L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
Il film di cui non si tiene conto, un film abbandonato anche dal suo autore, bello come un amore di gioventù, splendido film surrealista sulle dittature fasciste del tempo e la loro imbecillità
LES AFFAIRES PUBLIQUES (Francia, 1934), regia di Robert Bresson, scritto da Robert Bresson, Fotografia: Nicolas Toporkoff. Montaggio: Robert Bresson e Pierre Charbonnier. Musiche: Jean Wiéner, con la collaborazione tecnica di Roger Désormière. Cast: Béby, Cancelliere di Crogandie. Andrée Servilange, Principessa di Miremi. Marcel Dalio, l'oratore / lo scultore / il capitano dei vigili del fuoco / l'ammiraglio. Gilles Margaritis, l'autista. Simone Cressier, Christiane. Jeanne Pierson, il prossimo.
“È in assoluto il primo film di Bresson. Girato nel 1934, lo si è ritenuto perduto, poi la Cinémathèque Française lo ha ritrovato, decenni dopo, in una bobina con diverso titolo. È una farsa che ricorda vagamente Entr’acte di Clair, con alcune gag decisamente riuscite. Bresson comico è una vera sorpresa.”
“Questa volta ci concentreremo sull'intrigante primo film, un mediometraggio, del regista Robert Bresson: Affaires Publiques (o Affaire Publique o Les Affaires Publiques) uscito nel 1934. Questo film, infatti, è invisibile per volontà di Robert Bresson (che ne ha proibito la proiezione) anche se una copia è conservata alla Cinémathèque francese. Eppure Public Affairs andò bene nelle sale il 15 novembre 1934 a Parigi al cinema Raspail 216, nell'atto di apertura del film Girls of America (Finishing School) di George Nichols Jr. e Wanda Tuchock. Nel cast troviamo il clown Beby, l'attrice Andrée Servilanges (La Belle Équipe di Julien Duvivier), l'attore di Atalante di Jean Vigo: Gilles Margaritis, ma è anche una delle primissime apparizioni al Dalio cinema!
Dalio evoca nella sua autobiografia questa collaborazione unica con Bresson che ha conosciuto grazie al produttore Pierre Braunberger:
Ricorda questo "giovane affascinante dal viso triste, ma piuttosto bello, che sembrava venire da Oxford" che voleva "fare grandi commedie a Londra e sposare una donna inglese". Ma Bresson ha negato questo film e Dalio dice che ogni volta che lo ha incontrato, gli ha ricordato questa esperienza, con grande sgomento di colui che gli stava fuggendo. Dalio lo cita così nel suo libro: "Robert, sai che sei stato tu a portarmi la gioia più grande al cinema? Ti ricordi? Facevo il pompiere e l'ammiraglio, ci mandavamo a vicenda torte alla crema, eravamo tutti farinosi! E tu il primo, quando sei venuto a fare un lavoro extra con noi! ". Dalio chiude questo ricordo con queste parole: "Il Bresson che incontro oggi mi è sconosciuto. Quello che conoscevo morì nel 1934 nel piccolo cimitero di Billancourt (dove è stato girato il film. Ndr) dove riposa in pace tra le torte alla crema…”
Va detto che Public Affairs si distingue nella carriera di Robert Bresson. È una commedia burlesca, una specie di farsa francese, sotto l'influenza surrealista ma purtroppo prodotta con pochi mezzi. Il film è stato considerato perduto per molto tempo fino al 1987 quando ne è stata trovata una copia alla Cinémathèque francese con il titolo "Beby inaugurates", vedrete di seguito che questo è il secondo titolo considerato per una riedizione del film a autunno 1935.
(Leggi tutto l’articolo di Roger Leenhardt in: www.la-belle-equipe.fr)
Guarda il film:
- Affaires publiques (1934)
- Oppure in Les Affaires Publiques
- O ancora in Les Affaires Publiques
25 settembre 1901 nasce Robert Bresson, regista e sceneggiatore francese (morto nel 1999).
