L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
FARREBIQUE OU LES QUATRE SAISONS (Francia, 1946), regia di Georges Rouquier. Scene: Georges Rouquier. Direttore della fotografia: André Dantan, assistito da Marcel Fradetal e Jean-Jacques Rebuffat. Musiche: Henri Sauguet. Montaggio: Madeleine Gug. Grand Prix de la Critique internationale a Cannes (1946), Grand Prix du Cinéma français (1946), Medaglia d'oro a Venezia (1948), Premi BAFTA: nominato per il miglior documentario (1948), Grand Epi d'or a Roma (1953).
La storia di una famiglia di contadini durante un anno intero, seguendo il gioco circolare delle stagioni.
“Girato con attori non professionisti, contadini di Goutrens, villaggio dell'Aveyron. G. Rouquier ha trascorso un anno in una famiglia (da lui conosciuta fin da quando era bambino) di contadini della fattoria Farrebique a Goutrens, nel sud della Francia, ricostruendone le vicende quotidiane lungo il corso delle quattro stagioni. La sua è una descrizione semidocumentaria e un tantino arcadica, piuttosto astorica, di un lirismo che è stato avvicinato a quello di Flaherty. Rimane, comunque, una preziosa testimonianza sulla vita rurale di un'epoca. Premiato a Cannes 1946 e Gran Premio del Cinema Francese 1946. Nel 1983 il regista ne girò un seguito a colori - Biquefarre, nome della zona vicino a Farrebique - mostrandone quel che era e non era cambiato nell'agricoltura.”
(Il Morandini)
- Il film: Farrebique, di Georges Rouquier (1946)
Un regista: Georges Rouquier (Lunel-Viel, 23 giugno 1909 - Parigi, 19 dicembre 1989) regista, attore e sceneggiatore francese.
“Regista e attore cinematografico francese, nato a Lunel Vieil (Hérault) il 23 giugno 1909 e morto a Parigi il 19 dicembre 1989. Influenzato dall'avanguardia e dal cinema sovietici, R. si dedicò in modo particolare alla descrizione del mondo rurale, restituito in forme asciutte, grazie a un rigoroso uso del montaggio e alla ricostruzione della realtà come verità umana. Si aggiudicò numerosi riconoscimenti, tra cui il premio del Congrès du film documentaire del 1943 con Le tonnelier (1942), il Premio della critica internazionale al Festival di Cannes del 1946 con Farrebique e il Gran premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia del 1983 con Biquefarre.
Tipografo e frequentatore dei cineclub parigini, R. autofinanziò il progetto di Vendanges (1929), documentario ormai perduto, ambientato nelle campagne della Francia meridionale. Il vero esordio però avvenne molto più tardi, con Le tonnelier, che riuscì a completare a fatica, per il fatto di trovarsi a lavorare sulla linea di confine che separava gli occupanti tedeschi dalla zona sotto l'influenza del governo Vichy. Nel 1944 colse il suggerimento del suo produttore di girare un film sul tema delle quattro stagioni e realizzò Farrebique, lungometraggio ambientato in una fattoria presso la città di Goutrens, nell'Aveyron, in cui R., partendo dall'assunto che l'intera condizione umana può esser descritta attraverso i gesti, registra l'operato di una famiglia di contadini e artigiani durante i cicli stagionali di lavoro nei campi.
Spostandosi tra la Francia, il Canada e l'Africa, R. diresse molti cortometraggi documentari, spesso su commissione di istituzioni governative. Nel 1954 realizzò anche un film di finzione, Sang et lumière, noto anche come Sangre y luces (Sangue e luci), insieme al regista spagnolo Ricardo Muñoz Suay, da un romanzo di J. Peyré, cui seguirono altri due documentari: il lungometraggio Lourdes et ses miracles (1955), in cui R. offre un quadro oggettivo del fenomeno di culto, attraverso una serie di testimonianze ed episodi di pellegrinaggio, lasciando allo spettatore il giudizio sui fatti, e il mediometraggio Arthur Honegger (1955), ritratto del musicista scomparso, dove a interviste a Honegger già gravemente malato si alternano brani documentari relativi ad alcune storiche messe in scena delle opere dell'artista.
Nell'ultima parte della sua carriera, R. alternò all'attività di regista quella di attore, anche in televisione, quasi sempre in piccoli ruoli. Prestò la voce per il documentario di Chris Marker Lettre de Sibérie (1958) e per Le Bel indifférent (1957) di Jacques Demy, tratto da un testo di J. Cocteau.
Tornò quindi al suo interesse per la campagna, realizzando una serie per la televisione dal titolo Les saisons et les jours (1972-73) e, come a completare un dittico, ma a trentasette anni di distanza, concluse la sua carriera girando il seguito di Farrebique: Biquefarre, ritraendo lo stesso paesaggio, sconvolto da una guerra meccanica e chimica che l'uomo sembra aver combattuto contro di esso. Come nel precedente, elementi di finzione vengono inseriti nel documentario: i vecchi protagonisti sono però alle prese con la crisi fondiaria, la modernizzazione della vita domestica e del lavoro.”
(Andrea Di Mario - Enciclopedia del Cinema (2004) in www.treccani.it)
Una poesia al giorno
Песня последней встречи di Анна Ахматова
Так беспомощно грудь холодела,
Но шаги мои были легки.
Я на правую руку надела
Перчатку с левой руки.
Показалось, что много ступеней,
А я знала - их только три!
Между кленов шепот осенний
Попросил: "Со мною умри!
Я обманут моей унылой
Переменчивой, злой судьбой".
Я ответила: "Милый, милый -
И я тоже. Умру с тобой!"
Это песня последней встречи.
Я взглянула на темный дом.
Только в спальне горели свечи
Равнодушно-желтым огнем.
Poesia dell’ultimo incontro, di Anna Andreevna Achmatova (traduzione di Manuela Giabardo in lombradelleparole.wordpress.com)
Il petto senza forza raggelava,
eppure leggeri erano i passi.
