando simpatia umana e politica per gli uomini che fecero il Risorgimento italiano. Al regista piace immaginare nel racconto che il maggiore dell'esercito borbonico incaricato di combattere i rivoltosi avesse in un certo modo avuto sentore e quasi moralmente condiviso i nobili propositi che li animavano e che il messaggio di Pisacane fosse alla fine raccolto dai contadini. «Sono, l'uno e l'altro, luoghi canonici d'un certo cinema politico (va da sé che Pisacane è assomigliato per qualche verso a Che Guevara), ma inseriti con naturalezza in un racconto che vuole dare, di quella pagina di storia, una immagine dialettica. Nessuno può negare che, ridotto in pillole, il Risorgimento fu anche questo seminar dubbi nelle coscienze» (cfr. Giovanni Grazzini da Il Corriere della Sera, 5 marzo 1976)

Anche Tullio Kezich, (cfr. Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967-1977, Edizioni Il Formichiere) vede nel film di Lorenzini una metafora dell'«impresa boliviana di Che Guevara, [che] i rivoluzionari scientifici deplorarono [per] tanta cecità spontaneistica [mentre] i libertari ne fecero un mito.» Ma a parte i contenuti politici Kezich rimprovera a Lorenzini le sue aggiunte fantastiche al racconto storico che ne esce travisato soprattutto per l'episodio dei contadini che avrebbero raccolto alla fine il messaggio patriottico rivoluzionario. «Il film di Lorenzini soffre invece di essere raccontato su tre piani diversi (Pisacane, l'ufficiale, i contadini); e non sempre tiene il passo con l'epos delle belle canzoni scritte apposta in modo popolare da Roberto De Simone» (cfr. ibidem)”

(In wikipedia.org)

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini 

“Non è un film sulla vita di Carlo Pisacane, come pure qualcuno ha incautamente scritto. Il racconto del povero Ennio Lorenzini (morto nel 1982 ad appena 48 anni) pone al centro gli ultimi giorni della progettazione e della tragica realizzazione della spedizione di Sapri, quella di «eran trecento, eran giovani e forti…». Pisacane non mirava soltanto alla sollevazione del Sud d’Italia contro il Borbone: voleva la rivoluzione. Riteneva che alle popolazioni contadine si dovesse dare prima l’esempio (il pane) e dopo l’istruzione, patriottica e sociale che fosse. Non si faceva troppe illusioni sulla riuscita della sua spedizione; sperava di ricevere l’aiuto dei contadini, ma era convinto che, anche in caso di fallimento, il sacrificio suo e dei suoi compagni avrebbe costituito un seme per le generazioni future. Questo concetto è racchiuso molto bene nella frase del titolo, che è anche un verso delle belle canzoni popolari composte da Roberto De Simone. E in questo senso, il film si pone come contraltare della famosa poesia di Luigi Mercantini. Pur con i difetti della produzione poveristica (che tuttavia non si priva di qualche ottimo attore, come Giulio Brogi e il compianto Stefano Satta Flores), Quanto è bello lu murire acciso è un buon film, a metà strada tra l’ultimo Rossellini ed i fratelli Taviani, che nel finale si concede un omaggio esplicito al Salvatore Giuliano di Rosi ed apparenta Pisacane a Che Guevara e a tutti i martiri dell’ingiustizia sociale.”

(In www.filmtv.it)

"Utilizzando con lucido gioco dialettico questi tre elementi del racconto (Pisacane, De Liguoro, i braccianti), Lorenzini ci propone una rigorosa lezione di storia in cui il recupero dei fatti del passato vale solo in quanto serve a capire, spiegare e cambiare il presente. Sul piano dello stile tale impostazione del discorso porta il regista a un drastico rifiuto del naturalismo e del lirismo, per privilegiare l'epica e la didascalicità, ma con uno sviluppo del racconto a blocchi ellittici, secondo ritmi popolareschi." (S. Rezoagli, 'Rivista del Cinematografo', 7/8, 1976)

(In www.cinematografo.it)

 

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini 

 

Carlo Pisacane, duca di San Giovanni (Napoli, 22 agosto 1818 - Sanza, 2 luglio 1857), è stato un rivoluzionario e patriota italiano, di ideologia socialista libertaria e di orientamento federalista d'impronta proudhoniana. Partecipò attivamente all'impresa della Repubblica Romana, assieme a Giuseppe Mazzini, Goffredo Mameli e Giuseppe Garibaldi, ma rimase particolarmente celebre per aver guidato il fallimentare tentativo di rivolta nel Regno delle Due Sicilie, che ebbe inizio con lo sbarco a Sapri e che fu represso nel sangue a Sanza, ambedue nel salernitano…
…Nel periodo londinese, mentre Karl Marx diffondeva il suo "socialismo scientifico", rielaborò il suo personale progetto politico, prima manifestazione di un nucleo italiano di pensiero socialista, innestato sulle suggestioni illuministiche, in cui si collegava l'ideale dell'indipendenza nazionale alle aspirazioni di riscatto sociale e politico delle masse contadine. Avvicinandosi in parte al pensiero di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, fu profondamente influenzato dalle idee francesi del “socialismo utopistico” e del socialismo libertario pre-marxista, espresso dalla sua formula «libertà e associazione», che aveva avuto i suoi precursori in François-Noël Babeuf e Filippo Buonarroti. Pisacane credeva che prima ancora dell'istruzione e formazione del popolo, secondo quanto predicava la dottrina mazziniana, occorresse risolvere la questione sociale, che poi era la questione contadina, con la riforma agraria. Negli anni tra il 1848 e quello della tragica spedizione in Campania, le meditate letture di Proudhon e Fourier lo portarono a polemizzare con Mazzini sul carattere della futura rivoluzione italiana. L'atteggiamento di Pisacane non si discostava sostanzialmente da quello dell'anarchico russo Bakunin nella sua fase panslavista. L'ideologia bakuniana del resto aveva una consistente influenza sulla formazione politica di una parte dei patrioti italiani come ad esempio Garibaldi.
La rivoluzione nazionale doveva scaturire dalla rivoluzione sociale. Per liberare la nazione occorreva che prima insorgessero le plebi contadine offrendo loro la liberazione economica con l'affrancamento dai loro tiranni immediati: i proprietari terrieri.
Similmente al mutualismo formulato da Proudhon, Pisacane teorizzava che a ciascun lavoratore fossero garantiti i frutti del proprio lavoro e che la proprietà privata non fosse solamente abolita ma «dalle leggi fulminata come il furto», dichiarandosi altresì sostenitore della proprietà collettiva delle fabbriche e dei terreni agricoli.
Coerentemente a tali idee, per Pisacane lo scopo ultimo della rivoluzione non era la costituzione d'uno stato centralizzato, sul modello giacobino o blanquista, bensì la formazione d'una società retta da una forma di governo essenzialmente anarchica, non gerarchica e cantonalistica. Propose dunque la semplificazione delle esistenti istituzioni politiche e sociali, affermando che la società «costituita nei suoi reali e necessari rapporti, esclude ogni idea di governo».
Altro motivo di contrasto con l'ideologia mazziniana era la questione religiosa. Mentre Mazzini si considerava l'apostolo di una nuova religione con un personale concetto di Dio - per alcuni tratti avvicinabile al deismo settecentesco, con evidenti influssi della religiosità civica e preromantica di Rousseau - e definiva il Papato «la base d'ogni autorità tirannica, Carlo Pisacane si dichiarava apertamente ateo. Nel suo Saggio sulla Rivoluzione scriveva, tra l'altro: «Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre l'esistenza di un Dio. E l'uomo creato a sua immagine; questo Dio, l'uomo l'ha creato ad immagine propria, e ne ha fatto il Creatore del mondo». Una «particella» assurdamente «creatrice del tutto».
La religione aggiungeva essere «la causa più potente che si opponga al progresso dell'umanità» e in quanto effetto «dell'ignoranza e del terrore» dovrà scomparire dalla «società rigenerata che dovrà essere indubitatamente irreligiosa.»
«Nella società rigenerata (caratterizzata dall'irreligione e dall'ateismo) non avranno più ragion d'essere né antagonismi sociali né contrasti d'interesse tra il popolo e il ceto dei filosofi come invece è avvenuto e avviene in tutte le costituzioni non riformate.»
«Un'impostazione [questa], che prendendo le mosse dalla filosofia vichiana e paganiana, sposa in toto la prospettiva avanzata da Giuseppe Ferrari, opponendosi di riflesso al pensiero di Mazzini. Posto che la religione non è, come vogliono alcuni, il bisogno insopprimibile dell'assoluto ma un sentimento di debolezza con cui l'uomo crea e adora potenze sovrumane, a nulla valgono i tentativi di coloro i quali vogliono sostituire la religione tradizionale con la religione imperniata su semplici idee (Umanità, Ragione, Libertà) che non hanno alcun contenuto religioso.»
La nuova fede sarà allora l'irreligione ossia il non aver fede in alcuna rappresentazione religiosa che non è altro che il frutto fantastico della immaginazione umana. Pisacane è convinto che l'irreligione è già presente nel modo di sentire popolare, mentre il socialismo è una dottrina ancora poco compresa ma alla fine i due ideali coincideranno e per la prima volta l'umanità sarà in grado di vivere una vita terrena svincolata dalla falsa consolazione di una felicità ultraterrena.
La questione religiosa dovrà essere affrontata politicamente nell'ambito di una visione materialistica della storia. «Da qui si capisce il non accanimento antireligioso di Pisacane e la relativa importanza che egli attribuisce al papato e alla sua capacità di condizionare la politica italiana una volta realizzata la rivoluzione.»
Divergendo da Mazzini sul socialismo e la questione religiosa, non venne comunque meno la stima personale fra i due…