“Robert Bresson, nato a Bromont-Lamothe, in Alvernia, nel 1907 e morto a Parigi nel 1999, ha diretto tredici film in quarant’anni (più un giovanile mediometraggio comico del 1934, perduto e ritrovato a metà anni Ottanta). L’esordio vero è negli anni Quaranta, nella Francia in guerra; Bresson ha fatto studi di filosofia, è segnato dai mesi di prigionia in un campo tedesco e nutre molteplici passioni letterarie. Ha subito chiaro che il cinema è scrittura: “Scrittura con immagini in movimento e suoni”, come scolpisce a lettere maiuscole nelle Notes sur le cinématographe, un tesoro di aforismi, idee, allusioni che comincia a comporre nel 1950 (uscirà nel 1975 presso Gallimard). La conversa di Belfort (1943) è la storia dell’incontro e della sfida tra una suora e una peccatrice nel chiuso di un convento, con dialoghi di Jean Giraudoux; Perfidia (1944) è un geometrico intrigo di vendetta femminile destinato allo scacco, ispirato a Diderot. Pur nella forma depurata, nella concentrazione degli spazi, nel vuoto scavato attorno agli oggetti e al loro significato, questi film sono appunto storia e intrigo, sono narrazione coesa; sono ancora cinema, insomma, e a Bresson il cinema non interessa. Il cinema è quello che fanno gli altri, e “la vera originalità consiste nel cercare di fare come gli altri, senza riuscirci mai”. A Bresson non interessa l’innovazione, gli interessa la rifondazione; non lo stile, ma il linguaggio. Non vuole fare cinema ma cinematografo, ovvero cinématographe. Un’ombra di snobismo, un sospetto di sofisma? La parola in francese ha un’eco che rimanda inequivocabile alle origini e a Lumière. “Il cinema attinge a un fondo comune. Il cinematografo è un viaggio d’esplorazione su un pianeta sconosciuto”.
Bresson si dispone all’esplorazione, con inesauribile energia intellettuale e la lucida percezione delle difficoltà pratiche da affrontare: finanziamenti scarsi, produttori diffidenti, affezione/disaffezione del pubblico. (“Il cinematografo, arte militare. Si prepara un film come una battaglia”). Per cominciare gli è compagno di strada un controverso e molto amato scrittore cattolico, Georges Bernanos, dal cui Diario di un curato di campagna Bresson trae nel 1950 il suo primo capolavoro, tutto sottrazione e passione (più ‘passione’ di quanta ce ne sarà nel successivo Processo a Giovanna d’Arco), una giovane tonaca nera nella Francia profonda, solitudine e dubbio, mani che scrivono esitanti o febbrili, anima e malattia e sangue e, da qualche parte, un anelito di trascendenza che il dolore tormenta ma non spegne. È un anelito, una possibilità, una scommessa, un “vento che soffia dove vuole” che Bresson ancora esplora, con il cinematografo, in Un condannato a morte è fuggito, 1956, il suo film resistenziale; e in Pickpocket, 1959, frammenti di vita di uno dei suoi balordi senza causa, frammenti che trascendono il caso e si compongono in destino (“Oh Jeanne, quale strano cammino ho dovuto percorrere per giungere fino a te”: interpellazione/snodo di tutto il cinema di Bresson, e anche la sua più audace concessione al lirismo, contratta però in qualcosa che sembra nera ironia: sono parole pronunciate dal parlatorio di un carcere da cui non si uscirà più).