Ho infilato il guanto di sinistra
nel posto della destra.
Sembrava che i gradini fossero tanti,
ma io sapevo che erano soltanto tre!
Nell’autunnale sussurro degli aceri
mi ha chiesto: “Muori con me!
Mi ha ingannato infatti il triste,
incostante, crudele mio destino”.
Gli ho risposto: “Caro, caro!
Anche me ha ingannato. E morirò con te…”
Questo è il canto del nostro ultimo incontro.
Ho guardato la casa buia all’ultimo istante.
Solo nella camera ardevano candele,
di una luce gialla, indifferente.
(1911)
“Anna Andreevna Gorenko nacque a Bol’šoj Fontan, il 23 giugno 1889, nei pressi di Odessa, terzogenita di cinque figli. Il padre Andrej Antonovich Gorenko era ingegnere navale. La madre, Inna Erazmovna Stogova, discendeva come il padre dalla nobiltà russa, era sensibile, dagli occhi chiari, dotata di “una bontà che, a quanto pare, / io ho ereditato da lei / vano dono alla mia vita crudele”.
Il suo primo verso riuscito fu lo pseudonimo. “Un verso memorabile nella sua acustica inevitabilità […] le cinque A di Anna Achmatova collocarono la titolare di questo nome in testa all’alfabeto della poesia russa” (Brodskij).
Sul vero cognome, il padre pose un veto: “quando venne a sapere delle mie poesie, mi disse: ‘non infangare il mio nome’. ‘Non so che farmene del tuo nome’ gli risposi”. Decise di chiamarsi con il cognome tataro di una principessa antenata che sposò Khan Akhmat, discendente di Gengis Khan.
La famiglia si trasferì a nord, a Carskoe Selo, Villaggio dello Zar, non lontano da San Pietroburgo, quando Anna Achmatova aveva undici mesi e lì restò a vivere fino ai suoi sedici anni. Carskoe Selo era un luogo speciale: per il palazzo reale azzurro, bianco e dorato costruito dal Rastrelli per Caterina II, con il parco disseminato di statue ispirate alla mitologia classica, e perché aleggiava ancora lo spirito di Puškin che lì aveva frequentato il liceo. Carskoe Selo in inverno, la Crimea in estate: “Una infanzia pagana. […] Ricevetti l’appellativo di ‘ragazzina selvaggia’ perché camminavo scalza, vagavo senza cappello e così via, mi tuffavo dalla barca in mare aperto…”.
Imparò a leggere sui libri di Tolstoj. A cinque anni parlava perfettamente il francese. A undici scrisse la sua prima poesia. I suoi genitori si separarono nel 1905. Lei seguì la madre e i fratelli a Evpatorija, sulle rive del Mar Nero, dove terminò il liceo. A Kiev s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Trascurava le materie giuridiche per scrivere poesie.
Aveva occhi chiari grigio-verdi, naso particolare, frangetta scura, portamento fiero, gambe lunghissime, un metro e ottanta di altezza. Era bella e ne era consapevole: “Io ho indossato la gonna stretta / per apparire ancora più snella”.
Nel Natale del 1903 conobbe il giovane poeta Nicolaj Gumilëv, che le fece una corte serrata e che tentò il suicidio dopo diverse proposte di matrimonio rifiutate. Per sfinimento Anna lo sposò nel 1910. Nessuno dei familiari presenziò alla cerimonia. Il viaggio di nozze fu a Parigi dove conobbe Amedeo Modigliani, ancora sconosciuto. Egli la ritrasse più volte a memoria, regalandole i disegni, la maggior parte dei quali andò dispersa.
Dopo averla sposata, Gumilëv perse la passione per lei e se ne andò in viaggio per sei mesi da solo in Africa. L’Achmatova si rifugiò a Parigi nell’amicizia con Modigliani. Una volta non lo trovò nel suo studio. Gli aveva portato un mazzo di rose in regalo. Allora lanciò le rose una a una attraverso una finestra aperta al primo piano. Modigliani pensò che fosse riuscita a entrare nella stanza tanto le rose erano disposte armoniosamente sul pavimento. Nel Giardino del Lussemburgo i due amici leggevano e recitavano a voci alterne le loro poesie preferite di Verlaine, Laforgue, Mallarmé, Baudelaire. All’artista italiano dispiaceva di non poter leggere in russo le poesie dell’amica.
A Pietroburgo, Anna Achmatova cominciò a frequentare i corsi di letteratura, fece parte della Corporazione dei poeti, il gruppo acmeista fondato e guidato dal marito. Fra loro trovò un amico in Osip Mandel’štam. Scrisse su «Apollon», la rivista letteraria del movimento. La novità dell’acmeismo stava nella rottura con il simbolismo imperante sia nei temi, sia nello stile e nella scelta di semplicità e concisione. Gli acmeisti si ritrovavano in un caffè cabaret chiamato Cane Randagio.
Compose la prima opera, La sera, nel 1912. L’edizione limitata a trecento copie fu subito esaurita ricevendo numerose recensioni positive. Seguì Rosario nel 1914. Fu popolarissima fin dal suo esordio, famosa anche per le letture pubbliche dei suoi versi dai quali traspariva una nuova educazione sentimentale, una nuova versione dei temi universali dell’amore e dell’eros. Erano brevi componimenti di metro classico, sobri, facilmente memorizzabili. Migliaia di donne iniziarono a comporre poesie imitando il suo stile, facendole scrivere divertita a posteriori: “Io ho insegnato alle donne a parlare / mio Dio, ma come obbligarle a tacere?”.
La prima produzione poetica descrive la relazione di un uomo e una donna, durante la passione iniziale ma soprattutto quando si spegne, “l’amata chiede molte cose / la disamata nulla chiede”, in una sequenza che evoca il diario, e una distillata ricerca di parole e frasi essenziali, in cui i sentimenti sono espressi attraverso gesti o oggetti quotidiani: “Solo in una stanza da letto le candele / ardevano di un lume indifferente e giallo”. L’amore sembra qui incrinarsi. Un amore sicuramente già consumato, non fermo all’innamoramento casto.