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini

Sapri
Il 25 giugno 1857 Pisacane s'imbarcò con altri ventiquattro rivoluzionari, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, della Società Rubattino, originariamente diretto a Tunisi. Venti tra i partecipanti alla spedizione redassero e sottoscrissero un documento che ben rifletteva l'ideologia politica di Pisacane fondata sulla "propaganda del fatto":
«Noi qui sottoscritti dichiariamo altamente, che, avendo tutti congiurato, sprezzando le calunnie del volgo, forti nella giustizia della causa e della gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non risponderà al nostro appello, non senza maledirlo, sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange de' martiri italiani. Trovi altra nazione al mondo uomini, che, come noi, s'immolano alla sua libertà, e allora solo potrà paragonarsi all'Italia, benché sino a oggi ancora schiava»
(Su Il Cagliari la sera del 25 giugno 1857, alle 21.30)

La spedizione ebbe un contributo economico da Adriano Lemmi banchiere livornese di stampo mazziniano. Pilo si occupò nuovamente del trasporto delle armi, e partì il giorno dopo su alcuni pescherecci. Ma anche questa volta Pilo fallì nel compito assegnatogli e lasciò Pisacane senza le armi e i rinforzi che gli erano necessari. Pisacane continuò senza cambiare piani: impadronitosi della nave durante la notte, con la complicità dei due macchinisti britannici, si dovette accontentare delle poche armi che erano imbarcate sul Cagliari.
Il 26 giugno sbarcò a Ponza dove, sventolando il tricolore, riuscì agevolmente a liberare 323 detenuti, poche decine dei quali per reati politici, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28, il Cagliari ripartì carico di detenuti comuni e delle armi sottratte al presidio borbonico.
La sera i congiurati sbarcarono presso Sapri, probabilmente, per la precisione, in contrada Uliveto nel comune di Vibonati, a circa 1,5 km dal confine con il comune di Sapri. Lo sbarco, infatti, difficilmente sarebbe potuto avvenire nella baia di Sapri in quanto i fondali non lo permettevano. Inoltre, la mappa trovata addosso a Pisacane riportava una X sulla località "Oliveto", territorio di Vibonati.
Il 30 giugno Pisacane giunse a Casalnuovo (dopo l'Unità, Casalbuono) dove fu ben accolto dalla popolazione che rimase però malamente impressionata dalla condanna a morte inflitta, per dare prova di onestà e come ammonimento ai galeotti liberati a Ponza, al rivoluzionario Eusebio Bucci, che aveva derubato una donna.
Nella sua marcia verso Napoli, Pisacane decise di fermarsi a Padula dove era attivo un gruppo settario mazziniano i cui capi erano stati da poco arrestati dalla polizia. Qui fu ospitato nel palazzo di un simpatizzante della rivoluzione, Don Federico Romano che cercò nella notte tra il 30 giugno e il 1º luglio di convincere Pisacane a rinunciare all'impresa improvvisata.
La mattina seguente accadde un altro episodio che impressionò i rivoluzionari: una donna, Giuseppina Puglisi, che si era imbarcata a Ponza, per vendetta ammazzò un membro della spedizione, un tale Michelangelo Esposito, un ex militare borbonico in congedo che anni prima le aveva ucciso il marito.
I rivoltosi non trovarono ad attenderli quelle masse insurrezionali che si aspettavano ma incominciarono lo stesso la rivolta liberando i carcerati di Padula e assaltando le case dei nobili. Nel frattempo i "ciaurri" sobillavano i contadini contro i ribelli tra i quali erano banditi conosciuti e attivi in quei territori.
L'arrivo dei gendarmi borbonici e del VII Cacciatori costrinse Pisacane e i suoi a ritirarsi nell'abitato di Padula dove tra gli spari, provenienti dalle finestre delle case e dagli angusti vicoli, morirono 53 dei suoi seguaci. Gli altri, per un totale di 150, vennero catturati e consegnati ai gendarmi.

QUANTO È BELLO LU MURIRE ACCISO (Italia, 1975), regia: Ennio Lorenzini

Pisacane, con Nicotera, Falcone e gli ultimi superstiti, riuscì a fuggire a Sanza, vicino a Buonabitacolo, dove all'alba del 2 luglio il parroco, don Francesco Bianco, fece suonare le campane per avvertire il popolo dell'arrivo dei "briganti". I ribelli furono ancora una volta aggrediti e massacrati uno a uno a colpi di roncola, pale, falci. Pisacane esortò i compagni a non colpire il popolo ingannato dalla propaganda, ma anche la disperata difesa opposta non servì a nulla. Perirono in 83 e tra questi Pisacane, forse ucciso da Sabino Laveglia, capo urbano della guardia cittadina di Sanza, e Falcone. Secondo altre versioni dell'episodio Pisacane fu ucciso dai soldati borbonici, mentre secondo un altro diverso resoconto, Pisacane e Falcone, feriti gravemente e in procinto di essere uccisi, si suicidarono con le loro pistole; quelli scampati all'ira popolare furono poi processati nel gennaio del 1858: condannati a morte, furono graziati dal Re, che tramutò la pena in ergastolo. I due macchinisti britannici, che avevano favorito l'imbarco di Pisacane sul piroscafo "Cagliari", per intervento del loro governo furono dichiarati non perseguibili per infermità mentale.