Il destino, d’ora in poi, si chiuderà in modo sempre più inappellabile intorno ai personaggi di Bresson. Dopo il suicidio che conclude Mouchette, si apriranno con un suicidio Così bella così dolce (1969, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione coniugale) e Il diavolo, probabilmente (1977, esplorazione retrospettiva d’una dissoluzione di famiglia, società e politica); L’argent, 1983, è come si fermasse immobile su una soglia, a contemplare il mondo completamente corroso dal male che ora prende la forma d’una banconota falsa e della sua distruttiva circolazione. Sembra l’immagine al nero delle tante peripezie morali, ilari o ciniche, con cui il cinema ha inseguito biglietti di banca o di lotterie vincenti (Clair, Sturges, Scorsese…). Il cinema, appunto. Il cinématographe, giunto al suo esito più radicale, si limita a “mettere in ordine” immagini dove la natura maligna del denaro incrocia la natura maligna del caso. Fine di ogni storia. Fine della Storia.
Banconote. Mani che scivolano abili nelle tasche dei borseggiati (Pickpocket). Mani sempre più deboli che reggono una penna (il Diario). Un cucchiaio, una molla (Un condannato). Rumori, echi, silenzio (“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio”). Nessun realismo, naturalismo, scansione narrativa, nessuna rappresentazione. Il cinema/cinematografo persegue un’altra possibilità. Gli oggetti e il dettaglio sono i suoi strumenti (“un film di oggetti e un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”; e con un tocco di leggerezza, se così si può dire: “è attraverso gli oggetti, più che attraverso la recitazione degli attori, che un mondo è portato a esistere. Bisognerebbe citarli nei titoli di testa”).
Il cinema di Bresson è in sé un oggetto enigmatico. È dominato fin dall’inizio da un’urgenza teorica che non deflette mai, che negli anni si affina, si ostina, si fa blocco. Richiede una disposizione intellettuale e antisentimentale (cioè, al cinema: innaturale). Non permette di accomodarsi nella dolcezza di un’immagine, mai. Ma allo stesso tempo, in mille nervature segrete, è anche capace di produrre una risonanza emotiva che non avevamo previsto, che ci coglie impreparati, e perciò tanto più profondamente scava. Concretezza, trascendenza, crudeltà, condizione umana? “Se solo mia madre mi vedesse”, chiude Un condannato a morte è fuggito. Una Note: “Non correre dietro alla poesia. S’infila da sola nelle giunture”. Le mystère Bresson.”
(Paola Cristalli in distribuzione.ilcinemaritrovato.it)
Una poesia al giorno
December: To Elise, di William Faulkner
Where has flown the spring we knew together?
Barren are the boughs of yesteryear;
But I have seen your hands take wintry weather
And smoothe the rain from it, and leave it fair.
If from sleep’s tree these brown and sorry leaves,
If but regret could drown when springs depart,
No more would be each day that drips and grieves
A bare and bitter year within my heart.
In my heart’s winter you were budding tree,
And spring seemed all the sweeter, being late;
You the wind that brought the spring to be
Within a garden that was desolate.
You were all the spring, and May and June
Greened brighter in your flesh, but now is dull
The year with rain, and dead the sun and moon,
And all the world is dark, O beautiful.
Dicembre: A Elise (da Poesie del Mississippi, Transeuropa, 2012, trad. it. V. Bianconi in internopoesia.com)
Dove si è involata la primavera che insieme conoscemmo?
Spogli sono i rami dello scorso anno; ma uno dei tuoi diti
io l’ho visto posarsi sui rigori dell’inverno
e mondarli della pioggia, e farli miti.
Se solo dall’albero del sonno le brune foglie dolenti,
se il rimpianto andasse a fondo con la primavera che muore
ogni giorno che goccia e duole non sarebbe più
un intero anno amaro e spoglio nel mio cuore.
Nell’inverno del mio cuore sei stata l’albero fiorito,
assai più dolce parve la primavera perché tardiva;
sei il vento che soffiò la primavera
in un giardino in rovina.
Sei stata la primavera intera, e maggio e giugno
nella tua carne germogliavano più splendidi, ma oppresso
è l’anno della pioggia ora e morti sole e luna,
e l’intero mondo è buio, O bellissima.