Un aneddoto apocrifo riporta che Vjačeslav Ivanov, esponente principale del simbolismo, dopo aver udito l’Achmatova leggere una poesia, quella dei versi più noti, Il canto dell’ultimo incontro, dove il turbamento del cuore si esprime attraverso un unico gesto: “Infilai nella mano destra / il guanto della sinistra”.
Un amore che sa ricordarsi felice: “Dalla felicità io non guarisco”. Con uno sguardo ironico sulle esperienze passate: “Hai tardato molti anni, / pure io ti accolgo felice. […] / Perdona, perdona quei troppi / scambiati per te”. E altrettanto sul presente: “Dimmi pure svergognata, / scagliami i tuoi sarcasmi, / sono stata la tua insonnia, / la tua angoscia sono stata”.
Una poesia terrena, terrestre. Victor Šklovskij la definì “un raggio di sole penetrato in una stanza buia”.
Nei libri Lo stormo bianco (1917), Piantaggine (1921), Anno Domini MCMXXI (1922) si approfondisce un tono di preghiera, già presente fin dagli inizi: “Ho appreso a vivere semplice e saggia / a guardare il cielo, a pregare Iddio”. La poesia si tende anche in verticale, non solo in orizzontale. Non poteva esserci completa consapevolezza dell’incupirsi della Storia: “Veramente nessuno sa in che epoca viva. Così anche noi, all’inizio degli anni Dieci, non sapevamo di vivere alla vigilia della prima guerra europea e della Rivoluzione di ottobre”.
Quando ebbe inizio la Grande Guerra, “invecchiammo di cent’anni, e accadde / nel corso di un’ora sola”. Poi arrivò la Rivoluzione, i tempi degli acmeisti erano finiti: “Sì, li ho amati quei raduni notturni: / i bicchieri ghiacciati sparsi sul tavolino, l’esile nube fragrante sul nero caffè, / l’invernale, greve vampa del caminetto infocato, / l’allegria velenosa dei frizzi letterari / e il primo sguardo di lui, inerme e angosciante”.
Nel 1912 nacque Lev, il suo unico figlio. Il matrimonio con Gumilëv finì nel 1918. Si risposò con l’assiriologo e poeta Šilejko, ma andò male anche questa unione. Si legherà successivamente al critico d’arte Nikolaj Punin, fino al 1938. Sia prima della rottura, sia dopo, vissero insieme all’ex moglie e figlia di lui nella casa della Fontanka, oggi Museo. Punin fu ripetutamente arrestato fino a morire in un gulag nel 1953. Molti artisti, fra cui Marina Cvetaeva, emigrarono, mentre l’Achmatova, come Pasternak, non lasciò mai il suo paese: “una voce mi giunse. Suadente / mi chiamava, diceva: / Vieni qua, / lascia il paese sordo e peccatore, / lascia la Russia per sempre. / […] / Io mi tappai le orecchie con le mani, / perché l’indegno discorso, / non profanasse l’anima dolente”.
Pur non condannando mai le scelte altrui, non poteva andarsene: non solo per l’affezione alla lingua russa, ma per evidenti motivi e legami familiari. Restò fedele al suo paese e ai suoi amici. Nel 1936 andò a trovare coraggiosamente Mandel’štam al confino a Voronež, “ma nella stanza del poeta in disgrazia / vegliano a turno la paura e la Musa. / Ed una notte avanza / che non conosce aurora”.
Non fu mai arrestata, forse perché era troppo famosa, forse perché considerata ancora utile politicamente. I suoi versi non erano mai stati dimenticati, anzi erano diffusissimi attraverso copie manoscritte. Fu chiamata a parlare dalla radio nazionale alle donne dell’assedio di Leningrado. Venne colpita negli affetti più cari: “Questa donna è malata, / questa donna è sola, / morto il marito, in carcere il figlio, / pregate per me”.
Fin dalla prima infanzia il figlio era stato affidato alla nonna paterna. Come madre l’Achmatova si rimproverò sempre questa scelta che le era stata fatta apparire come obbligata e che sarà la rovina dei rapporti con il figlio e della propria salute. Lev fu imprigionato diverse volte nel periodo delle grandi purghe staliniane, fino alla condanna nel 1949 a quindici anni di lavori forzati. Fu liberato nel 1956.
La colpa di Lev era di essere figlio di suo padre. Lev faceva sentire in colpa la madre con il continuo sospetto di non fare mai abbastanza per lui. Invece lei, per salvare la vita a suo figlio, arrivò a scrivere versi di ossequio al regime nel 1950, salvo poi non farli più inserire nelle riedizioni delle sue opere. Lev non immaginava il dolore di sua madre, rinchiuso in prigione come dentro la propria sofferenza. Achmatova faceva lunghe code per lasciare a Lev pacchi di viveri e vestiti, in fila con altre donne che aspettavano di poter fare lo stesso. Se il pacco era accettato, era segno che il prigioniero era vivo. In caso contrario era sicuramente deceduto:
Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado. Una volta qualcuno mi ‘riconobbe’. Allora una donna dalle labbra livide che stava dietro me e che, sicuramente non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di tutti noi e mi domandò in un orecchio (lì parlavano sussurrando):
‘Ma questo lei può descriverlo?’
E io dissi:
‘Posso’.
Allora una specie di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto.
Attraverso il ciclo Requiem la poesia di Achmatova assume consapevolmente il compito di essere testimone assieme a un intero popolo sofferente: “no, non sotto un cielo straniero, / non al riparo di ali straniere: / io ero allora col mio popolo, / là dove, per sventura, il mio popolo era”. Ancora di più rispetto al passato, sentiva di poter essere la voce di tutti: “Io sono la vostra voce, il calore del vostro fiato, / il riflesso del vostro volto, / i vani palpiti di vane ali… / fa lo stesso, sino alla fine io sto con voi”. […] “Io vi vedo, io vi ascolto, io vi sento”.
