“L’amico del popolo”, 23 aprile 2020

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

HUMORESQUE (US, 1920), regia di Frank Borzage. Prodotto da William Randolph Hearst. Sceneggiatura: William LeBaron, Frances Marion. Da una storia di Fannie Hurst. Musiche: Hugo Riesenfeld. Fotografia: Gilbert Warrenton. Cast: Gaston Glass nel ruolo di Leon Kantor. Vera Gordon nel ruolo di Mama Kantor. Alma Rubens nel ruolo di Gina Berg (aka Minnie Ginsberg). Dore Davidson nel ruolo di Abrahm Kantor. Bobby Connelly nel ruolo di Leon Kantor (bambino). Helen Connelly nel ruolo di Esther Kantor (bambino). Ann Wallack nel ruolo di Esther Kantor (adulto) (accreditato come Ann Wallick). Sidney Carlyle nel ruolo di Mannie Kantor. Joseph Cooper nel ruolo di Isadore Kantor (bambino). Maurice Levigne nel ruolo di Isadore Kantor (adulto). Alfred Goldberg nel ruolo di Rudolph Kantor (bambino). Edward Stanton nel ruolo di Rudolph Kantor (adulto). Louis Stern come Sol Ginsberg (accreditato come Louis Stearns). Maurice Peckre nel ruolo di Boris Kantor. Ruth Sabin nel ruolo della signora Isadore Kantor .. Miriam Battista nel ruolo di Minnie Ginsberg (bambina).

“Leon Kantor, nato in povertà nel quartiere ebraico nell'East Side di New York, mostra fin da bambino grande talento musicale. La madre compie ogni sacrificio perché il figlio possa realizzare il suo sogno. Col passare degli anni, il ragazzo è diventato un musicista provetto, ma proprio mentre sta per firmare un contratto importante, è chiamato a combattere nella prima guerra mondiale. Ferito e pronunciato storpio a vita, torna a casa spezzato nel corpo e nello spirito, perdendo interesse in tutto ciò che prima aveva caro. Di nuovo la famiglia viene in suo aiuto; grazie alle cure della madre e all'amore della fidanzata recupera l'uso del braccio e riprende a suonare il violino.”

(In wikipedia.org)

HUMORESQUE (US, 1920), regia di Frank Borzage 

"...Mentre la sua carriera andava avanti, Borzage fu in grado di focalizzare temi sentimentali come questo in modo che i miracoli basati sull'amore possano sembrare abbastanza credibili, ma i colpi di scena di Humoresque non sono convincenti. Resta interessante perché fa luce in qualche modo inquietante sul desiderio di conforto materno in tutte le sue famose storie d'amore. La grottesca Mama Kantor e la sua sessualità sublimata sembrano oggi un incrocio demenziale tra la signora Portnoy e Shelley Winters. Alla fine Borzage ha integrato questa figura allarmante nei suoi successivi capolavori della felicità eterosessuale, ma vedere Humoresque è un po' come scoprire troppe informazioni sui problemi sessuali di un amico. (...)"

(Dan Callahan in www.slantmagazine.com

"Nessun regista ha mostrato meglio di lui l'intimo calore dell'amore umano in una coppia profondamente unita", ha scritto di Frank Borzage lo storico del cinema Georges Sadoul. "I suoi amanti sono raramente isolati dal loro ambiente ma sono accuratamente rappresentati come parte del loro tempo, la maggior parte in un'America in crisi. Oltre a comprendere le relazioni umane e in esse la tenerezza poetica, aveva una consapevolezza sociale e molti dei suoi film esprimono un odio per la guerra. Humoresque, il suo secondo film in una carriera di quarant'anni, è ambientato in un ghetto ebraico magnificamente e meticolosamente ricreato al tempo della prima guerra mondiale; è la storia di una madre cui vengono esaudite le preghiere affinché suo figlio diventi musicista, prima che il ragazzo venga chiamato alle armi e stenti a ricongiungersi con la sua fidanzata. Anche in questa versione muta, Borzage evidenzia due segmenti musicali - il canto di Kol Nidre e il modo di suonare "Humoresque" - semplicemente concentrandosi sui volti degli ascoltatori. (...)

(In bampfa.org)

HUMORESQUE (US, 1920), regia di Frank Borzage

“Il sentimentalismo nel film è stato enfatizzato dal regista Borzage attraverso il suo uso pionieristico di soft focus e riprese con garze.

Humoresque ebbe molto successo di pubblico ed è stato elogiato dalla critica per il realismo nel suo ritratto della vita familiare del ghetto di New York City. Il suo successo portò all'uscita di numerosi film simili, spesso con un personaggio come la "madre che soffriva da molto tempo", tra cui Cheated Love (1921), The Barricade (1921), The Good Provider (1922), Hungry Hearts (1922), Little Miss Smiles (1922), Solomon in Society (1922), Salome of the Tenements (1925), Souls in Exile (1926), Jake the Plumber (1927) e East Side Sadie (1929).

Nel 1921, Humoresque è stato il primo film a ricevere la Photoplay Medal of Honor, il primo premio cinematografico, che ha preceduto gli Academy Awards di nove anni.

(In wikipedia.org)

 

 

Una poesia al giorno

Al túmulo del Rey, di Miguel de Cervantes y Saavedra

«¡Voto a Dios que me espanta esta grandeza
y que diera un doblón por describilla!
Porque ¿a quién no sorprende y maravilla
esta máquina insigne, esta riqueza?

»Por Jesucristo vivo, cada pieza
vale más de un millón, y que es mancilla
que esto no dure un siglo, ¡oh gran Sevilla!,
Roma triunfante en ánimo y nobleza.

»Apostaré que el ánima del muerto,
por gozar este sitio, hoy ha dejado
la gloria donde vive eternamente».

Esto oyó un valentón y dijo: «Es cierto
cuanto dice voacé, seor soldado,
y el que dijere lo contrario miente».

Y luego, in continente,
caló el chapeo, requirió la espada,
miró al soslayo, fuese y no hubo nada.