“William Cuthbert Faulkner, nato Falkner (New Albany, 25 settembre 1897 - Byhalia, 6 luglio 1962), scrittore, sceneggiatore, poeta e drammaturgo statunitense, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1949 e considerato uno dei più importanti romanzieri statunitensi, autore di opere spesso provocatorie e complesse.
Le opere di William Faulkner sono caratterizzate da una scrittura densa di pathos e di grande spessore psicologico, da periodi lunghi e sinuosi e da una cura meticolosa nella scelta dello stile e del linguaggio. Nella pratica stilistica, fu considerato il rivale di Ernest Hemingway, che gli si oppone con il suo stile conciso e minimalista. È stato ritenuto forse l'unico vero scrittore modernista statunitense degli anni trenta: Faulkner si allaccia alla tradizione sperimentale di scrittori europei quali James Joyce, Virginia Woolf, e Marcel Proust, ed è noto per l'uso di strumenti espressivi innovativi: il flusso di coscienza, narrazioni elaborate da punti di vista multipli e salti temporali nella cronologia del racconto.”
(In wikipedia.org)
“Faulkner (o Falkner), William, romanziere statunitense (New Albany, Mississippi, 1897 - Oxford, Mississippi, 1962). Nelle sue opere, molte delle quali ambientate nella simbolica provincia di Yoknapatawpha, F. ha analizzato, privilegiando la forma del monologo interiore, alcuni aspetti tragici della realtà quotidiana, come lo spietato incalzare della civiltà meccanica. Sue opere maggiori sono The sound and the fury (1929), Light in August (1932), A fable (1954). Premio Nobel per la letteratura nel 1949. Debuttò con Soldier's pay (1926) e Mosquitoes (1927), due opere che risentono di un clima estetizzante d'importazione europea, di moda in quegli anni tra i letterati americani. Con Sartoris (1929) comincia a delinearsi l'autentica poesia faulkneriana che trova le proprie sorgenti nel "profondo sud" del quale F. è stato il migliore storico e poeta. Adombrati da uno sperimentalismo formale che risente della cultura aristocratica cui lo stesso F. apparteneva, ma ricchi di brani di autentica poesia, dove è colta e messa a fuoco, in tutta la sua drammaticità, la realtà del sud dopo la guerra di secessione, sono: The sound and the fury (1929) e As I lay dying (1930) cui seguirono, tra i libri del più felice periodo creativo, Sanctuary (1931), Light in August (1932), Doctor Martino and other stories (1934) e Absalom, Absalom! (1936), una delle sue opere più discusse dove comincia a sovrapporsi, a una precisa e drammatica intuizione della realtà, una confusa esigenza di interpretazione metafisica. Dopo The Hamlet (1940) e Go down Moses (1942) vennero alcuni romanzi più deboli: Intruder in the dust (1948), Requiem for a nun (1951), A fable (1954), quest'ultimo ambientato in Francia, in cui tuttavia non mancano note della più autentica poesia corale faulkneriana, orchestrata sui temi della dignità umana e della natura condannata e spietatamente incalzata dalla civiltà meccanica (due elementi fondamentali nell'opera di F.). Ultime opere sono: Big woods (1955), The town (1957), The reivers (1962). F. si avvale spesso di una tecnica composita che sovverte l'ordine cronologico del racconto. Nei laceranti e profondi contrasti della sua simbolica provincia di Yoknapatawpha egli ha descritto alcuni degli aspetti più drammatici del mondo moderno. La realtà della vita nelle regioni meridionali degli USA vi è colorata e deformata da un temperamento di moralista, in cui la stessa insistenza su toni crudeli e macabri è quasi il puritanesimo alla rovescia d'una coscienza profondamente turbata. Tra le sue opere vanno ricordate anche due raccolte di versi: The marble faun (1924) e Green bough (1933). Né va dimenticata la sua attività di sceneggiatore cinematografico, soprattutto con H. Hawks (The road to glory, The big sleep, ecc). Nel 1949 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Postumi sono apparsi, tra l'altro, Flags in the dust (1973), versione originale di Sartoris, e l'incompiuto Father Abraham (1984), scritti rispettivamente nel 1927 e nel 1926.”