Nel 1941 a Mosca incontra Marina Cvetaeva, che la chiamava “Anna di tutte le Russie” e che la difese sempre da chi le voleva in competizione. Il loro incontro durò fino a notte fonda in casa di amici, che portavano loro cibo e vivande senza mai interrompere la conversazione. Nello stesso anno, per via dell’invasione tedesca, Achmatova assieme ad altri intellettuali fu trasferita in Uzbekistan, messa in salvo come i quadri dell’Ermitage. Ritornò a Leningrado nel 1944.
Nel 1945, ricevette una prima visita in casa di Isaiah Berlin, allora segretario dell’ambasciata britannica, conversando con lui tutta la notte. Nel 1946 ne ricevette una seconda. La conseguenza fu l’espulsione dall’Unione degli scrittori, poiché “residuato della vecchia cultura aristocratica… ora monaca, ora sgualdrina o, piuttosto, insieme monaca e sgualdrina in cui la dissolutezza si mescola alla preghiera”: così fu condannata dal potente “Ždanov” sulla «Pravda» nel 1946.
Privata della tessera alimentare viveva del cibo che gli amici le passavano; il figlio non potè laurearsi. Il regime comunista non le fece più pubblicare nulla di veramente suo dal 1922. Non smise mai di scrivere “uno stormo di versi bruciati”, ma fu una morte civile, una condanna all’isolamento e al silenzio. Solo nel 1940 furono stampate le raccolte Il Salice e I sei libri, una scelta delle sue poesie. L’ostracismo arrivò fino agli anni Sessanta. Le poesie di Requiem furono imparate a memoria dalle amiche Lidija Čukovskaja, Nadežda Mandel’štam, Emma Geršteijn.
Achmatova si mantenne traducendo moltissimo, fra gli altri Victor Hugo, Rabindranath Tagore, Giacomo Leopardi. Su Puskin scrisse dei saggi ancora oggi considerati rilevanti. Agli inizi degli anni Quaranta cominciò il Poema senza eroe. Vi lavorò per più di vent’anni e uscì parzialmente solo nel 1962. Gli ultimi lavori non furono mai pubblicati integralmente finché fu in vita, nonostante la riabilitazione ufficiale avvenuta nel 1955.
Ricordò gli amici scomparsi, per lo più tragicamente, non per mera commemorazione, nella raccolta Un serto ai morti. Anna Achmatova crea e appartiene a questa costellazione di poeti e ne scrive come se fossero vivi, ancora presenti: “c’è un ramo fresco e scuro di sambuco… / è una lettera di Marina”.
Nel 1956 le fu assegnata una dacia a Komarovo, una colonia per scrittori nella campagna vicino Leningrado. Là amava frequentare giovani poeti come Eugenio Rein e il futuro premio Nobel Iosif Brodskij.
Nel 1964, anche se malata, fu autorizzata a partire per l’estero per ricevere il premio poesia Etna-Taormina e nel 1965 la laurea honoris causa all’Università di Oxford, dove reincontrò Berlin.
Nel 1965 fu edito La corsa del tempo, il meglio della sua produzione poetica. Continuava a scrivere versi, “in essi il mio legame con il tempo, con la nuova vita del mio popolo”.
Nella primavera del 1966 ebbe un ennesimo attacco di cuore e fu ricoverata in ospedale. Morì a Domodedovo, un sobborgo di Mosca, il 5 marzo. Si tennero due affollati funerali, uno a Mosca, uno a Leningrado. Fu sepolta a Komarovo.”
(Rossana Kaminskij In www.enciclopediadelledonne.it)
Immagini:
- Anna AKHMATOVA - RARE DOCUMENTAIRE en français sur la poétesse (1990)
- Anna Akhmatova in the Fountain House
Un fatto al giorno
23 giugno 1858: Rapimento di Edgardo Mortara
“Il caso Edgardo Mortara fu una celebre vicenda storica che catturò l'attenzione internazionale in gran parte dell'Europa e del Nord America tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo. Concerne il sequestro avvenuto nell'allora Stato Pontificio, durante il Risorgimento italiano, da parte delle autorità clericali, di un bambino di 6 anni dalla propria famiglia ebraica, avvenuto il 23 giugno 1858, a cui fece seguito il suo trasferimento a Roma sotto la custodia del Papa Pio IX, per esser allevato come cattolico. Nonostante le disperate e reiterate richieste dei genitori di riavere il bambino, il Papa rifiutò sempre di riconsegnarlo. Ciò contribuì a creare nell'opinione pubblica sia in Italia sia all'estero l'immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani nell'età del liberalismo e del razionalismo, contro cui sarebbe stato opportuno che i Savoia intervenissero militarmente.
Il bambino, nato in una famiglia ebraica di Bologna il 27 agosto 1851, fu battezzato all'insaputa dei genitori, nel suo primo anno di vita, dalla domestica Anna Morisi che lo riteneva a rischio di morte imminente a causa di una malattia; quando alla fine del 1857 l'inquisitore di Bologna, padre Pier Feletti, udì la storia, la Santa Inquisizione decretò che questa azione aveva fatto di Edgardo irrevocabilmente un cattolico, e siccome la legge degli Stati Pontifici prevedeva il divieto a persone di altre fedi di crescere i cristiani, i genitori del bambino persero la patria potestà. La polizia entrò in casa della famiglia Mortara e portò via Edgardo, che venne cresciuto in un collegio cattolico al di fuori della famiglia d'origine, diventando poi sacerdote.
Quando il caso del bambino rapito trapelò, la notizia si diffuse ben presto anche all'estero, suscitando oltraggio per il senso di umanità e uno scandalo internazionale.
Il caso Mortara, per un periodo sottovalutato e dimenticato dalla storiografia italiana, ha ricevuto nuova eco dopo il libro Prigioniero del Papa Re, dello storico David Kertzer, ma soprattutto dopo la controversa decisione di Papa Giovanni Paolo II di beatificare Pio IX nel 2000, influenzando negativamente le relazioni con le organizzazioni ebraiche.