 

Al sepolcro del Re (traduzione di Ugo Brusaporco)

«Voto per Dio che mi spaventa questa grandezza
e darei un doblone per poterla descrivere!
Perché chi non sorprende e meraviglia
Questo artefatto insigne, questa ricchezza?”

Per Gesù Cristo vivo, ogni singolo pezzo
vale più di un milione, anche se infangato
che questo non duri un secolo, oh grande Siviglia! ,
Roma trionfante nel coraggio e nella nobiltà »

“Scommetto che l'anima del morto,
per godere questo luogo, oggi ha lasciato
la gloria dove vive eternamente”

Questo sentì un'adunanza e disse:” È vero
Quanto dice cortesemente il signor soldato,
e chi dice il contrario mente».

E poi, finalmente sulla Terra,
alla zingara il cappello, richiese la spada,
Guardò di nascosto fuori e non c'era niente.

 

 

Poesia, storie e narrazioni con la voce di Tomás Galindo.

Miguel de CERVANTES Y SAAVEDRA nacque in Alcalá de Henares da Rodrigo Cervantes e da Leonor de Cortinas nel 1547, forse nel giorno dedicato al santo del suo nome (29 settembre), e vi fu battezzato, il 9 ottobre seguente, nella chiesa di Santa María la Mayor. Morì a Madrid il 23 aprile 1616.
Della sua vita si possono segnare soltanto i momenti salienti: vita di travaglio, consumata tra vicende avverse, nell'assillante lotta per l'esistenza e in vane aspirazioni verso miraggi ideali. Ne rimase temprata la segreta disciplina del suo animo e ne fu nobilmente foggiata la materia umana della sua arte. Dolorose esperienze lo provarono sin da fanciullo.
Suo padre, medico pratico senza diploma, lo trasse dietro di sé insieme con la numerosa famiglia nelle sue peregrinazioni da Alcalá de Henares a Valladolid (1554), da Madrid (1561) a Siviglia (1564-65) e quindi nuovamente a Madrid (1566-68). Giovinezza errante, che allargò gli orizzonti della sua fantasia e la liberò ai primi voli letterari quando, a Valladolid o a Madrid, poté ammirare "il grande Lope de Rueda", delle cui rappresentazioni teatrali parla con entusiasmo nel prologo alle sue Commedie.
Intorno agli studî giovanili si va per congetture. Pare abbia seguito i corsi pubblici che don Juan López de Hoyos aveva iniziato (29 gennaio 1568) nello Studio di Madrid. Nel volume che questi compilò a commemorare Isabella di Valois, terza moglie di Filippo II morta il 3 ottobre 1568, il C. vi porta il contributo di un sonetto di stampo petrarchesco, quattro lacrimose redondillas a "colores retóricos" e un'elegia.

Di questi primi esordî null'altro sappiamo. Ma la varia e larga cultura che il C. possiede, di poesia antica e moderna, di lettere spagnole e italiane, comunque si sia formata, o in patria o fuori, ha il carattere personale e il tono fondamentale della sua arte. Il naturalismo e lo stoicismo del secolo, insieme con le inquietudini psicologiche del Rinascimento, vi stanno alla base, individuati e realizzati in originali figurazioni fantastiche, che a volta a volta si colorano al riflesso della sua anima appassionata.
La dimora in Italia fu senza dubbio proficua al suo svolgimento spirituale, anche se nella fatica delle armi si dispersero i primi inquieti fantasmi letterarî. Nella dedica ad Ascanio Colonna, abate di Santa Sofia, che il C. premise alla Galatea, ricorda di aver servito a Roma, come "camarero", il cardinale Giulio Acquaviva. Forse le loro prime relazioni si strinsero a Madrid, dove questi (13 ottobre-2 dicembre 1568) era stato inviato da Pio V per presentare a Filippo II le condoglianze per la morte del principe Don Carlos: o forse il C. entrò al suo servizio a Roma, dopo la nomina a cardinale (17 maggio 1570), quando già si trovava in Italia attrattovi da speranze di fortuna. Comunque, il C. era a Roma sulla fine del 1569; e lo attesta un documento ufficiale (22 dicembre) che, a richiesta di suo padre, comprova la sua nascita legittima e la purezza di sangue cristiano negli ascendenti.

Negli ultimi mesi del 1570 entrò soldato nell'esercito che Marcantonio Colonna organizzava contro i Turchi. L'anno dopo era nella compagnia del capitano Diego de Urbina, appartenente al reggimento di Miguel de Moncada. A bordo de La Marquesa, sotto il comando del capitano Francisco de San Pedro (squadra Doria), il C. salpò da Messina (16 settembre) con la flotta di Giovanni d'Austria, e prese parte (squadra Barbarigo) alla battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571). Sebbene febbricitante volle combattere e, ai fianchi della sua galera, su un battello con dodici uomini ai suoi ordini, si lanciò nella mischia. S'ebbe due ferite d'archibugio al petto e un'altra alla mano sinistra, che gli rimase rovinata per sempre. Ricordo di sangue e di gloria, che lo esalterà sulle oscure e mediocri vicende della sua umile vita.
A Messina, dove la flotta fece ritorno (30 ottobre), trascorse la convalescenza. Non appena guarito entrò (29 aprile 1572) nel reggimento di Lope de Figueroa, nella compagnia di Manuel Ponce de León. Partecipò alla spedizione di Corfù, all'assedio di Navarino (luglio-agosto 1572), all'occupazione di Tunisi (10 ottobre 1573) e al tentativo di liberare la Goletta (1574). La ventura delle armi gli falliva a poco a poco correndo le guarnigioni d'Italia: a Napoli (1573-74), a Palermo (1574) e di nuovo a Napoli (1575).
Come qui giunse Giovanni d'Austria (20 giugno 1575), egli ottenne di passare in Spagna per conseguire miglioramenti di carriera. Da lui e da Don Carlos de Aragón, duca di Sessa, viceré di Sicilia, s'ebbe lettere di raccomandazione per il re. Ma la sorte contraria lo portò verso nuove amarezze. All'altezza de Les saintes Maries, presso Marsiglia, la galera Sol, dove egli si trovava col fratello Rodrigo, fu catturata da corsari barbareschi guidati dal rinnegato albanese Arnaute Mamí (26 settembre 1575). I due fratelli furono tratti in prigionia ad Algeri.