(In www.treccani.it)
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Un fatto al giorno
25 settembre 1964: Inizia la guerra d'indipendenza del Mozambico contro il Portogallo.
“In questo saggio andremo ad analizzare il processo storico dell’indipendenza del Mozambico, tenendo in particolare considerazione il comportamento politico della popolazione bianca durante la fase della decolonizzazione (1974/1975). Innanzitutto, però, è necessario delineare il contesto storico mozambicano nel periodo coloniale.
Posto sul confine tra l’Africa Orientale e l’Africa Australe, bagnato dalle acque dell’Oceano Indiano, il Mozambico consta di una superficie di 799.380 chilometri quadrati. Le sue frontiere furono stabilite in base ad accordi internazionali stipulati durante il periodo coloniale tra portoghesi, inglesi, tedeschi e boeri, il che portò alla formazione di un territorio con una lunga linea di costa, ma con un ridotto entroterra, specialmente al sud. Vari popoli africani, neri, con pochi o nessun legame tra loro, furono aggregati all’interno delle frontiere coloniali. Sono cinque i principali gruppi etno-linguistici mozambicani: Macua-Lomwe, Maconde e Yao, a nord del fiume Zambesi, e gli Shona e i Thonga a sud [Dias 1964]. Sulla costa c’è anche da rilevare una significativa influenza islamica e, in alcuni casi, indiana.
D’altro canto, i portoghesi si erano stabiliti in modo permanente in alcune città e in punti della costa e della valle del fiume Zambesi fin dal XVI secolo, specificatamente nell’Ilha de Moçambique, a Quelimane e a Tete. Tuttavia, la maggior parte del territorio fu occupato militarmente dalle forze portoghesi solo alla fine del XIX secolo, se non addirittura nei primi due decenni del XX secolo. Risale a quest’epoca lo sviluppo delle due città principali: Lourenço Marques (la capitale, l’attuale Maputo) e Beira, due città portuali e sedi di due importanti linee ferroviarie fondamentali per le comunicazioni con i territori vicini, in particolare con il Transvaal, nell’Africa del Sud, e con la Rhodesia del Sud (Zimbabwe) [Newitt 1995].
A parte queste città, il popolamento bianco fu abbastanza rilevante in alcune zone della valle del fiume Limpopo (nel sud) e nell’altipiano di Chimoio (Vila Pery, nel centro). Negli Anni ‘60, furono creati alcuni insediamenti bianchi nelle fertili zone dei distretti di Niassa e di Cabo Delgado (nel nord), mentre avanzava celere lo sviluppo della città di Nampula. Così, i coloni bianchi erano passati da 17.842 nel 1928, a 27.438 nel 1940, 48.213 nel 1950, 97.245 nel 1960 e 162.967 nel 1970. All’epoca costituivano circa il 2% del totale della popolazione mozambicana, che si aggirava sugli 8.168.933 abitanti Da notare anche che nelle località di più antica colonizzazione c’era una significativa popolazione meticcia, che in larga misura si identificava con il Portogallo.
In termini politici, il Mozambico faceva parte di un Impero coloniale estremamente centralizzato. In ultima analisi, il potere risiedeva nel governo di Lisbona, che nominava e dimetteva a suo piacimento il Governatore Generale, figura massima della gerarchia dello Stato coloniale. L’intervento dei coloni e della restante popolazione nel governo era molto ridotto. Il Consiglio Legislativo, creato nel 1955, aveva una funzione poco più che consultiva e, ancorché le sue funzioni fossero state ampliate alla fine del governo di Marcelo Caetano, non ebbe mai un vero potere, né una vera autonomia rispetto al potere esecutivo. D’altra parte, lo Stato Portoghese impediva la formazione e lo sviluppo di partiti politici sia tra i coloni che tra la popolazione africana. I sindacati e la stampa erano strettamente controllati dal regime di António Oliveira Salazar, il cosiddetto Estado Novo, specificatamente dalla censura e dalla polizia politica portoghese, la famigerata Polizia Internazionale di Difesa dello Stato (Polícia Internacional de Defesa do Estado, PIDE) [Hedges 1993; Isaacman 1983]”.