Nicotera, gravemente ferito, fu portato in catene a Salerno dove venne processato e condannato a morte. Anche per lui la pena fu tramutata in ergastolo grazie all'azione del governo inglese che guardava con crescente preoccupazione la furia repressiva di Ferdinando II. Con il successivo intervento della spedizione dei Mille di Garibaldi Nicotera fu liberato e, avviatosi alla carriera politica (diverrà Ministro dell'Interno), ottenne da Garibaldi un decreto di mantenimento per la compagna di Pisacane, Enrichetta, della quale adottò la figlia Silvia.

I morti di Padula vennero sepolti in una fossa comune di una chiesa, mentre il corpo di Pisacane, come quello degli altri caduti a Sanza, venne cremato in un rogo eretto nello stesso posto, seguendo la legislazione sanitaria verso coloro che restavano insepolti per alcuni giorni, e le ceneri seppellite nel vicino cimitero o disperse. Un cippo funerario commemorativo, apposto dopo la spedizione dei Mille del 1860, lo ricorda vicino al luogo dove cadde…”

(Articolo completo in wikipedia.org)

 

Una poesia al giorno

Das Rosenband, di Friedrich Gottlieb Klopstock

Im Frühlingsschatten fand ich sie;
Da band ich sie mit Rosenbändern;
Sie fühlt’ es nicht, und schlummerte.

Ich sah sie an; mein Leben hing
Mit diesem Blick an ihrem Leben:
Ich fühlt’ es wohl und wusst’ es nicht.

Doch lispelt’ ich ihr sprachlos zu,
Und rauschte mit den Rosenbändern:
Da wachte sie vom Schlummer auf.

Sie sah mich an; ihr Leben hing
Mit diesem Blick an meinem Leben,
Und um uns ward’s Elysium.

 

Il nastro di rose (traduzione in berlinomagazine.com)

La trovai nel giardino di primavera
La legai con nastri di rose:
Dormiva e non sentì nulla.

La guardai; con quello sguardo
La mia vita si legò alla sua vita:
Quando sentii e non capii.

Poi bisbigliai silenziosamente a lei
E feci frusciare i nastri di rose:
Allora lei si destò dal sonno.

Mi guardò; con quello sguardo
La sua vita si legò alla mia vita,
E intorno a noi fu l’Elisio

 

Friedrich Gottlieb Klopstock by William Blake

 

R. Strauss: Das Rosenband, Op.36, No.1 - Andante; "Im Frühlingsschatten fand ich sie", Anne Sofie von Otter, Bengt Forsberg

KLOPSTOCK, Friedrich Gottlieb. - Poeta tedesco, nato il 2 luglio 1724 a Quedlinburg, morto ad Amburgo il 14 marzo 1803. Studiò a Schulpforta, poi a Jena e a Lipsia teologia. Durante gli anni universitari incominciò prima in prosa e poi in esametri, per influenza di letture dal Milton e dal Tasso, ma con originalità di ispirazione, il suo Messias, i primi canti del quale uscirono nel 1748 nei Bremer Beiträge. Da Langensalza, dove si era invano innamorato di una sua cugina, Marie Sophie Schmidt (la Fanny delle liriche), passò nel 1751 a Zurigo seguendo l'invito del Bodmer, il quale, leggendo i tre canti del Messias, aveva intraveduto l'avvento di una nuova "sublime epica poesia, estranea e opposta a tutte le teorie classicheggianti di Gottsched. Ma, conosciutolo, il Bodmer giudicò il K. invece di un "serafino incarnato" - come se l'era immaginato - un "don Chisciotte dissipato"; e una rottura sarebbe stata inevitabile fra i due se non fosse giunto al K., per tramite del conte Bernstorff, dal re di Danimarca Federico V, un invito a Copenaghen con uno stipendio di 400 talleri, affinché potesse condurre a termine con calma il suo poema. Nel febbraio del 1751 partì, e durante il viaggio conobbe ad Amburgo Meta Moller (v. fra le molte poesie a lei dedicate: An Cidli, Furcht der Geliebten, Das Rosenband), che tre anni dopo (1754) sposò. Quattro anni dopo essa doveva morire di parto. Tuttavia gli anni di Copenhagen furono tra i più fecondi per la produzione poetica del K.; nel 1755 finì il decimo canto del poema; nel 1757 iniziò la serie dei suoi tentativi drammatici di soggetto biblico: nel 1759 pubblicò i primi fra quegl'inni in ritmo libero che più tardi tanto dovevano entusiasmare Werther e Lotte; nel 1764 diede in forme liriche e corali i primi saggi di quella poesia d'ispirazione nordico-germanica, leggendaria, che in seguito - svolgendosi anche in forma drammatica con la trilogia Arminio (1ª parte Hermann Schlacht, 1769) - doveva suscitare in Germania tutta una corrente di letteratura "bardita", nella quale il bardo ossianico è identificato con la figura originaria del poeta germanico. Nel 1770, essendo il conte Bernstorff caduto in disgrazia presso Cristiano, succeduto nel 1766 a Federico V, il K. lo seguì ad Amburgo. E ad Amburgo, dove nella famiglia von Windhem trovò una nuova famiglia - nel 1791, essendo rimasta vedova la signora che era nipote della sua prima moglie, la sposò - rimase fino alla morte.

Nel 1771 vi raccolse in volume le Oden; nel 1772 vi terminò il Messias. Poi si volse a studî di argomento teorico, e nel 1774 pubblicò la Deutsche Gelehrtenrepublik dove, propugnando una specie di corporazione di tutti gli scrittori tedeschi, esaltò la bellezza della lingua tedesca e predicò l'avvento di una letteratura nazionale germanica nella materia, nello spirito e nell'espressione. Nel 1778-79 seguirono i Fragmente über Sprache und Dichtkunst, e nel 1778 il saggio Über die deutsche Rechtschreibung, dove la lingua tedesca è posta alla pari con la latina e la greca, è sostenuta la necessità di una riforma dell'ortografia e sono criticati quei Tedeschi che - come lo stesso re Federico - continuavano a servirsi della lingua francese. Sono scritti di carattere tipicamente settecentesco; nei quali si nota una frequente tendenza a dar calore poetico allo stile, per mezzo di allegorie e personificazioni varie delle lettere dell'alfabeto, dei metri, delle parti del discorso chiamate in causa. Ma nella esaltazione del genio, nel concetto della libertà della creazione poetica, nella celebrazione del genio poetico germanico s'incontrano intuizioni che richiamano alle idee di Hamann e di Herder; e ciò spiega come questi suoi tentativi siano stati invece salutati con entusiasmo dagl'interpreti della nuova generazione, come Goethe e i poeti del Göttinger Hain. Al medesimo periodo sono legate anche alcune delle più belle odi del K., fra le quali quella: An Freund und Feind.

Ad Amburgo lo raggiunsero nel 1789 le notizie della Rivoluzione francese. In un primo tempo anch'egli provò entusiasmo per l'avvenimento, e nel 1792 l'Assemblea nazionale gli mandò da Parigi il diploma di cittadino onorario; ma il sopraggiungere del Terrore lo spinse presto all'opposizione (v. fra le molte liriche che ne nacquero: États généraux, Mein Irrtum, ecc.). Ritornava, così, negli ultimi anni della sua vita, alla realtà, e con questo contenuto reale e concreto la sua poesia riprendeva le primitive forme, ritrovava ancora una volta la serena armonia dei metri greci. Fu l'ultimo lampo della sua grandezza; poi si spense lentamente, isolato ormai e al di fuori della vita poetica nuova della sua nazione, che pure aveva avuto in lui, dopo Lutero, il più grande riformatore della lingua e della poesia tedesca.