La sera del 23 giugno 1858 la polizia dello Stato Pontificio, che a quei tempi comprendeva ancora Bologna, si presentò alla porta della famiglia ebraica di Salomone Momolo Mortara e di sua moglie Marianna Padovani per prelevare il sesto dei loro otto figli, Edgardo (che all'epoca aveva sei anni) e trasportarlo a Roma dove sarebbe stato allevato dalla Chiesa.
La polizia agiva su ordine della Santa Inquisizione avallato da papa Pio IX. I rappresentanti della Chiesa riferirono che una cameriera cattolica della famiglia Mortara, la quattordicenne Anna Morisi, aveva battezzato il piccolo Edgardo durante una malattia ritenendo che se fosse morto sarebbe finito nel limbo. Il battesimo di Edgardo lo rendeva cristiano e secondo le leggi dello Stato pontificio una famiglia ebraica non poteva allevare un cristiano. Le leggi dello Stato Pontificio non permettevano ai cristiani di lavorare per gli ebrei né agli ebrei di lavorare in casa di cristiani anche se la legge peraltro restava largamente disattesa. La stessa Morisi, secondo quanto riferito da Mortara, avrebbe ricevuto indicazione, sei anni dopo il fatto, di battezzare segretamente il fratello più piccolo di Edgardo, Aristide, anch'egli gravemente malato; la Morisi si rifiutò tuttavia di farlo, adducendo come ragione il fatto che aveva fatto analoga cosa per Edgardo reputando che non sarebbe sopravvissuto, e non voleva ripetere l'errore. Questa sua indiretta confessione portò quindi, con circa sei anni di ritardo, le autorità ecclesiastiche a conoscenza del fatto che Edgardo Mortara era stato battezzato all'insaputa dei genitori.
Il bambino fu portato a Roma presso la Casa dei Catecumeni, istituzione nata a uso degli ebrei convertiti al cattolicesimo, e mantenuta con i proventi delle tasse imposte alle sinagoghe dello Stato Pontificio. Ai suoi genitori non fu permesso di vederlo per diverse settimane e, quando in ottobre fu loro concesso, non poterono farlo da soli, in quei pochi istanti concessi di visita il ragazzo riuscì a confidare alla madre «Sai, la sera recito ancora lo Shemà Israel» ('Ascolta Israele: il Signore è nostro Dio...' - Deut. 6,4), altre possibilità di visita non furono più concesse fino al 1870. Pio IX prese interesse personale alla storia e tutti gli appelli alla Chiesa, per il ritorno del piccolo presso i suoi genitori, vennero respinti.
Il caso giunse alla ribalta sia in Italia che all'estero. Nel Regno di Sardegna, che allora era Stato indipendente e fulcro dell'unificazione nazionale, sia il governo sia la stampa citarono l'accaduto per rafforzare le loro rivendicazioni alla liberazione delle terre italiane dall'influenza temporale dello Stato Pontificio.
Le proteste furono appoggiate da organizzazioni ebraiche e da figure politiche e intellettuali britanniche, statunitensi, tedesche e francesi; proprio a Parigi l'episodio, unito ad altri atti di antisemitismo messi in atto dalla Chiesa e da personaggi del mondo cattolico, fu lo spunto per la nascita dell'Alleanza Israelitica Universale. Ma le critiche non mancarono anche dai cattolici. L'abate francese Delacouture, docente di teologia, pubblicò sul quotidiano Journal des débats del 15 ottobre 1858 una sdegnata analisi del caso, ove lamentava che il rapimento del fanciullo Mortara era stato fatto "violando le leggi della religione, oltre quelle della natura".
Non passò molto tempo che i governi di tali Paesi si unirono al coro di chi chiedeva il ritorno di Edgardo dai suoi genitori. Venne pure ricordato il precedente caso Montel, avvenuto nel 1840 sotto papa Gregorio XVI, risoltosi diversamente poiché i genitori erano cittadini francesi. Protestò anche l'imperatore francese Napoleone III, nonostante le sue guarnigioni permettessero al Papa di mantenere lo status quo in Italia.
Il caso Mortara diffuse in Italia e all'estero l'immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani nell'età del liberalismo e del razionalismo, contribuendo a persuadere l'opinione pubblica in Francia e in Gran Bretagna sull'opportunità di permettere ai Savoia di muovere guerra contro lo Stato Pontificio. Quando Bologna, alla fine della seconda guerra d'indipendenza, fu annessa al Regno di Sardegna, i Mortara fecero un ulteriore tentativo di riavere il loro figlio, ma non ci riuscirono.
Nel 1867 Edgardo entrò nel noviziato dei Canonici Regolari Lateranensi. Dopo la presa di Roma del 20 settembre 1870, i coniugi Mortara tentarono nuovamente di riavere il figlio, ma Edgardo rifiutò di tornare. Alla presa di Porta Pia, meritando una medaglia al valore, aveva combattuto anche il tenente dei Bersaglieri Riccardo Mortara, fratello di Edgardo. Di fronte a questa posizione inaspettata, il nuovo questore della città si presentò nel convento di San Pietro in Vincoli, chiedendo al ragazzo di lasciare quella vita ed ottenendo un nuovo rifiuto. Per sottrarsi a ulteriori sollecitazioni, forse anche su suggerimento di Pio IX, Edgardo lasciò la città e si recò prima in Tirolo, poi in Francia.
L'anno seguente suo padre Momolo morì. In Francia Edgardo venne ordinato prete all'età di ventitré anni e adottò il nome di Pio. Venne inviato come missionario in città come Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia per convertire gli ebrei, peraltro con scarso successo. Imparò a parlare nove lingue, incluso il basco. Durante una serie di conferenze in Italia ristabilì i contatti con la madre ed i fratelli e tentò di convertirli. Nel 1895 partecipò al funerale della madre e due anni più tardi fu negli Stati Uniti, ma l'arcivescovo di New York fece sapere al Vaticano che si sarebbe opposto ai tentativi di Mortara di evangelizzare gli ebrei in terra americana e che il suo comportamento metteva in imbarazzo la Chiesa.