(Leggi l’articolo completo in: storicamente.org)
“Il giorno 11 ottobre 1962, apertura del Concilio, la radio coloniale inizia le sue trasmissioni con le medesime parole di ogni giorno: “Aqui Portugal, Moçambique (Qui Portogallo, Mozambico)”. Il Mozambico era, infatti, Provincia d’Oltremare del Portogallo e parte del territorio nazionale portoghese. In giugno dello stesso anno nasce il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo). Il 25 settembre 1964, pochi giorni prima dell’inizio della penultima sessione del Concilio, in Mozambico comincia la lotta armata di liberazione contro uno degli ultimi regimi coloniali del continente africano. L’indipendenza arriverà nel 1975, dopo undici anni di guerra.
Sicché la storia della recezione del Concilio in Mozambico si intreccia con la storia insanguinata di un popolo in cerca della sua indipendenza.
O meglio è la stessa storia fatta “di tristezze e di sofferenze, di allegrie e di speranze”, come recita Gaudium et spes. Abbiamo individuato tre fasi in questa storia.
UNA CHIESA COMPROMESSA
Nel 1940 la Santa Sede firma con il regime fascista di Salazar il Concordato e l’Accordo missionario. Viene così abolita la Prelatura e vengono create le prime tre diocesi, su un territorio pari a quasi tre volte l’Italia. Come recita l’articolo 80 dell’Accordo, l’attività missionaria risponde ad “un servizio speciale di utilità nazionale e civilizzatrice”.
Qualche anno più tardi, scrive mons. Manuel Vieira Pinto, profetico arcivescovo di Nampula dal 1967 al 2000: “La Chiesa ha collaborato attivamente, soprattutto accettando di diffondere la cultura nazionale portoghese. Ha collaborato passivamente quando si è lasciata strumentalizzare dal regime coloniale, accentando l’oppressione del regime e tacendo, per timore e prudenza, sui crimini e sulle violenze coloniali [...]. La Chiesa ha goduto di privilegi. Ma una Chiesa di privilegi è una Chiesa in pericolo. In pericolo di tradimento della purezza del Vangelo” (1975).
La Chiesa dell’Oltremare portoghese in Mozambico conosce in quegli anni una lacerazione profonda tra una ampia maggioranza filogovernativa e una minoranza fortemente critica verso il regime coloniale che incontra la sua figura di riferimento in mons. Sebastião Soares de Resende, arcivescovo di Beira dal 1943 al 1967, strenuo assertore dell’autodeterminazione e dell’indipendenza del popolo mozambicano. Mons. Sebastião non ha paura di denunciare la “schiavitù ancora imperante” nella sua vasta diocesi, alludendo in particolare allo sfruttamento nelle piantagioni di zucchero e di cotone.
DUE PASTORI IMPEGNATI NEL CAMBIAMENTO
Mons. Sebastião è uno degli otto vescovi portoghesi in Mozambico a partecipare al Concilio ed è quello che più interviene tra i membri delle due Conferenze episcopali portoghesi (metropolitana e d’Oltremare). Di grande impatto internazionale, i suoi interventi chiedono la condanna delle dittature e del colonialismo. Scrive nel suo diario il 28 settembre 1965: “Ho trattato della dignità della persona umana, dell’amore per i nemici, dell’uguaglianza tra gli uomini. Nella prima parte ho attaccato e ho chiesto che siano condannati i regimi di polizia […]. I portoghesi hanno compreso”.