2 luglio 1724 nasce Friedrich Gottlieb Klopstock, poeta e autore tedesco (morto nel 1803)Il K., liberando la poesia dall'aridità del razionalismo, segnò in Germania con la sua opera gl'inizî di una nuova epoca. La sua poesia, avendo radice nel mondo spirituale del pietismo, lo tenne lontano dal "giuoco" anacreontico; e anche là dove egli accettò movenze caratteristiche del tempo, seppe riviverle in modo diverso, più profondo, più umano. Alla grazia fredda e riflessa, alla misura complimentosa oppone l'entusiasmo, al minuetto il libero impeto del canto. Da quest' intima originalità di sentire, da questa schiettezza d'immagini e immediatezza di moti del cuore, derivò, naturalmente, alla poesia anche originalità espressiva, perché la lingua dell'Aufklärung, adatta a un logico processo di pensiero, non poteva servire all'estasi, all'impeto klopstockiano. E sotto ogni aspetto fu in questo campo un innovatore: sotto l'aspetto sintattico, sotto l'aspetto stilistico, nell'uso delle parole e delle immagini; egli tendeva ad un'intensità espressiva quale la poesia tedesca non aveva ancor conosciuto. E come, a danno dell'evidenza della visione, forse per vicinanza alla letteratura dell'età barocca, fu tratto a sovrabbondare in allegorie, così fu più felice nelle tonalità ritmiche del verso e nelle armonie sonore della parola che nella capacità pittorico-descrittiva. Mosse nelle forme della sua lirica dalla metrica greco-latina, ma poi e per il suo sentimento religioso e per gl'indiretti modelli dei salmi della Bibbia e della poesia nordica, si orientò verso ritmi liberi nei quali la sua arte raggiunse la più alta espressione. Considerava la mitologia classica come un'eredità del passato, accettata dagli altri poeti soltanto come un simbolo, ma credeva mancasse così al poeta una perfetta aderenza allo spirito religioso della sua nazione, come gli pareva non si potesse, in tal modo, raggiungere un'identità tra spirito popolare e religione-mitologia. Pensando che di mitologia non si potesse fare a meno, tentò di sostituire alla mitologia pagano-classica quella cristiana. E cercò questo elemento mitologico prima nella Bibbia coi tre drammi: Der Tod Adams (1757; una rist. del 1924), Salomo (1764), David (1772); poi nel mondo delle antichità germaniche coi drammi nordici: Hermanns Schlacht (1769), Hermann und die Fürsten (1787), Hermanns Tod (1787).

L'opera però, sulla quale riposa la sua fama e che suscitò al suo tempo il massimo entusiasmo, è il Messias. C'era nell'aria una tendenza all'epica; sulle forme dell'epica erano improntate le discussioni estetiche degli Svizzeri; e, se non dai tentativi epici di contemporanei, come D. V. Triller, F. W. Hudemann, F. Ch. v. Scheyb, una spinta può essere venuta al K. dalla Bibbia, dal Milton, e anche dal Tasso, del quale si era occupato a ventun anni paragonandolo al Milton. L'opera, in venti canti, in esametri, abbraccia soltanto la passione, la morte, la risurrezione e il trionfo di Cristo. Il poema come tale è mancato. Un temperamento come quello del K. era alieno dall'epica per la sua soverchia soggettività, la sua mancanza del senso plastico, la sua lontananza dal reale, la sua incapacità a creare personaggi che fossero tali e non simboli e visioni. Egli sa soltanto descrivere, creare sfondi all'azione. Per questo il personaggio principale del poema, Cristo, è artisticamente scialbo, debole nell'agire, quasi passivo, figura di primo piano e tuttavia sempre circondato e quasi offuscato da un'infinità di altre figure, che distraggono da lui l'attenzione e la fantasia del lettore. Il poeta era troppo avvinto al dogma, al Vangelo, allo spirito religioso del tempo: il suo Cristo manca di umanità, è lontano e staccato dalla terra. Non c'è dramma in lui - si pensi al Cristo dell'abbozzo goethiano - ma soltanto rassegnazione. Originale, modernissima è invece la figura di Abbadona, un demonio pentito e tormentato dal desiderio e dalla speranza della grazia, che infine gli è concessa a premio non soltanto del suo pentimento, ma di questo suo tendere con passione alla salvezza, al perdono. Non più un simbolo dunque, bensì un uomo vivo e vero, un Faust religioso, una figura nella quale il pietismo si ritrovò e si sentì espresso. La serietà degl'intenti, della passione e del sentimento dissipano anche quel senso di stanchezza o di vuoto che descrizioni prolisse, esclamazioni, canti di giubilo o di trionfo, considerazioni o altro possono suscitare nell'animo del lettore. La linea fondamentale del poema è barocca; come barocche sono le scene, gli sfondi nei quali il poeta inquadra l'azione dei suoi personaggi, i gesti stessi di questi: tutto ha il carattere di un'estasi un po' coreografica, di una prospettiva che illude l'occhio di chi osserva.”

(Giovanni Vittorio Amoretti - Enciclopedia Italiana (1933) in www.treccani.it)

2 luglio 1724 nasce Friedrich Gottlieb Klopstock, poeta e autore tedesco (morto nel 1803)

 

Un fatto al giorno

2 luglio 1986: Rodrigo Rojas e Carmen Gloria Quintana vengono bruciati vivi durante una manifestazione di piazza contro la dittatura del generale Augusto Pinochet in Cile.

2 luglio 1986: Rodrigo Rojas e Carmen Gloria Quintana vengono bruciati vivi durante una manifestazione di piazza contro la dittatura del generale Augusto Pinochet in Cile

“Quelli che uccisero Rodrigo Rojas
Due importanti ex ufficiali dell'esercito sono stati arrestati in Cile dopo le confessioni di un soldato su uno dei più noti crimini della dittatura militare.
Martedì 21 luglio il giudice cileno Mario Carroza ha emesso un mandato di arresto nei confronti di due ex ufficiali dell’esercito e di altri cinque sottufficiali accusati a vario titolo di aver partecipato all’omicidio nel luglio del 1986 del fotografo Rodrigo Rojas (venne bruciato vivo) e di aver ferito gravemente l’attivista Carmen Gloria Quintana. L’omicidio avvenne durante una protesta a Santiago, la capitale del Cile, contro l’allora dittatore Augusto Pinochet ed è uno dei crimini più terribili dei molti commessi durante gli anni della dittatura cilena.

Il caso di Rodrigo Rojas è stato riaperto nel 2013, quando un’organizzazione per i diritti umani ha presentato per conto della famiglia una denuncia penale in Cile. Gli ex ufficiali erano i comandanti di due pattuglie militari presenti quel giorno: il tenente Julio Castañer e Iván Figueroa. Il comandante della terza pattuglia coinvolta, il tenente Pedro Fernández, è stato invece escluso dall’inchiesta perché già condannato per negligenza da un tribunale militare nel 1991. Il giudice che ha seguito le indagini non ha emesso mandati d’arresto nemmeno per i 17 soldati che formavano le pattuglie e che hanno già testimoniato di aver “semplicemente” obbedito agli ordini. Alla decisione degli arresti si è arrivati dopo che Fernando Guzmán, un soldato che all’epoca aveva 18 anni e che faceva parte di una delle tre pattuglie di Pinochet, ha deciso di raccontare cosa accadde quel giorno, parlando dei rimorsi di cui non è mai riuscito a liberarsi e della famiglia che nel frattempo lo ha lasciato.

Rodrigo Rojas, fotografo e studente di 19 anni alla Woodrow Wilson High School di Washington, era tornato in Cile nel maggio del 1986 per conoscere il suo paese di origine. Era nato in Cile, ma era cresciuto a Washington poiché la madre, Verónica De Negri era stata imprigionata, torturata ed espulsa dal paese dopo il colpo di stato dell’11 settembre del 1973 che aveva destituito Allende e portato al potere Pinochet. Nel 1977, con i due figli Rodrigo e Pablo, si era stabilita negli Stati Uniti.