Schiavo di un altro rinnegato, il greco Alí Mamí, che lo credette personaggio d'importanza per le commendatizie trovategli indosso, il C., che già aveva tentato la fuga, fu posto sotto vigilanza speciale. Nella solitudine dell'esilio, nella continua esperienza del dolore, nel dramma della sua schiavitù, che più tardi rivivrà nelle sue opere come narrazione episodica o commedia o novella, egli tornò alla poesia. Scrisse due sonetti all'italiano Bartolomeo Ruffino (1577). La somma inviata dai suoi genitori, per mezzo di due religiosi dell'Ordine della Mercede (primavera del 1577), servì soltanto a riscattare suo fratello Rodrigo. A lui che tornava in patria egli affidò un'epistola in terzine per il segretario di Stato Mateo Vázquez: un appello in nome del suo passato di combattente, un'esortazione per una spedizione su Algeri, covo di pirati e barbara prigione di cristiani. Un secondo tentativo di fuga (settembre 1577) fallì.
Portato in giudizio e minacciato di morte, si conquistò col suo eroico contegno l'ammirazione del viceré d'Algeri Hassan Pascià, che lo comprò per cinquecento corone. Verso la fine del 1579 si preparò a evadere su una nave spagnola insieme con altri prigionieri. Il piano fu sventato dietro delazione. Tutto crollava intorno a lui. Frattanto in patria la sua famiglia si rivolgeva per soccorsi al re (marzo 1578); e raggranellava 280 scudi, che furono affidati per il riscatto a due Trinitari, Antón de la Bella e Juan Gil.
Ad Algeri (29 maggio 1580) essi trattarono con Hassan Pascià, che si tenne fermo sulla richiesta di 500 scudi. La somma si raggiunse con la sottoscrizione di alcuni commercianti cristiani, quando già il C. insieme col suo padrone s'era imbarcato su una galera alla volta di Costantinopoli (19 settembre). Il 24 ottobre egli veleggiava verso la Spagna.

Dal dicembre del 1580, per circa sette anni, il C. dimora a Madrid. Ritornando in patria, egli portava con sé la luce del suo sogno di gloria: il combattente contro i musulmani e lo schiavo dei musulmani riviveva la sua vita nell'arte, al di sopra delle stanchezze, delle mollezze e delle tristezze di una nazione che riposava sui disseccati allori della sua potenza imperiale.
Si dedicò al teatro; ma delle venti o trenta commedie recitate a Madrid dopo il 1583 non restano che la Numancia e El trato de Argel. L'una, classica nella sua stretta unità e vibrante di un esasperato amor patrio che piacque ai romantici: Numanzia contro Roma: la città ribelle, che la dominatrice sente di non poter vincere se non rifacendosi un'anima nuova; e il vano eroismo degli assediati e il cerchio fatale di un avverso destino che di giorno in giorno li stringe, finché la morte volontaria tra gl'incendî e la strage appare l'unica via dietro la libertà fuggente. L'altra commedia è tessuta di reminiscenze della schiavitù sofferta. Elementare ne è l'intreccio d'amore; ma il vero soggetto è l'antagonismo di due religioni e il conflitto morale di due razze: una trama d'idee, di passioni e di credenze, che s'allenta tragicamente nelle ultime scene di sangue. Ma le due commedie, che pur rivelano l'autore comico non ancora aduggiato dalla grande ombra di Lope de Vega, non sono che tentativi per fissare un sogno di poeta. Fuori della realtà, dopo averlo vagheggiato fors'anche nell'amara prigionia, quel sogno il C. lo ritrovò nel mondo fantastico, indeterminato e fluttuante del romanzo pastorale; e scrisse La Galatea.
Mentre coi tipi del libraio Blas de Robles, cui era stata ceduta la proprietà (14 giugno 1584), se ne curava la pubblicazione (Primera parte de la Galatea, dividida en seys libros, Alcalá de Henares, 1585), il C. sposava (12 dicembre 1584) Catalina de Salazar y Palacios di Esquivias (Toledo), molto più giovane di lui, perché non aveva ancora vent'anni (1565-1626). L'amore gli fioriva nella vita, dopo che egli lo aveva nutrito di sogno celebrando Galatea, la pastora nata sulle rive del Tago. Il romanzo riprende un genere che Jorge de Montemayor, ispirandosi all'Arcadia del Sannazaro, aveva reso di moda in Spagna con la sua Diana enamorada (1542), dove gl'incanti della vita pastorale si fondono con le fantasmagorie dei poemi cavallereschi. Nell'arte del C., che ritorna alle forme primitive del romanzo pastorale, la Galatea è l'oggettivazione di un mondo ideale, dove l'amore è scienza che si teorizza al lume della filosofia platonica attinta dagli Asolani del Bembo o dai Dialoghi di Leone Ebreo.

Nella sua vita nomade, dolorosa e tormentata, il C. andò incontro al suo eroe. Ricaduto su di lui, alla morte del padre (1586), il peso di due sorelle e della madre, la letteratura non gli bastò per il pane. Né dovette essergli di grande aiuto la dote della moglie: decorosa povertà, che traspare da un documento del 9 agosto 1586. Cercò allora ed ottenne la carica di incettatore di viveri per la "Invincibile Armata" e per le navi in rotta per le Indie, e si trasferì (1587) a Siviglia agli ordini di Diego de Valdivia e quindi di Antonio de Guevara. Vagabondaggio senza pace di villaggio in villaggio dell'Andalusia: lotta coi fornitori di grano ed olio e contese con gl'impresarî nel render ragione dei conti; funzioni contrastanti al suo spirito alieno da ogni forma di attività pratica e bisognoso di libertà.
A Écija (1588) incorse nella scomunica per l'eccessivo zelo nel trarre provvigioni dai beni del Capitolo sivigliano. Stanco di un impiego che lo stremava, sperò di passare alle Indie, "il rifugio dei disperati di Spagna"; ma invano si diresse al re (21 maggio 1590). Le condizioni finanziarie si fecero anche più penose quando (agosto 1592) fu tenuto responsabile di alcune irregolarità contabili compiute da un suo dipendente.