Nell’aprile 1898 lasciò l’America e fece ritorno in Europa, recandosi prima a Londra e poi in Polonia, in Cecoslovacchia e infine in Ungheria. Dopo decenni di predicazione e di attività missionaria, nel 1906 si ritirò nel monastero dei canonici regolari di Bouhay, vicino a Liegi, dove dedicò il resto della sua vita allo studio, alla preghiera e alla devozione per la Vergine Maria. Mortara morì l'11 marzo 1940 a Liegi.
Nella citata memoria in favore della beatificazione di Pio IX, menzionata in chiave apologetica anche da Vittorio Messori, Mortara scrive che, poche settimane dopo il suo sequestro da parte delle guardie pontificie e la sua traduzione a Roma, ricevette la visita dei suoi genitori, ma che non desiderava rientrare in famiglia, a suo dire per effetto di una «grazia soprannaturale» che lo tratteneva; inoltre, come ulteriore prova addotta da Mortara a tale «grazia», questi riferì di avere ricevuto la visita dei suoi genitori dopo avere servito una messa ad Alatri e di essersi spaventato, tanto da rifugiarsi sotto la tonaca di un sacerdote, sì da convincere il vescovo della città a tenerlo in custodia per «evitarne il rapimento» da parte dei genitori.
Tali dichiarazioni sono giudicate dalla pronipote di Edgardo, Elèna Mortara, in una sua intervista a Confronti, come caso esemplare di condizionamento subito nell'età evolutiva «da questo bambino di sei anni: violenza psicologica, esistenziale, religiosa», al quale fu detto che la sua famiglia, ebraica, era «indegna» di crescerlo in quanto cattolico (tanto da considerare un favore e non un diritto rivederlo: «Ora peraltro codesti genitori si presentano a Sua Santità non col solo sembiante di umili supplicanti, ma colla franchezza di chi credendosi oppresso da un atto arbitrario, chiede gli sia resa giustizia»), e al quale furono tolti tutti i riferimenti familiari, sociali e psicologici e che anche una volta cresciuto non si rese conto dell'abuso commesso nei confronti suoi e della sua famiglia a causa dell'«educazione cattolica ricevuta» che «lo aveva portato a vedere un disegno provvidenziale nella sua condizione di figlio "adottato da Pio IX". Più in generale, oltre a essere un argomento ricorrente della polemica antipapista, il caso Mortara fu una delle principali ragioni di opposizione (anche da parte cattolica) alla beatificazione di Pio IX, avvenuta nel 2000.
Basandosi sul libro inchiesta scritto da David Kertzer, Prigioniero del Papa Re, il regista Steven Spielberg avrebbe dovuto girare un film sul caso del rapimento di Edgardo Mortara, dal titolo The Kidnapping of Edgardo Mortara, con Mark Rylance come attore protagonista. Le riprese dovevano iniziare a Bologna, ma il 21 febbraio 2017 il regista ha cambiato idea. La ragione del posticipo pare che sia stato l'impegno che il regista aveva preso con Tom Hanks e Meryl Streep, attori che ha diretto in The Post, film incentrato sullo scandalo dei Pentagon Papers. Spielberg ha così messo in pausa il progetto su Edgardo Mortara.”
(In wikipedia.org)
Una frase al giorno
“There is an honesty in science which leads to a certain acceptance of reality. There are some who, finding the ocean an impediment to the pursuit of their designs, try to ignore its existence. If they are unable to ignore it because of its size, they try to legislate it out of existence, or try to dry it up with a sponge. They insist that the latter operation would be possible if enough sponges were available, and if enough persons would wield them. There is no ocean of greater magnitude than the sexual function, and there are those who believe that we would do better if we ignored its existence, that we should not try to understand its material origins, and that if we sufficiently ignore it and mop at the flood of sexual activity with new laws, heavier penalties, more pronouncements, and greater intolerances, we may ultimately eliminate the reality”.
(C’è un'onestà nella scienza che porta ad una certa accettazione della realtà. Ci sono alcuni che, trovando nell'oceano un ostacolo alla realizzazione dei loro progetti, cercano di ignorare la sua esistenza. Se non sono in grado di ignorarlo a causa delle sue dimensioni, cercano di legiferare fuori dalla sua esistenza, o cercano di asciugarlo con una spugna. Essi insistono sul fatto che quest'ultima operazione sarebbe possibile se fossero disponibili abbastanza spugne, e se un numero sufficiente di persone potesse usarle. Non c'è oceano di grandezza maggiore della funzione sessuale, e ci sono quelli che credono che faremmo meglio se ignorassimo la sua esistenza, che non dovremmo cercare di capire le sue origini materiali, e che se lo ignoriamo a sufficienza e ci lamentiamo dell'ondata di attività sessuale con nuove leggi, pene più pesanti, più dichiarazioni e maggiori intolleranze, alla fine potremmo eliminare la realtà.)
(Alfred Kinsey in “Sexual Behavior in the Human Female”, 1953, pag.10).
“Kinsey Alfred Charles, Biologo statunitense (Hoboken, N. J., 23 giugno 1894 - Bloomington, Indiana, 25 agosto 1956), professore (dal 1929) di zoologia all'università dell'Indiana, a Bloomington. Eseguì varie ricerche di zoologia e di genetica, specialmente sui Cinipidi; si dedicò poi allo studio del comportamento sessuale dell'uomo e della donna e pubblicò "rapporti", che sono stati tradotti in diverse lingue e hanno avuto larga notorietà.”