La mattina del 2 luglio del 1986 Rodrigo Rojas prese parte a una manifestazione indetta contro la dittatura in un quartiere operaio di Santiago. Tre pattuglie di militari intercettarono il gruppo di fotografi di cui Rojas faceva parte: quasi tutti riuscirono a fuggire ma Rodrigo Rojas e una studentessa, Carmen Gloria Quintana, che all’epoca aveva 18 anni, furono invece catturati. Quintana, che sopravvisse, raccontò che lei e Rojas vennero picchiati duramente, cosparsi di benzina e bruciati.

Fernando Guzmán ha testimoniato in tribunale che il comandante di una di queste divisioni, il tenente Castañer, dopo aver confiscato la macchina fotografica di Rojas, ordinò a un soldato di versare della benzina sui due ragazzi e che accese il fuoco lui stesso con un accendino. Guzmán ha anche raccontato di aver sentito il tenente Castañer dire al comandante di una terza pattuglia militare, il tenente Fernández, che fosse meglio ucciderli ma che Fernández si rifiutò. Castañer è attualmente un consigliere del capo di stato maggiore della divisione dell’esercito cileno a Punta Arenas, nell’estremo sud del paese, e fino al 2010 era un professore di scienze politiche all’Università di Magallanes: ha sempre negato una sua responsabilità nell’azione contro Rojas.

Guzmán ha raccontato che la pattuglia comandata dal tenente Fernández prese i due ragazzi e che li portò alla periferia di Santiago, scaricandoli in un fosso. Rodrigo Rojas e Carmen Gloria Quintana vennero trovati avvolti in due coperte da alcuni operai, furono portati in una stazione di polizia e poi in un ospedale. Entrambi avevano ustioni su oltre il 60 per cento del corpo, ma i funzionari del governo si rifiutarono di autorizzare il loro trasferimento in un diverso ospedale dove avrebbero potuto ricevere delle cure migliori. Alla madre di Rojas, la signora De Negri che nel frattempo era diventata un’attivista di Amnesty International, fu dapprima vietato di rientrare in Cile, ma grazie ad alcune organizzazioni per i diritti umani cileni e all’ambasciatore degli Stati Uniti in Cile, ricevette l’autorizzazione all’ingresso. Gli ultimi giorni di vita del figlio, li passò con lui. Rodrigo Rojas morì il 6 luglio del 1986.

Carmen Gloria Quintana sopravvisse, ma rimase gravemente sfigurata dalle ustioni: i due anni successivi al luglio 1986 li passò in Canada per ricevere cure mediche e circa 40 operazioni chirurgiche. Più tardi prese una laurea in psicologia e si sposò. Lo scorso anno ha ricevuto un incarico dalla nuova presidente del paese Michelle Bachelet all’ambasciata cilena di Ottawa.

Dopo l’uccisione di Rojas, l’esercito negò ogni coinvolgimento. Il generale Pinochet suggerì che i due ragazzi si fossero accidentalmente dati fuoco da soli con del materiale infiammabile che stavano trasportando per costruire le barricate. Più di due settimane dopo, l’esercito ammise la presenza sulla scena di diversi membri delle forze armate, continuando a sostenere però che Rodrigo Rojas e Carmen Gloria Quintana fossero responsabili delle loro stesse ustioni, e che i soldati li avessero avvolti nelle coperte per spegnere le fiamme sui loro corpi. Guzmán, l’ex soldato, ha invece testimoniato che i 17 militari che facevano parte delle pattuglie militari, lui compreso, vennero minacciati e istruiti dai loro comandanti sulla versione ufficiale della storia da fornire durante le indagini: «Abbiamo dovuto imparare a memoria le dichiarazioni che erano già state preparate» e «abbiamo anche dovuto fare dei sopralluoghi perché tutto corrispondesse».”

(In www.ilpost.it)

 2 luglio 1986: Rodrigo Rojas e Carmen Gloria Quintana vengono bruciati vivi durante una manifestazione di piazza contro la dittatura del generale Augusto Pinochet in Cile

“«Li gettarono per terra con violenza, ridendo, innaffiandoli con il liquido infiammabile, minacciandoli di appiccare il fuoco. E loro, mentre li innaffiavano, non riuscivano ancora a crederci. E mentre il fiammifero si accendeva, ancora dubitavano che la crudeltà fascista li avrebbe trasformati in torce umane, un monito per gli oppositori. E poi la scintilla. E gli abiti che bruciavano in un attimo, la pelle che bruciava, che si staccava. E tutto l’orrore del mondo che crepitava in quei corpi giovani, nei loro bei corpi carbonizzati, che facevano luce come torce nel black out della notte di protesta. Corpi di marionette in fiamme, che sussultavano al ritmo delle risate. Corpi arroventati, metaforizzati all’estremo come stelle di una Sinistra divampante. Dopo il dolore, dopo l’inferno, l’incoscienza. Dopo quella danza macabra un vuoto di tomba, un fosso dove vennero abbandonati perché li credevano morti. Perché solo la loro morte avrebbe permesso di inventare un incidente, una perdita di benzina che aveva dato fuoco agli abiti. E venne l’alba, solo per Carmen Gloria, perché Rodrigo, il bel Rodrigo, forse più debole, forse più bambino, non poté saltare oltre il falò e continuò ad ardere nel profondo della terra».

Così Pedro Lemebel, indomabile voce delle minoranze cilene, ha raccontato in una delle sue famose «colonne» sulla rivista Punto Final la vicenda terribile di due ragazzi bruciati vivi da una pattuglia dell’esercito in una strada di Los Nogales, quartiere povero e periferico con un lunga storia di lotte sociali. A ispirargli quella breve nota del 1999 era stato l’incontro di un attimo, alla Fiera del libro di Viña del Mar, proprio con la sopravvissuta Carmen Quintana, «il volto in fiamme della dittatura», che camminava tra la gente portando con orgoglio «il maquillage perpetuo» lasciato dal fuoco e mai completamente scomparso, nonostante le quaranta operazioni subìte.
Quando i militari avevano inzuppato di benzina lei e Rodrigo Rojas, entrambi stavano partecipando a una delle tante manifestazioni destinate a paralizzare tutto il paese durante i due giorni di sciopero generale proclamati per il 2 e il 3 luglio del 1986, nell’ultimo scorcio della dittatura di Pinochet: Rodrigo intendeva documentare la protesta, e Carmen faceva parte di un gruppetto che allestiva una barricata con vecchi pneumatici e una tanica di benzina. I due ragazzi non si conoscevano, ma lei, a Los Nogales per distribuire volantini, qualche giorno prima aveva incrociato il giovane fotografo che, alto quasi due metri e con un vago accento da gringo, non mancava di farsi notare.