Per far denaro s'impegnò (5 settembre 1592) con un capocomico, Rodrigo Osorio, a scrivere sei commedie a cinquanta ducati ciascuna; ma il compenso gli sarebbe stato pagato solo che risultassero le meglio rappresentate in Spagna. Non ne scrisse nessuna. Per cause ignote fu di lì a poco (19 settembre) tratto in prigione a Castro del Rio. La libertà, conseguita con un pronto giudizio di appello, lo ricondusse alla sua vita errabonda finché gli venne soppresso l'impiego. A Madrid (1594) s'ebbe allora dal Ministero delle finanze l'incarico di riscuotere certe imposte arretrate nel regno di Granata; e diventò collettore fiscale in nome del re, col bastone della giustizia, tra gente che si piegava forzatamente ai diritti della corona. Il fallimento di un banchiere di Siviglia, Simón Freire de Lima, cui il C. aveva rimesso una somma per l'erario, lo travolse. Ritenuto responsabile della perdita, dové sopperirvi di suo (21 gennaio 1597). La fiducia gli venne a mancare dall'alto. L'equivoco coloriva sinistramente la sua incapacità di rendere in buon ordine i conti. Gli s'impose (6 settembre 1597) di recarsi alla capitale per presentare giustificazioni. Risultarono insufficienti. Fu imprigionato. Dietro cauzione ebbe la libertà provvisoria (10 dicembre).
Sospetto, perseguitato e condannato, perdette l'impiego; conobbe le amarezze di una povertà senza rifugi; visse anni oscuri in un silenzio famelico; e in quel silenzio, che sfugge ad ogni documentazione, scrisse le prime pagine del Don Quijote. I primi accenni sono nel Pastor de Iberia di Bernardo de la Vega; di lì si può arguire che il sesto capitolo era stato scritto innanzi il 1591.

A Valladolid ritroviamo il C. l'8 febbraio 1603. Dalla sua miseria vagabonda l'opera letteraria, dopo la Galatea, era affiorata sporadica e occasionale.
Del 1591 è un romance incluso nella Flor de varios nuevos romances di Andrés de Villalba; del 1595, le premiate quintillas in lode di S. Giacinto a chiosa di una redondilla proposta per il certame poetico di Saragozza (7 maggio); del 1596, due sonetti: l'uno satirico sull'entrata del duca di Medina Sidonia in Cadice (luglio), quando ormai s'erano ritirati gl'Inglesi; l'altro in lode del marchese di Santa Cruz apparso nel Comentario en breve compendio de disciplina militar di Cristóbal Mosquera de Figueroa.

Forse è suo il sonetto celebrativo a Hernando de Herrera (1597). In morte di Filippo II (1598) scrisse due sonetti e alcune quintillas; e per la seconda edizione della Dragontea (1602) di Lope de Vega un sonetto proemiale di lode. Tutta la sua attività era rivolta alla composizione del Don Quijote.

Lope de Vega, che già forse ne conosceva il capitolo dove s'accenna al suo teatro (XLVIII), scriveva (14 agosto 1604) a un amico: "Muchos poetas hay en cierne, pero ninguno tan malo como Cervantes, ni tan necio que alabe á Don Quijote"). Battesimo anticipato del romanzo che uscì, con licenza ufficiale (20 settembre 1604), cinque mesi dopo, presso Francisco Robles coi tipi di Juan de la Cuesta: La Primera parte del Ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha (Madrid 1605). Il successo si delineò rapido e grandioso.
Nello stesso anno si moltiplicarono le edizioni: una seconda a Madrid, col privilegio esteso anche al Portogallo, e altre due a Valenza. Seguirono le edizioni di Bruxelles (1607); e cominciarono le traduzioni: inglese (Londra 1612), francese (Parigi 1614), italiana di Lorenzo Franciosini (Venezia 1622).

Dalla sua casa di Valladolid insieme con la fìglia naturale Donna Isabella, vedova di Don Diego Sanz de Águila, con la sorella Donna Maria e la nipote Costanza, il C. seguiva la marcia trionfale del suo Don Quijote nel mondo. Ma pur lì volle colpirlo la sorte. Nella notte del 27 giugno 1605 un cavaliere navarrese, Don Gaspar de Ezpeleta, raggiunto forse dalla vendetta di un marito geloso, si trascinò mortalmente ferito presso la porta della sua abitazione. Lo soccorse la sorella del C.; ma il doveroso atto di pietà fu motivo di sospetto per la sbrigativa giustizia del tempo e portò all'arresto di tutta la famiglia. La loro innocenza fu presto riconosciuta, e il C. poté tornare al suo raccoglimento letterario. Le urgenze della sua povertà le dilazionava con anticipi (23 novembre 1607) sui proventi delle sue opere. Pura finzione legale deve essere quindi la firma che egli appose a malleveria della dote che Donna Isabella trasse con sé, andando sposa (8 settembre 1608) a Don Luís de Molina.

Seguendo la corte, il C. passò da Valladolid a Madrid, e lì s'iscrisse (17 aprile 1609) alla Confraternita del Santissimo Sacramento. Per un momento il ritorno in Italia, incontro ai suoi primi sogni, gli sorrise nella fantasia quando Don Pedro Fernández de Castro, conte di Lemos, fu nominato viceré di Napoli (17 maggio 1610). Di nuovo la speranza glì fallì.
Si raccolse a scrivere la seconda parte del Don Quijote, e pubblicò le Novelas Ejemplares (Madrid 1613; traduzione ital. di Guglielmo Alessandro de' Novilieri Clavelli, Venezia 1626, e di Donato Fontana, Milano 1627). Sono dodici novelle stranamente dissimili fra loro: alcune di costume, altre di intrigo e d'avventura, altre di carattere; tutte difficilmente giustificabili secondo l'aggettivo che le qualifica per educative. Ma quell'aggettivo è un puro omaggio al formalismo moralistico penetrato nella letteratura dopo il Concilio di Trento. Lo spirito del C. vi si rivela intero anche là dove lo si può cogliere (attraverso la duplice redazione di El celoso extremeño) in atto di smorzare miracolosamente gli estremi ardori della passione sensuale. La morale naturalistica di cui è imbevuta l'anima sua, traspare tra i veli dell'ortodossia assoluta. È la morale dell'istinto che batte con insistenza alla porta dei sensi (El celoso extremeño), impulso oscuro del sentimento che determina cieche elezioni (La Gitanilla, La ilustre fregona), o misteriose attrazioni (La fuerza de la sangre, La española inglesa).