(Treccani)
“Per questo appuntamento della rubrica filososex vorrei ritornare sulla storia della sessualità analizzando la più grande indagine mai intrapresa sul comportamento sessuale, realizzata tra il 1938 e il 1956. L’autore di questa inchiesta è Alfred Kinsey (1894-1956), biologo e professore di entomologia e zoologia presso l’Indiana University. Il ramo in cui Alfred Kinsey si specializzò in quanto ricercatore fu la tassonomia, ovvero la classificazione delle specie e lo studio delle variazioni individuali degli organismi, diventando il massimo esperto internazionale nell’analisi delle vespe gialle.
Nel 1938, tuttavia, qualcosa cambiò negli interessi accademici di Kinsey, soprattutto quando fu nominato coordinatore di un corso di studio chiamato “Marriage and Family”.
Questo corso lo incuriosì a tal punto da iniziare a intraprendere una vera propria ricerca sui rapporti sessuali raccogliendo da principio storie, esperienze e dati dei suoi studenti, fino poi a estenderle a 18 mila intervistati, descrivendo una realtà sessuale ampiamente documentata.
Questa inchiesta rappresenta uno dei primi tentativi di dare al sapere scientifico una documentazione statistica circa l’attività sessuale umana, con l’obiettivo di esaminare il comportamento sessuale dell’uomo e della donna negli Stati Uniti, nelle sue variazioni, e in connessione con molteplici fattori (ambientali, ereditari, educativi) che potevano incidere nella vita dell’individuo. È necessario precisare che ad oggi il rapporto Kinsey sulla sessualità è superato a livello scientifico, soprattutto per quanto riguarda lo studio della sessualità femminile, descritta in esso come passiva e dipendente dal comportamento sessuale maschile.
L’autore sostenne che il comportamento sessuale umano fosse uno degli aspetti meno trattati e meno approfonditi sia dalle discipline scientifiche che da quelle umanistiche.
Kinsey ipotizzò che questo oscurantismo scientifico sulla sessualità fosse dovuto soprattutto all’influenza che il costume e la morale religiosa avrebbero avuto sugli intellettuali e sugli esperti, limitandone notevolmente la ricerca in questo ambito. La stretta associazione del sesso con i valori religiosi, con i riti e con le abitudini era probabilmente la causa principale del contenuto emotivo e fortemente privato del comportamento sessuale.
Kinsey riuscì ad assumere questa consapevolezza perché crebbe in una famiglia di stampo religioso, fortemente conservatrice; i suoi genitori, infatti, erano tra membri più devoti della chiesa Metodista locale e il sesso rappresentava, nelle conversazioni in famiglia, un tabù di cui era meglio non parlare.
I risultati delle 18 mila interviste effettuate da Kinsey e dai suoi collaboratori vennero pubblicati in due volumi: Il comportamento sessuale dell’uomo nel 1948 e Il comportamento sessuale della donna nel 1953.
Questa inchiesta è stata di fondamentale importanza poiché rivelò un’enorme discrepanza fra le aspettative pubbliche prevalenti in quell’epoca e il comportamento sessuale effettivo.
Kinsey scoprì che quasi il 70 per cento degli uomini aveva avuto rapporti con una prostituta. L’84 per cento degli intervistati aveva avuto esperienze sessuali pre-matrimoniali, di cui il 40 per cento riteneva che la propria moglie fosse vergine al momento del matrimonio. Oltre il 90 per cento dei maschi aveva praticato la masturbazione e quasi il 60 per cento una qualche forma di rapporto orale.
Tra le donne circa il 50 per cento aveva avuto esperienze sessuali pre-matrimoniali, sebbene prevalentemente con il futuro marito. Circa il 60 per cento aveva praticato la masturbazione e la stessa percentuale i rapporti orali. Ciò andava contro a uno dei valori cardine della morale conservatrice fondata sulla verginità della donna.
I risultati ottenuti dalle inchieste di Kinsey dimostravano quindi una contraddizione tra gli atteggiamenti pubblicamente accettati e il comportamento reale degli individui. Secondo l’autore questo poteva essere spiegato, perché da una parte si iniziò a sviluppare una fase di liberalizzazione sessuale, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, in cui molti giovani si svincolarono dai rigidi codici morali propri delle generazioni precedenti; dall’altra parte non se la sentivano di praticare determinati comportamenti a livello pubblico per una questione di pressione sociale.
Il comportamento sessuale subì profonde modificazioni, ma nonostante ciò i giovani non riuscivano a discuterne apertamente.
L’ambito sessuale rimaneva, per Kinsey, caratterizzato da una difficoltà di confronto, di dibattito e di presa di posizione. Coloro che partecipavano ad attività sessuali ancora fortemente disapprovate dalla morale lo facevano mantenendo il discorso privato, senza sapere in che misura venissero praticate anche dagli altri.
Nella sua inchiesta l’autore dimostrò che il numero di persone che avevano avuto esperienze omosessuali o che avevano provato inclinazioni nei confronti di individui del loro stesso sesso era molto più ampio di quello che conduceva uno stile di vita apertamente omosessuale. Il rapporto Kinsey rese pubblica per la prima volta questa verità empirica.
Riflessione molto importante che compie l’autore, sulla base di questi dati e che può essere valida ancora oggi, è che la sessualità umana non può essere considerata come qualcosa di statico e uniforme bensì fluida e non categorizzabile.
Il comportamento sessuale dell’individuo, secondo Alfred Kinsey, può cambiare nel corso della sua esistenza, è perciò mutevole e non definibile in termini rigidi di omosessualità e eterosessualità:
“Il mondo non è diviso in pecore e capre. Non tutte le cose sono bianche o nere. È fondamentale nella tassonomia che la natura raramente ha a che fare con categorie discrete. Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto. Prima apprenderemo questo a proposito del comportamento sessuale umano, prima arriveremo ad una profonda comprensione delle realtà del sesso.”