Torce umane
All’arrivo dei soldati (una pattuglia dell’esercito comandata dal tenente Pedro Fernández Dittus e composta da cinque sottufficiali e diciassette militari di leva, più tre ufficiali in abiti civili) tutti riuscirono a scappare, tranne Rodrigo e Gloria che vennero raggiunti, gettati per terra e innaffiati di benzina. Poi uno degli ufficiali in abito civile, il tenente Julio Castañer, diede loro fuoco con un accendino. I corpi ancora fumanti vennero avvolti in alcune coperte, caricati su un camion e abbandonati nei dintorni della città, a venti chilometri di distanza, dove li trovarono alcuni contadini.
Rodrigo morì quattro giorni dopo (i medici dell’ospedale avevano impedito il suo trasferimento in una clinica meglio attrezzata, racconta sua madre, ed era stata una giovane dottoressa di servizio quel giorno, Michelle Bachelet, a impedire che i militari trafugassero il corpo), e i suoi funerali si trasformarono in una immensa manifestazione repressa con estrema violenza, mentre i tribunali civili e militari si affrettavano a far passare l’accaduto per un incidente provocato da una molotov che Rodrigo avrebbe avuto addosso: una versione confermata dallo stesso Pinochet, la cui moglie – Lemebel ne fa una magistrale e acidissima caricatura nel romanzo Ho paura, torero – nel frattempo commentava: «Perché si lamenta tanto, quella ragazza, per una scottatura da niente?», come riporta la giornalista Alejandra Matus in una sua recente biografia.

Una madre battagliera
Dittus fu condannato a due anni di arresti, scontati solo in parte, per non aver portato i due «infortunati» in ospedale, e un coro unanime che includeva anche il ministro della difesa Patricio Carvajal, il magistrato Alberto Echavarría, i giornalisti del quotidiano El Mercurio (proprietà del potentissimo Agustín Edwards, che solo qualche mese fa è stato finalmente espulso dall’Ordine dei Giornalisti per il suo ferreo sostegno alla dittatura) e il ministro dell’interno Ricardo García Rodríguez, si prodigò nel sostenere la versione ufficiale, mentre il cosiddetto Patto del Silenzio oscurava i crimini dell’esercito cileno e della dittatura.
Ma come fossero andate le cose non è mai stato, in realtà, un mistero per nessuno, e non solo grazie all’ostinazione di Verónica De Negri, formidabile madre di Rodrigo e battagliera militante di sinistra che, arrestata e torturata per oltre un anno nel campo di concentramento di Tres Alamos, fu costretta all esilio con i due figli (Rodrigo lasciò il suo paese a dieci anni, crebbe a Washington senza mai smettere di sentirsi cileno, e tornò in patria a diciotto anni), o per la tenacia di Carmen Quintana, che in questi anni si è laureata in psicologia e ora vive in Canada, da dove non ha mai smesso di chiedere giustizia. Con gli anni, il bel volto di Rodrigo e quello torturato di Carmen sono diventate vere e proprie icone, e sul Caso Quemados hanno continuato a lavorare le associazioni per i diritti umani, sono state composte canzoni, messi in scena spettacoli (il prossimo, Selva, scritto e diretto da Pierre Sauré, debutterà a settembre), scritti libri come Quemados vivos della giornalista Patricia Verdugo, composte canzoni e girati documentari come Los están quemando vivos, prodotto dalla Vitel, o come lo splendido e premiatissimo La ciudad de los fotografos, realizzato nel 2006 da Sebastián Moreno, figlio di uno dei fotoreporter che nel 1981 fondarono la Asociación de Fotógrafos Independientes per sottrarsi a ogni connivenza con il regime e cercare di evitarne la censura, percorrendo in gruppo le strade di Santiago tra manifestazioni, proteste, arresti.

Rumori di fondo
È a loro che si unì Rodrigo Rojas, entusiasta, solare, sensibile e senza paura come lo descrive suo zio Claudio De Negri (dirigente comunista, ex direttore del quotidiano El siglo e da poco ambasciatore cileno in Vietnam), e sono loro che per ricordarlo hanno istituito il Giorno Nazionale della Fotografia, celebrato ogni 19 di agosto con l’assegnazione di un premio destinato al miglior fotografo giovane. E nel 2013 le opere del fotografo ragazzino, ancora sconosciute al pubblico, sono state esposte presso il Museo di Arte Contemporanea di Santiago, in una sorta di omaggio postumo.
No, il Cile non ha mai davvero smesso di aver presente il Caso Quemados, che è stato per anni una sorta di tenue rumore di fondo pronto a riaffiorare qua e là, fino alla vera e propria esplosione di questi ultimi giorni. Alla fine del mese scorso, infatti, uno dei soldati che facevano parte della pattuglia di Dittus, Pedro Franco Rivas, ha deciso di parlare, e dopo di lui anche un secondo militare, Fernando Guzmán, ha infranto la consegna del silenzio. Clamorosamente riaperto, il caso è ora in mano di Mario Carroza, magistrato che si occupa di crimini del regime commessi trenta o quarant’anni fa. Con pazienza, Carroza ricostruisce storie perdute, segue piste nebulose, rintraccia e interroga testimoni di fatti remoti, arresta e processa colpevoli che per molto tempo sono rimasti impuniti, come Fernández Dittus, rispettabile dirigente di una scuola privata, o come Castañer, consulente dell’esercito ed ex professore universitario. Tranquilli borghesi senza macchia apparente, che adesso si ritrovano imputati, con i soldati cui venne imposto di attenersi alla versione ufficiale, di omicidio e tentato omicidio.

Crimini che riaffiorano
«Carroza è il primo che, in ventinove anni, sembra disposti ad ascoltarmi», ha dichiarato la madre di Rodrigo, dopo aver precisato di non «contemplare il perdono» e di ritenere che esistano responsabilità a livelli diversi: quelle più immediate di Pinochet e dei suoi (la cui opera di insabbiamento è documentata anche dai dispacci custoditi nel National Security Archive degli Usa e desecretati da anni), e quelle, di altro genere, dei governi della transición, che hanno fatto ben poco per perseguire i crimini della dittatura. E così la pensa anche Carmen Quintana, che ha chiesto alla presidente Bachelet di rendere pubblico sin da ora il dossier Valech, frutto dell’indagine di una commissione istituita da Ricardo Lagos nel 2004, senza aspettare che scadano i cinquant’anni stabiliti.
«Roba vecchia, ai cileni non interessa più»; l’ha messa a tacere Fernando Villegas, un sociologo e giornalista molto noto, quando Carmen ha partecipato poche settimane fa al programma televisivo Tolerancia Zero. Ma chissà se è proprio così, visto che quella frase gli è costata il rifiuto dei suoi libri da parte di un libraio di Santiago, ventiquattro denunce davanti al Consejo Nacional de Televisión e una furibonda campagna «contro» sui social media. Forse, anche se il momento non è facile e il governo Bachelet è alla prese con innumerevoli gatte da pelare, il Cile sta cominciando a fare davvero i conti con il passato e a rendersi conto che il suo presente ha bisogno non solo della memoria, ma anche della giustizia per chi non è mai riuscito ad averla, come Rodrigo Rojas e Carmen Quintana.”

(Francesca Lazzarato in ilmanifesto.it)

Carmen Gloria Quintana

 

 

Una frase al giorno

"Per vivere si deve guadagnare il salario che è la legge di ferro del capitalismo, la frusta che continua a guidare il nostro mese dopo mese… Ma quelli che la conoscono sanno che questo ci sta distruggendo"

(Lily Braun, donna conosciuta in tutto il mondo per il suo lavoro per le donne, sconosciuta in Italia)

“L'aristocratica Lily Braun (1865-1916) si unì alla borghesia femminile in Germania all'inizio del 1890 e divenne membro dell'Associazione radicale per il benessere delle donne (Verein Frauenwohl) nel 1894. Due anni dopo, si dichiarò ufficialmente un membro del Partito socialdemocratico tedesco (SPD). Tuttavia, Braun si è trovata isolata dalla maggior parte degli altri membri e leader del partito femminile, che provenivano principalmente dalla classe operaia. Si scontrò spesso con le donne leader del movimento delle donne socialdemocratiche per questioni di strategia e tattica e divenne nota come un'ardente critica, Clara Zetkin (1857-1933). Tuttavia, Braun rimase attiva in politica e divenne una famosa scrittrice.