Pubblicando le Novelas ejemplares, il C. preannunziava "dilatadas las hazañas de Don Quijote y donaires de Sancho Panza", e già ne stava scrivendo il quarantesimo nono capitolo quando apprese che, sotto il nome del Licenciado Alonso Fernández de Avellaneda natural de la Villa de Tordesillas, veniva stampato ìl Segundo tomo del Ingenioso hidalgo Don Quixote de la Mancha (Tarragona 1614). Chi sia l'autore che si celò sotto tale pseudonimo non sappiamo con certezza. Nulla ne sapeva lo stesso C.; il quale, vedendo profanata la costruzione ideale del suo romanzo s'affrettò a portarlo alla conclusione: Segunda parte del Ingenioso cavallero Don Quixote de la Mancha por M. de C. S. (Madrid 1615; traduzione francese, Parigi 1625; italiana di L. Franciosini, Venezia 1625).

"Ieri mi si dette l'estrema unzione... Il tempo passa, i dolori crescono, la speranza diminuisce", scriveva il 19 aprile 1616 al conte di Lemos, dedicandogli il Persiles y Sigismunda. Quattro giorni dopo a Madrid, si spense. Tratto di casa a faccia scoperta, come membro del Terzo Ordine cui s'era iscritto nel 1613, fu sepolto (24 aprile) nel convento delle Trinitarie di Calle de Cantarranas (oggi Lope de Vega). La sua tomba non fu più identificata.”

(Articolo completo di Mario Casella - Enciclopedia Italiana, 1931, in www.treccani.it)

 

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Un fatto al giorno

23 aprile 1915: Ha inizio nella notte il genocidio armeno in Turchia

“Nella notte l’esercito ottomano, in special modo dai “Giovani Turchi”, dà inizio ad una serie di perquisizioni ed arresti ai danni d’élite armena di Costantinopoli. Queste operazioni durano molti giorni e colpirono in un solo mese più di mille giornalisti, scrittori, poeti e delegati del parlamento di origine armena. Tutti furono deportati verso il cuore dell’Anatolia e giustiziati barbaramente lungo la strada. Ha inizio in questo modo il genocidio armeno. Iniziatore delle deportazioni fu il tedesco Friedrich Bronsart von Schellendorf, Maggiore Generale dell’Impero ottomano. Durante le marce della morte, che coinvolsero oltre un milione di armeni, i prigionieri morivano a centinai di migliaia per fame, malattia o sfinimento. Per molti studiosi la causa scatenate del genocidio fu la proclamazione del jihad da parte del sultano ottomano Maometto V nel 1914 per motivi religiosi. Infatti la maggior parte degli armeni sul territorio turco era di fede diversa da quella di stato ed in prevalenza cristiana.”

 
23 aprile 1915: Ha inizio nella notte il genocidio armeno in Turchia
 

“I massacri della popolazione cristiana (armeni, siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri, caldei e greci) avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia.

Lo sterminio e la deportazione di massa della popolazione cristiana dell’Armenia occidentale erano stati decisi dall’impero Ottomano a causa delle sconfitte subite all’inizio della prima guerra mondiale per opera dell’esercito russo, in cui militavano anche battaglioni di volontari armeni. Dall’inizio del 1915 gli armeni maschi in età da servizio militare erano stati concentrati in “battaglioni di lavoro” dell’esercito turco e poi uccisi, mentre il resto della popolazione era stato deportato verso la regione di Deir ez Zor in Siria con delle marce della morte, che coinvolsero più di un milione di persone: centinaia di migliaia morirono per fame, malattia, sfinimento o furono massacrati lungo la strada. Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin (che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere, e sottolineando che anche migliaia di turchi erano morti nel conflitto.

Il numero degli armeni morti in questo secondo massacro (altre stragi erano state commesse nel 1890) è controverso. Fonti turche fermano il numero dei morti a duecentomila, mentre quelle armene arrivano a 2,5 milioni. Gli storici stimano che la cifra vari tra i 500mila e due milioni di morti, ma il bilancio di 1,2 milioni è il più diffuso.

I paesi che riconoscono ufficialmente il genocidio armeno sono 22, tra cui l’Italia, mentre in altri è riconosciuto solo da singoli enti o amministrazioni. Molti altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, continuano a non usare il termine genocidio per timore di una crisi nei rapporti con la Turchia. Barack Obama si era espresso in favore del riconoscimento prima di diventare presidente degli Stati Uniti, ma da quando è stato eletto, pur promuovendo la pacificazione tra Turchia e Armenia, ha evitato di usare il termine.”

(In www.internazionale.it)

23 aprile 1915: Ha inizio nella notte il genocidio armeno in Turchia

“Il 24 aprile 1915 è la data convenzionale che segna l'inizio delle deportazioni degli armeni da parte dell'Impero Ottomano. Ancora oggi, ad oltre 100 anni da quei tristi fatti, il "grande crimine" è ancora poco conosciuto.

Il 24 aprile di ogni anno il popolo armeno si raccoglie per commemorare la tragedia del Medz yeghern, “il grande crimine”, ossia la deportazione sistematica avvenuta tra il 1915 e il 1916 per mano dell'Impero Ottomano e che condusse alla morte centinaia di migliaia di innocenti.

Secondo alcuni storici questo tragico episodio rappresenta il primo caso in assoluto di genocidio - un piano premeditato di sterminio nei confronti di una popolazione o di un gruppo etnico, come fu la Shoah - ma non tutti gli studiosi concordano sull'utilizzo di tale termine.

I FATTI

Quel che è certo però è che nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 i soldati dei "Giovani Turchi", il movimento nazionalista che aveva preso il potere nel decadente Impero Ottomano, effettuarono a Costantinopoli (odierna Istanbul) i primi arresti di massa tra intellettuali, giornalisti, politici e personaggi di spicco della comunità armena.