(Elena Magalotti in www.filosofemme.it)
- Immagini: The Kinsey Syndrome - Full Documentary
Il 23 giugno 1894 nasce Alfred Kinsey, entomologo e sessuologo americano (morto nel 1956)
Un brano musicale al giorno
Reinhold Glière, Sinfonia n. 3 in Si-minore, Op.42 "Ilya Muromets" (1911)
BBC Philharmonic, Sir Edward Downes, Direttore
“La sinfonia n. 3 in si minore "Ilya Muromets", op. 42, è una grande opera sinfonica del compositore russo Reinhold Glière. Sinfonia di programma, descrive la vita dell'eroe popolare Ilya Muromets di Kievan Rus. È stato scritto dal 1908 al 1911 e dedicato ad Alexander Glazunov. Il premier ebbe luogo a Mosca il 23 marzo 1912 sotto la guida di Emil Cooper e nel 1914 il pezzo gli valse il terzo premio Glinka (dopo averlo già ricevuto nel 1905 e nel 1912).
Reinhold Glière (Kiev, 11 gennaio 1875 - Moscow, 23 giugno 1956) fu un compositore russo e ucraino. Sua madre, Josephine Korczak (1852 - 1937), era polacca, e suo padre, Moritz Glier (1834 - 1896), era un costruttore di strumenti a fiato discendente da un'antica famiglia sassone. Moritz Glier fu un musicista di ottimo livello ed estremamente polivalente, dal momento che suonava - fra gli altri strumenti - il flauto, il clarinetto, il corno e la tromba. Egli trasmise i suoi doni artistici ai figli: il primogenito, Moritz, era un eccellente violoncellista, mentre la sorella Cesja suonava il piano.
Per quanto riguarda Reinhold, egli ebbe fin dalla più giovane età una predilezione per il violino. Alla fine degli studi secondari entrò alla Scuola di musica di Kiev, dove ebbe come professore il celebre violinista ceco Otakar Ševčík. Qui studiò violino e composizione per tre anni, prima di essere ammesso, nel 1894, al prestigioso Conservatorio di Mosca, dove studiò con Sergej Taneev (contrappunto), Michail Ippolitov-Ivanov (composizione), Jan Hřímalý (violino), Anton Arensky e Georgi Konjus (entrambi armonia).
Nel 1900 si diplomò al Conservatorio con un'opera-oratorio in un atto, Il Cielo e la Terra, ispirata a un testo di Lord Byron (Earth and Heaven), per la quale ricevette una medaglia d'oro in composizione. L'anno seguente accettò una cattedra presso la Scuola di Musica Gnessine di Mosca.Nel 1902 Taneev trovò per Glière due allievi privati: Nikolaj Mjaskovskij e l'undicenne Sergej Prokof'ev.
Ancora prima di terminare i suoi studi, Glière si era già cimentato con tutti i grandi generi musicali (con l'eccezione, forse, del balletto e del concerto), che lo affascineranno per tutto il corso della sua carriera. Egli compose così il suo Primo sestetto d'archi, op. 1 (1898), dedicato a Taneev, il Primo quartetto d'archi, op. 2 (1899), l'Ottetto d'archi, op. 5 (1900), dedicato a Hřímalý, e la Prima sinfonia, op. 8 (1899-1900).
Nel 1905 partì per un soggiorno di due anni a Berlino, dove studiò con il compositore e direttore d'orchestra Oskar Fried. Qui scrisse la sua Seconda sinfonia, op. 25 (1907), dedicandola a un altro rinomato direttore d'orchestra, Serge Koussevitzky, che la diresse con l'Orchestra filarmonica di Berlino l'anno successivo. Nel 1908, tornato a Mosca, Glière fece la sua prima apparizione pubblica come direttore d'orchestra in occasione dell'esecuzione del suo poema sinfonico Sirene, op. 33. Nel 1910 pubblicò la sua Terza sinfonia, op. 42, la monumentale Il'ja Muromec, dedicata a Aleksandr Glazunov.
Nel 1913 ritornò a Kiev per insegnarvi composizione nella locale Scuola di musica, che poco dopo venne elevata al rango di Conservatorio, come Conservatorio di Kiev. L'anno seguente Glière ne divenne direttore. Qui ebbe come allievi, fra gli altri, Levko Revutsky, Borys Lyatoshynsky e Vladimir Dukelsky (che diventerà ben noto in Occidente come Vernon Duke).
A partire dal 1920 insegnò composizione al Conservatorio di Mosca, dove rimarrà (in modo discontinuo) sino al 1941. Egli vi formò un gran numero di compositori, fra i quali Aram Chačaturjan, Lev Knipper, Boris Aleksandrov, Aleksandr Davidenko e Aleksandr Mosolov.
Nel 1923 fu invitato a Baku dal Commissariato per l'Educazione dell'Azerbaigian per comporre il prototipo di un'opera nazionale azera. Il risultato della sua ricerca etnografica fu l'opera Shakh-Senem, op. 69, in cui l'eredità musicale classica russa, da Glinka a Skrjabin, si combina con materiale folklorico e alcuni orientalismi sinfonici.
Reinhold Glière fu presidente del comitato organizzatore dell'Unione dei compositori sovietici dal 1938 al 1948. Prima della Rivoluzione aveva già ricevuto per tre volte il prestigioso Premio Glinka (per il Primo sestetto d'archi, per Sirene e per la Terza sinfonia), e anche negli ultimi 20 anni della sua vita ottenne numerosi importanti riconoscimenti, fra cui quello di "Artista del Popolo" dell'Azerbaigian (1934), della Russia (1936), dell'Uzbekistan (1937) e dell'URSS (1938) e 3 Premi Stalin: il primo nel 1946 per il suo Concerto per soprano di coloratura e orchestra, il secondo nel 1948 per il suo Quarto quartetto d'archi e l'ultimo nel 1950 per il balletto Il cavaliere di bronzo.
La composizione più celebre di Glière è un brano del balletto Il papavero rosso (1955) intitolato Danza di marinai russi: si tratta di una concitata serie di variazioni sul tema di un antico canto tradizionale russo, Jabločko (La piccola mela).
Reinhold Glière è sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca.”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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