Lily Braun (1865-1916)

Braun nacque il 2 luglio 1865 a Halberstadt, nella provincia prussiana della Sassonia, figlia di Hans von Kretschmann, generale della fanteria dell'esercito prussiano, e di sua moglie Jenny, nata von Gustedt. Cresciuta secondo le virtù prussiane di ordine e disciplina nei luoghi che cambiano durante la carriera militare di suo padre, sviluppò tuttavia una personalità diretta e aperta. Dal 1893 Lily Braun si sposò brevemente con Georg von Gizycki (1851-1895), professore di filosofia all'Università di Berlino, che fu associato all'SPD senza essere ufficialmente membro, il che gli sarebbe costato il lavoro. Dopo la morte del suo primo marito, si sposò nel 1896 Heinrich Braun (1854-1927), che era un politico socialdemocratico e un pubblicista. La coppia ebbe un figlio, Otto Braun, un poeta di grande talento che fu ucciso nel 1918 sul fronte occidentale.

Gran parte dell'attivismo femminista di Lily Braun si è concentrato sull'ottenimento di tutele legali per madri e bambini (in particolare madri single e i loro figli). In particolare, ha sostenuto l'indipendenza economica delle donne e l'assicurazione di maternità per le madri che lavorano. Braun ha cercato di unire la politica del femminismo della classe media e del socialismo democratico nelle sue opere e ha cercato di riformare, non di rivoluzione. Questo alla fine ha creato un conflitto ideologico tra lei e Clara Zetkin, la leader femminile di spicco nel SPD e nel movimento femminista socialista. I due non erano d'accordo soprattutto sul tema della militanza femminista. Zetkin ha promosso l'uso di misure rivoluzionarie e azioni militanti per far avanzare il movimento per l'emancipazione delle donne, ma Braun ha ritenuto che i progressi potessero essere realizzati al meglio attraverso riforme graduali. Tuttavia, Braun e i suoi colleghi hanno concordato su alcuni punti essenziali.

Lily Braun divenne famosa in Germania per il suo primo grande lavoro Die Frauenfrage: Ihre geschichtliche Entwicklung und ihre wirtschaftliche Seite (The Women’s Question: Historical Development and Economic Sspect), pubblicato nel 1901, che fu accolto molto positivamente. Nel 1906, ha pubblicato Die Mutterschaftsversicherung: ein Beitrag zur Frage der Fürsorge für Schwangere und Wöchnerinnen (Assicurazione sulla maternità: un contributo alla domanda di assistenza per le donne incinte e quelle in materasso), con la quale ha chiesto maggiore protezione della madre che lavora. Nel suo lavoro di fantasia Mutterschaft. Ein Sammelwerk für die Probleme des Weibes als Mutter (Motherhood. An Anthology on the Problems of the Woman as Mother) dal 1912, Braun richiamò l'attenzione su due madri (ma rappresentative) di fantasia: una madre della classe media che poteva stare a casa, e una madre della classe operaia che aveva bisogno di guadagnare un reddito e difficilmente vede i suoi figli. La casalinga sgrida i suoi figli ed è quasi gentile con loro perché oltre a gestire la famiglia, sopporta il peso delle responsabilità genitoriali con il piccolo aiuto di suo marito. Al contrario, la madre che lavora è molto più gentile con i suoi figli perché è lontana da loro tutto il giorno e può "venire da loro con un cuore pieno d'amore". Braun intendeva dipingere un ritratto di due madri "nessuna delle due [di cui] poteva essere una vera madre" a causa delle strutture sociali che lavoravano contro di essa. La donna che resta a casa è arrabbiata, oberata di lavoro e risentita, mentre la madre che lavora non può essere presente nella vita dei suoi figli.

Lily Braun (1865-1916)

Ancora più riconoscimenti come scrittrice le portarono il libro di due volumi Memoiren einer Sozialistin - Lehrjahre (Memoirs of a Socialist - Apprenticeship Years) e Memoiren einer Sozialistin - Kampfjahre (Memoirs of a Woman Socialist - Years of Struggle), pubblicato nel 1909 e nel 1911.

Braun ha sostenuto la politica SPD a sostegno della prima guerra mondiale. Ha incoraggiato suo figlio a fare volontariato. Preoccupata per il destino di suo figlio sul fronte di battaglia, Lily Braun morì nella sua casa di Zehlendorf (oggi parte di Berlino) per le conseguenze di un ictus all'età di 51 anni.

Lily Braun rimane rilevante oggi non solo per il suo contributo al movimento delle donne in Germania e in Europa, ma anche come esempio delle disparità all'interno del movimento delle donne. È facile supporre che le femministe di tutto il mondo siano d'accordo su tutti i punti e lavorino senza soluzione di continuità verso la stessa causa. Non era assolutamente così, e in effetti il movimento delle donne era pieno di ambiguità e contraddizioni. Come dimostrato dalla relazione tra Braun e Zetkin, ad esempio, anche i membri degli stessi gruppi politici erano in conflitto. Comprendere il ruolo di Lily Braun nel movimento può aiutare gli studenti del movimento femminile a vedere tutte le sue complessità, così come l'unità che si è verificata nonostante la tensione ideologica".

(Nicole Sotelo, History and Political Science, Class of 2019 in hist259.web.unc.edu)

2 luglio 1865 nasce Lily Braun, autrice e pubblicista tedesca (morta nel 1916)

 

Un brano musicale al giorno
  • Jean Sibelius (1865-1957): “Finlandia”, Op.26, No.7, poema sinfonico per orchestra.

Berliner Philharmoniker, Direttore: Herbert von Karajan.
Andante sostenuto. Allegro moderato. Allegro
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, piatti, grancassa, archi
Composizione: 1900

2 luglio 1900: prima esecuzione di “Finlandia” Jean Sibelius a Helsinki, con la Helsinki Philharmonic Society condotta da Robert Kajanus.

Johan Julius Christian Sibelius, conosciuto come Jean Sibelius (Hämeenlinna, 8 dicembre 1865 - Järvenpää, 20 settembre 1957), è stato un compositore e violinista finlandese

 

Nel 1899 la dominazione dello zar Nicola II accentuò con alcune misure repressive l'oppressione della Finlandia; Sibelius, come molti altri intellettuali finlandesi, reagì contro questa nuova limitazione delle libertà più elementari. Il poema sinfonico Finlandia fu composto come finale di una serie di sei quadri (Tableaux), che descrivono scene leggendarie e storiche (i primi cinque furono infatti raccolti come op. 25 sotto il titolo generale di Scènes historiques), concepiti secondo lo spirito patriottico di quel periodo. Scritti tutti nel 1899 (poi rivisti, il sesto Tableau op. 26 Finlandia nel 1900, gli altri cinque op. 25 nel 1911) vennero eseguiti per le "Celebrazioni della stampa" il 14 dicembre dello stesso anno, a Helsinki, sotto la direzione dell'autore. Finlandia fa riferimento obbligato ed esplicito alle melodie popolari del paese.

Apre il poema sinfonico un tema agitato e quasi rabbioso degli ottoni, corto, accompagnato da rulli di timpani, incisivo. Ad esso risponde, a mo' di registro d'organo, la famiglia degli strumentini, con un tema di carattere religioso, che passando poi agli archi acquista fervore. Questo tema si collega direttamente a un Allegro moderato, che riporta, col tema d'apertura, al clima dell'inizio, reso più irrequieto e ansioso anche per l'apparire di una nuova idea caratteristica costituita da otto note rapidamente ripercosse che ricorrerà sino alla fine del brano. Ciò dà l'impressione di un nuovo Allegro, scandito da un poderoso inciso dei tromboni rafforzati dai timpani, che farà da persistente sottofondo all'esuberante tema in la bemolle maggiore. Lo stesso tema si espanderà, misto a quello di note ribattute, per tutta l'orchestra, sino all'intensa melodia, intonata dagli strumentini e poi raccolta dagli archi, che viene a interrompere per un momento il dinamico corso della composizione, così da suscitare la visione di una pace promessa a premio delle lotte combattute. Una prospettiva che il ritorno prepotente dei temi già ascoltati confermerà attraverso un'elaborazione conclusiva dagli accenti trionfali.”