Nei mesi successivi, i rastrellamenti si allargarono al tutto l'Impero e i prigionieri vennero sospinti all'interno dell'Anatolia. In queste lunghissime "marce della morte", uomini, donne e bambini vennero costretti a camminare per giorni senza cibo o acqua sufficienti e in centinaia di migliaia perirono lungo il tragitto per sfinimento, malattie o fucilazioni sommarie.

PERCHE’ AVVENNE QUESTO MASSACRO?

Gli armeni sono un antico popolo euroasiatico originario del sud del Caucaso che all'inizio del XX secolo si trovava sotto il dominio ottomano.

Nel 1915 il governo turco era impegnato nella Prima Guerra Mondiale al fianco degli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) ma lo sforzo bellico stava fiaccando una nazione che già da tempo versava in grandi difficoltà. L'Impero Ottomano non era più la potenza splendente di un tempo e il nuovo corso nazionalista istituto dai Giovani Turchi aveva bisogno di un capro espiatorio per risollevare l'orgoglio nazionale.

Ai tempi gran parte della popolazione armena viveva al confine con i possedimenti dell'Impero russo, in guerra con gli ottomani, e alcuni gruppi di volontari armeni erano addirittura passati a combattere per lo Zar.

Tanto bastò alle autorità ottomane per ordinare l'arresto immediato di tutti i soldati armeni presenti nell'esercito e dell'élite intellettuale. In pochi giorni si passò poi ai civili con il pretesto di allontanare i potenziali traditori dai territori confinanti con il nemico.

23 aprile 1915: Ha inizio nella notte il genocidio armeno in Turchia

IL RICONOSCIMENTO DEL GENOCIDIO

Secondo gli armeni, circa 2,5 milioni di persone morirono in qui mesi, ma le autorità turche - che dopo la dissoluzione dell'Impero Ottomano hanno sempre trattato lo scomodo argomento in modo controverso - ferma il conteggio a circa 200.000 deceduti. Al momento la cifra più diffusa e accreditata si aggira intorno al 1,2 milioni di vittime.

La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, affermando che arresti e deportazioni furono compiuti nel corso di operazioni militari volte a proteggere la sicurezza nazionale. Ventinove nazioni - tra cui l'Italia - hanno invece riconosciuto "l'olocausto" del popolo armeno.

FONTI: Rai Storia; Elementi di Storia (Zanichelli)

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Una frase al giorno

“I'm quite optimistic. I'm also a realist. And I hope, you know, things work out. I don't think that the world will ever know peace. Complete peace in all countries. I think perhaps that's not in our makeup to do this although we can pray for it and work for it. But I think that the building blocks of peace are moving into shape, and I think that the world is going to be a better place.” (Da un’intervista del 1972)

(Shirley Temple, Santa Monica, 23 aprile 1928 - Woodside, 10 febbraio 2014. Fu attrice, cantante, ballerina e diplomatica statunitense)

(Sono abbastanza ottimista. Sono anche realista. E spero, sapete, che le cose funzionino. Non credo che il mondo conoscerà mai la pace. Completa pace in tutti i paesi. Penso che forse non è nel nostro essere per fare questo, anche se possiamo pregare per esso e lavorare per esso. Ma penso che gli elementi costitutivi della pace stiano prendendo forma e penso che il mondo sarà un posto migliore.)

Shirley Temple, Santa Monica, 23 aprile 1928 - Woodside, 10 febbraio 2014. Fu attrice, cantante, ballerina e diplomatica statunitense 

Shirley Temple o, da sposata, Shirley Jane Temple Black, famosa enfant prodige del cinema, soprannominata "riccioli d'oro", sullo schermo interpretava personaggi di bambine dolci e leziose, ma dotate nel contempo di un acume e di una saggezza impressionanti per la loro età. Da adulta si è dedicata alla carriera di ambasciatrice, usando il nome da sposata Shirley Temple Black.

...Temple divenne l'attrice più pagata della Fox. Il suo contratto fu rinnovato innumerevoli volte tra il 1933 ed il 1935, ed ella fu anche scritturata dalla Paramount per due suoi film di successo, nel 1934, Little Miss Marker e Rivelazione. Per ben quattro anni di seguito, fu al top delle star più pagate di Hollywood, e la Fox le corrispose 20.000 dollari alla settimana. Nella categoria femminile, la Temple era di gran lunga al di sopra di Greta Garbo, mentre solo Cary Grant la superava in termini assoluti.

(In Wikipedia)

Shirley Temple, Santa Monica, 23 aprile 1928 - Woodside, 10 febbraio 2014. Fu attrice, cantante, ballerina e diplomatica statunitense

 

Regia David Butler Soggetto David Butler, Edwin J. Burke (come Edwin Burke) Sceneggiatura: William M. Conselman, Henry Johnson (contributi, non accreditato). Fotografia: Arthur Miller. Musiche: David Buttolph, con Samuel Kaylin come direttore d'orchestra.

Shirley è una bimba dai riccioli biondi figlia della donna di servizio di una ricca famiglia. Suo padre è morto in un incidente aereo (era pilota di aeroplani) ed un amico e collega del padre la porta spesso con sé all'aeroporto, dove è diventata la mascotte dei piloti. L'amico è anche innamorato della madre, e si considera ormai come il padre putativo della piccola; ma i due non possono sposarsi a causa delle loro difficoltà economiche.

La donna e la bambina vivono presso la ricca famiglia di cui la madre è serva; una famiglia di snob autoritari che non fa mai mancare umiliazioni alle poverette. In particolare, la figlia dei padroni, una bambina brutta e cattiva, tormenta Shirley con ogni genere di scherzi, e quando quest'ultima recupera una bambola che lei ha gettato via, gliela strappa e la distrugge. I suoi genitori, invece, stanno aspettando la morte dello zio (paralizzato sulla sedia a rotelle) per intascarne l'eredità. Fra lo zio e Shirley si stabilisce un rapporto di tenerezza e simpatia.

I padroni vietano alla madre di Shirley di far venire a casa loro il suo fidanzato pilota; la madre è costretta ad andare all'aeroporto per vederlo. Il giorno di Natale, mentre organizzano una sorpresa per Shirley, che si trova all'aeroporto, la madre viene investita da un'automobile e muore. Il fidanzato è costretto a dare la tragica notizia alla bimba, che inizia a tenere con sé.

Il vecchio zio dei padroni, affezionato alla piccola, la vorrebbe adottare, ma il pilota si rifiuta e scappa con lei. Successivamente si svolge un processo, per cui la bambina viene affidata al vecchio, a causa delle scarse disponibilità economiche del pilota. Ma, alla fine del processo, il vecchio annuncia che andranno a vivere tutti e tre insieme in una casa, diseredando i suoi nipoti e lasciando tutti i suoi beni alla piccola Shirley.

 

Un cocktail: “Shirley Temple”

Un cocktail: “Shirley Temple”

Lo Shirley Temple è un cocktail analcolico inventato all'hotel Royal Hawaien di Waikiki (nelle Hawaii) in onore della giovane attrice Shirley Temple negli anni Trenta, e successivamente ripreso dai barman del mondo intero. Si ottiene miscelando due parti di ginger ale con una parte di sciroppo di granatina.

La ricetta originale prevede:

  • una parte di sciroppo di granatina
  • due parti di ginger ale
  • due parti di acqua aromatizzata gassata (limonata, soda)

Il cocktail va servito fresco, accuratamente mescolato in un bicchiere alto (come per esempio il "Collins") o un generico Tumbler, con del ghiaccio o liscio e guarnito con un disco di limone e/o una ciliegia candita.”

(In wikipedia.org)

 

Un brano musicale al giorno

Ruggero Leoncavallo, "Le Nuit De Mai” (1886). Salvatore Fisichella, tenore. Orchestra della Svizzera Italiana. Nello Santi, direttore. 19 ottobre 1990.

 

Ruggero Leoncavallo (Napoli, 23 aprile 1857 - Montecatini Terme, 9 agosto 1919) compositore italiano, autore di opere liriche e operette. Ruggero Giacomo Maria Giuseppe Emmanuele Raffaele Domenico Vincenzo Francesco Donato Federico Gesù Leoncavallo nasce il 23 aprile 1857 nel quartiere Chiaia di Napoli; durante l'infanzia si trasferisce con la famiglia in varie località del Sud Italia tra cui Sanza, Castellabate, Eboli, Cava de' Tirreni, Montalto Uffugo e Potenza. Trascorse a Castellabate, i primi anni della propria vita.

Ruggero Leoncavallo (Napoli, 23 aprile 1857 - Montecatini Terme, 9 agosto 1919) compositore italiano

Il padre Vincenzo, magistrato regio, allarmato dalle gravi condizioni fisiche della consorte, Virginia D'Auria, per giunta in stato di avanzata gravidanza, volle consultare il dottor Costabile Cilento, la cui fama gli era giunta fino a Sanza, sua residenza. Questi, prescrisse alla gestante, fra gli altri rimedi, il cambiamento di clima. Fu per questo motivo, oltre che per motivi lavorativi, che Vincenzo Leoncavallo chiese ed ottenne il trasferimento da Sanza a Castellabate, dove rimase fino al 29 novembre 1860 (trasferito poi ad Eboli). Nei registri della basilica pontificia di Castellabate risulta la nascita di Irene Leoncavallo, nata (e dipartita) a Castellabate alle ore 10 dell'8 luglio 1859 da Vincenzo Leoncavallo e Virginia D'Auria.
Anni dopo si trasferì con la famiglia in provincia di Cosenza, a Montalto Uffugo, dove il padre fu pretore. A Montalto Uffugo, Ruggero Leoncavallo, trascorse gli anni della sua spensierata fanciullezza, anni in cui iniziò ad avvicinarsi alla musica e agli studi, non trascurando i giochi e le esperienze che ne avrebbero caratterizzato il personaggio. Fu proprio qui, infatti, che il piccolo Ruggero conobbe e apprezzò le bellezze del territorio che lo circondavano, dalle splendide colline agli abitanti del posto e dei paesi vicini, come i sontuosi abiti della festa delle "Rosetane" e delle donne Arbëreshë di San Benedetto Ullano, peculiarità locali che Leoncavallo portò sempre nel suo cuore e nei suoi ricordi.
A Montalto Uffugo, restò legato per tutta la vita, ricco è l'elenco di eventi, richieste e iniziative che lo vedono protagonista nei confronti dei montaltesi e della città che nel 1903 gli conferì la cittadinanza onoraria.
Con il maestro Sebastiano Ricci ebbe inizio la vita musicale di Leoncavallo che, sui tasti della spinetta (attualmente conservata a Montalto), mosse i primi passi verso il meraviglioso mondo che di li a poco lo avrebbe avuto come protagonista. A Montalto Uffugo, insieme alle tante belle esperienze, il piccolo Ruggero ne visse anche una drammatica, allorquando, la sera del 4 marzo 1865, assistette all'omicidio del suo accompagnatore e domestico di casa Leoncavallo, il giovane Gaetano Scavello che, all'uscita del convento domenicano, dove si erano recati per assistere ad una rappresentazione teatrale, fu mortalmente ferito dai fratelli D'Alessandro. Questo episodio sconvolse la vita del paese e anche quella di Ruggero che 27 anni dopo (1892) riuscì a trasformarla in una delle opere liriche più belle e più rappresentate al mondo: “Pagliacci”.

Esattamente nel punto dove ebbe inizio la vicenda di Pagliacci, all'interno dell'ex convento domenicano (XV sec.), attuale sede del Municipio, è stato realizzato il Museo Ruggero Leoncavallo, unico in Italia, dedicato completamente alla vita e alle opere del Maestro, al cui interno sono conservate testimonianze importanti tra cui il suo pianoforte (donato dalla famiglia Ciseri), la sua bacchetta, numerosi spartiti, lettere autografe, dischi e cimeli di ogni genere. Tra le testimonianze più importanti, il museo conserva alcuni dipinti, detti bozzetti, dell'artista montaltese, il pittore Rocco Ferrari, opere che furono prodotte e inviate a Parigi, su richiesta del Maestro Leoncavallo, per la realizzazione delle scene, in occasione della prima rappresentazione parigina di Pagliacci (1902).