(Testo tratto dal Repertorio di Musica Classica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001 in www.flaminioonline.it)

 

Johan Julius Christian Sibelius, conosciuto come Jean Sibelius (Hämeenlinna, 8 dicembre 1865 - Järvenpää, 20 settembre 1957), è stato un compositore e violinista finlandese. In Finlandia è conosciuto anche con il nome di Janne Sibelius. Insieme a Elias Lönnrot e Johan Ludvig Runeberg, la sua figura è il simbolo musicale dell'identità nazionale finlandese.

Le sue composizioni più note sono Finlandia, Valzer Triste, il concerto per violino e orchestra, la suite Karelia e Il cigno di Tuonela (un movimento della suite Lemminkäinen), ma egli scrisse molta altra musica, tra cui altri pezzi ispirati al Kalevala, sette sinfonie, oltre cento Lieder per voce e pianoforte, musiche di scena per 13 drammi, un'opera (Jungfrun i tornet), musica da camera tra cui un quartetto d'archi, musica per pianoforte, musica corale e musica rituale massonica.

 

Jean Sibelius nacque nel 1865 a Hämeenlinna nel Granducato di Finlandia, sotto il dominio russo. La sua famiglia, per metà svedese, decise consapevolmente di mandare Jean in un'importante scuola di lingua finlandese. Ciò deve vedersi come parte della più ampia crescita del movimento dei fennomani, un'espressione del nazionalismo romantico che sarebbe diventata una parte cruciale della produzione artistica e delle idee politiche di Sibelius. Egli morì a causa di un'emorragia cerebrale. Jean Sibelius fece parte di un gruppo di compositori che accettarono esteriormente le norme di composizione della fine del XIX secolo, ma cercò di semplificare radicalmente la costruzione interna della musica. Come nel caso di Antonín Dvořák, ciò lo portò a ricercare melodie idiomatiche, con un carattere nazionale identificabile; ma portò anche un approccio unico e idiosincratico alle tecniche di sviluppo. Nella prima fase della sua attività Sibelius fu influenzato da Ferruccio Busoni e Pëtr Il'ič Čajkovskij; l'influenza di quest'ultimo è particolarmente evidente nella sua sinfonia corale Kullervo, del 1891, così come nella sua Sinfonia n. 1 in mi minore del 1899. In effetti l'influenza di questi due compositori è evidente fino al suo concerto per violino del 1903. In seguito egli rimosse progressivamente gli indicatori formali della sonata dalle sue opere e perseguì l'idea di sviluppare continuamente cellule e frammenti, fino a giungere ad una grandiosa composizione finale. La sintesi era spesso così completa che si pensava che partisse dalla composizione finita e lavorasse a ritroso. Sibelius creò molta della sua musica con melodie che hanno delle implicazioni modali molto potenti e che vengono protratte su diverse note. Il suo linguaggio armonico è spesso moderato e riduttivo in confronto a molti dei suoi contemporanei, e fa uso frequente delle note di pedale. Sibelius ebbe a dire: "la musica spesso si smarrisce senza un pedale." A causa di ciò, la musica di Sibelius viene talvolta considerata non abbastanza complessa, ma fu immediatamente rispettato dai suoi colleghi, compreso Gustav Mahler. Più tardi nel corso della sua vita venne esaltato dal critico Olin Downes, ma attaccato da Virgil Thomson. Forse una ragione per cui Sibelius si attrasse le ire dei critici è che in ognuna delle sue sette sinfonie approcciò i problemi fondamentali di forma, tonalità e architettura in modi unici e personali. In definitiva per superare il sistema tonale, già portato agli estremi da Wagner, Sibelius intraprese la strada opposta a quella della Seconda scuola di Vienna. Se compositori come Arnold Schönberg e Alban Berg abbandonarono la tonalità per costruire ex novo un sistema armonico proprio, Sibelius cercò nuova ispirazione partendo dalla tradizione più antica, dagli antichi modi, rimasti quasi inutilizzati nella musica colta successiva al medioevo, ma ancora vivi nella musica tradizionale e popolare.

Sibelius si sforzò viepiù di usare nuovi accordi, compreso il nudo tritono, per esempio nella Sinfonia n. 4, e semplici strutture melodiche per costruire lunghi movimenti musicali. Spesso alterna parti melodiche ad accordi squillanti degli ottoni che erompono e si dissolvono, o punteggia la musica con frasi ripetitive che si contrappongono alla melodia e contromelodia. Le sue opere sono ricche di riferimenti letterari non sempre espliciti. La Seconda Sinfonia ha un andamento che richiama la figura di Don Giovanni che s'insinua al chiaro di luna mentre la dura quarta sinfonia riunisce l'opera per la pianificata sinfonia "Montagna" con un poema sinfonico che s'ispirava all'opera di Edgar Allan Poe Il Corvo. Scrisse inoltre molti poemi sinfonici ispirati dalla poesia finlandese, esordendo con En Saga e culminando con Tapiola (1926), la sua ultima opera maggiore.

Pubblicò solo pochi pezzi minori dopo il 1926, e si dice abbia distrutto il manoscritto della Sinfonia n. 8 una volta completata. Le sue ultime opere maggiori sono delle sinfonie Sesta e Settima, musiche per La tempesta di William Shakespeare e Tapiola. Nel 1958 il quotidiano Manchester Guardian riassunse lo stile delle sue ultime opere dicendo che mentre altri erano impegnati nella confezione di cocktail, lui serviva al pubblico pura acqua gelida. Ma per circa trent'anni, dopo la Grande Guerra ed un'operazione di sospetto cancro alla gola, Sibelius evitò di parlar della propria musica e non compose praticamente altro.

Sibelius ha avuto fortuna artistica varia; ciononostante resta uno dei più popolari compositori sinfonici del XX secolo i cui interi cicli sinfonici vengono reiteratamente registrati. A suo tempo, tuttavia, si concentrò soprattutto sulla più remunerativa musica da camera e solo occasionalmente per il palcoscenico. Attualmente Paavo Berglund e Sir Colin Davis sono considerati i maggiori interpreti del suo lavoro. Altre raccolte classiche di sinfonie si devono a John Barbirolli, Leonard Bernstein, Herbert von Karajan e Vladimir Ashkenazy. Di recente Osmo Vänskä e la Sinfonia Lahti hanno pubblicato un'opera omnia di Sibelius ben accolta dalla critica e che include brani inediti o ritirati, come la prima versione della Quinta sinfonia (1915), mentre il noto pianista finlandese Olli Mustonen ha inciso l'opera omnia per pianoforte per l'etichetta Ondine.

«Con la sola tecnica, senza ispirazione, non si può fare della bella musica, allo stesso modo che gli ingegneri, pur sapendo come sfruttare la forma d'una cascata per produrre l'energia elettrica, non possono fare nulla senza l'aiuto della natura che fa sgorgare l'acqua dalle sorgenti e le intima di correre verso il mare o i laghi.»

(Jean Sibelius, da Intervista con Sibelius l'autore del "valzer triste", 1° febbraio 1950 in wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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