Nel 1873 il padre venne trasferito a Potenza subito dopo la morte della madre, Virginia. Ruggero rimase a studiare a Napoli, recandosi a Potenza nei periodi estivi insieme al fratello Leone. Nel 1876, come risulta da molti telegrammi inviati alla Ricordi, lavorò a Potenza dando lezioni di piano ai piccoli del posto. Studiò pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella di Napoli sotto la guida di Beniamino Cesi, e dopo il periodo potentino a Bologna, dove ebbe modo di conoscere Richard Wagner, che nel dicembre del 1876 era arrivato in città per la rappresentazione di Rienzi e del quale Leoncavallo era un ammiratore, e un giovane Pascoli. Cominciò a lavorare ad un progetto che chiamò Crepusculum (un richiamo al wagneriano Götterdämmerung), una trilogia ispirata al Rinascimento, ma presto l'abbandonò in favore del Chatterton, un'opera di soggetto romantico di cui scrisse musica e libretto in pochi mesi, ma che non fu rappresentata per parecchi anni poiché l'impresario che doveva metterla in scena non mantenne l'impegno.

Dopo gli studi bolognesi Leoncavallo rientrò per un paio di mesi a Potenza per il servizio di leva e subito dopo tornò a Bologna per cercare di vendere la sua prima opera. Rientrato a Potenza dopo la delusione patita a Bologna, iniziò a scrivere “Pagliacci”, come risulta da un documento del 1912, suonando un pianoforte a parete attualmente situato nel Teatro Stabile della città lucana. Rimase a Potenza oltre un anno per poi ripartire per l'Egitto.

A seguito di questa delusione, si spostò per breve tempo in Egitto, quindi a Parigi, dove soggiornò per 6 anni a partire dal 1882: qui lavorò come insegnante di canto e conobbe varie personalità dell'epoca, tra cui Sybil Sanderson, che studiò con lui, Alexandre Dumas e Victor Maurel. Conobbe inoltre Berthe Rambaud, un'allieva che in seguito sposò, e poté riprendere il progetto del Crepusculum, scrivendo il libretto della prima parte della trilogia, “I Medici”. Nel 1888 si spostò a Milano, dove l'editore Giulio Ricordi gli propose un contratto per la composizione di quest'opera: terminata in poco tempo, avrebbe dovuto essere rappresentata nel 1891, ma Ricordi cambiò idea e la rappresentazione fu rinviata.

Sulla scia del grande successo riportato nel 1890 dalla “Cavalleria rusticana” di Mascagni, Leoncavallo compose un'opera verista destinata a grande fortuna, “Pagliacci”. Ne scrisse parole e musica in cinque mesi e la presentò a Ricordi, che però non ne fu convinto; presentò allora il libretto a Edoardo Sonzogno, che acquistò la proprietà dell'opera. Fu rappresentata per la prima volta il 21 maggio 1892 al Teatro Dal Verme di Milano, sotto la direzione di Arturo Toscanini e riscosse un successo immediato ed è, forse, l'unica creazione di Leoncavallo che non sia mai uscita dal grande repertorio lirico. La sua aria più celebre, “Vesti la giubba”, registrata da Enrico Caruso, fu il primo disco al mondo a toccare il milione di copie di vendita.

Ruggero Leoncavallo (Napoli, 23 aprile 1857 - Montecatini Terme, 9 agosto 1919) compositore italiano

Sonzogno comprò da Ricordi i diritti de “I Medici” e l'opera fu rappresentata per la prima volta il 9 novembre 1893 sempre al Teatro Dal Verme, ma non ripeté il successo dei Pagliacci, poiché i critici ne rilevarono l'eccessiva dipendenza dai motivi wagneriani. Neanche la successiva opera, “Chatterton”, rappresentata a Roma nel 1896, ottenne il successo sperato.

Anche “La bohème”, rappresentata per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia nel 1897, dopo un buon avvio iniziale, fu messa in ombra dalla crescente notorietà dell'opera omonima di Puccini (1896), con cui condivide il titolo e il soggetto, basato sul romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger.

Dopo un periodo giovanile ricco di viaggi, verso la fine del XIX secolo Leoncavallo approdò a Brissago (Svizzera). Nel 1903 egli affidò all'architetto Bernasconi il compito di costruirgli una villa a Brissago, Villa Myriam. Lì il Maestro visse fino al 1916, anno in cui dovette venderla per far fronte alle ristrettezze finanziarie. Fino ad allora, la sua villa fu un punto di ritrovo per direttori di teatro, scrittori, cantanti, editori (Toscanini, Caruso, Sonzogno...). I brissaghesi, consapevoli del suo attaccamento al loro villaggio, gli concessero nel 1904 la cittadinanza onoraria.

Successivamente Leoncavallo compose “Zazà” (1900), ricordata solo per due arie rimaste in repertorio. Tra le molte romanze da lui composte, la più famosa è “Mattinata” scritta per la Gramophone Company e prevista per la voce di Caruso. Lo stesso Leoncavallo suonò il pianoforte durante la prima incisione della romanza avvenuta l'8 aprile del 1904 e interpretata da Caruso.

Al Teatro Reinach di Parma vanno in scena “La reginetta delle rose” il 30 dicembre 1914, “La candidata” il 10 gennaio 1916 e “Prestami tua moglie” il 18 aprile 1917.

Il compositore morì a Montecatini Terme nel 1919. Fu seppellito a Firenze nel cimitero delle Porte Sante. Le sue spoglie mortali, assieme a quelle di sua moglie Berthe, dando seguito al suo desiderio, verranno traslate a Brissago (Canton Ticino-Svizzera) sul Lago Maggiore nel 1989. La tomba è situata nel portico del XVII secolo, accanto alla chiesa rinascimentale della Madonna di Ponte.

Nel 1921 “Prestami tua moglie” ebbe la prima al Teatro La Fenice di Venezia.”

(In wikipedia.org)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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