Mons. Manuel Vieira Pinto raccoglie la sua eredità spirituale e, assieme ad un folto gruppo di giovani missionari e ai primi preti locali, collabora all’apertura della Chiesa mozambicana allo spirito del Vaticano II. Si ha così una prima recezione embrionale del Concilio. Inizia un processo di mutamento di paradigma nell’evangelizzazione: il popolo mozambicano da oggetto diventa soggetto dell’evangelizzazione.
Per la prima volta, dopo quattro secoli, si abbandona una forma di Chiesa totalmente dipendente da quella europea, a livello teologico, liturgico ed economico.
I TEMI DELLA PRIMA FASE DELLA RECEZIONE
Sono anni di fermento, in cui vengono alla ribalta i temi della formazione, del catecumenato, dell’urgenza dell’inculturazione della fede. Nel 1968 si comincia a lavorare alla creazione di un testo di catechesi in portoghese, unico per tutte le diocesi, che poi verrà tradotto nelle lingue autoctone. Si dà ulteriore impulso all’opera di pubblicazione – già iniziata prima del Concilio – di testi di preghiera e di traduzione della Bibbia nelle differenti lingue locali.
Tra il 1968 e il 1969 vengono creati i primi tre Centri di formazione catechetica - Nazaré (diocesi di Beira, al centro del paese), Anchilo (diocesi di Nampula, al nord), Guiúa (diocesi di Inhambane, al sud) – che offrono un contributo decisivo alla formazione di laici, catechisti, animatori, suore e preti, dando un volto nuovo alla Chiesa. In questa prima fase di recezione è in corso la guerra di liberazione contro il regime coloniale. Lo spirito conciliare dà ulteriore impulso alla minoranza che dentro la Chiesa sostiene l’indipendenza.
Nel 1971 i missionari d’Africa prendono la decisione, senza precedenti, di lasciare il paese per non essere “complici dell’appoggio ufficiale che i vescovi, attraverso il loro silenzio di fronte all’ingiustizia e brutalità, stanno dando ad un regime che utilizza astutamente la Chiesa per perpetuare una situazione anacronistica in Africa”. All’inizio di aprile 1974 mons. Vieira Pinto e undici missionari comboniani vengono espulsi per avere pubblicato un documento, Un imperativo di coscienza, che in maniera altrettanto inequivocabile chiede l’indipendenza.
IL 1975, ANNO SPARTIACQUE
La proclamazione dell’indipendenza, il 25 giugno 1975, costituisce uno spartiacque storico e politico. Comincia il processo di nazionalizzazione. Il Frelimo diventa partito unico e opta per il marxismo-leninismo. Il Mozambico diventa campo di battaglia di giochi di potere decisi altrove. Nel 1976 nasce la Resistenza nazionale mozambicana (Renamo) e appaiono le prime avvisaglie di una guerra civile che durerà sedici anni, con più di un milione di morti.
Il 1975 è discriminante anche a livello ecclesiale. La fine di un’epoca di privilegi e l’inizio di un tempo di persecuzioni permettono alla Chiesa di non morire, anzi di rinascere. La spogliazione e il silenzio forzato diventano opportunità di purificazione e di conversione per una fedeltà più piena al Vangelo.
È in questo tempo di crisi che la Chiesa del Concilio segna il cammino della Chiesa in Mozambico. Il documento conclusivo della Prima assemblea nazionale di pastorale (Beira, settembre 1977) è la sintesi ideale del cammino appena inaugurato: “Usciti da una Chiesa trionfalista, troppo legata ai poteri costituiti, siamo in cammino verso una Chiesa umile e povera, separata dallo Stato e liberata da false sicurezze, [...] verso una Chiesa di base e di comunione [...], nel cuore del popolo, inserita nelle realtà umane e fermento della società. Questo ci porta a dare nuovo impulso al lavoro di formazione e animazione delle piccole comunità, favorendo l’iniziativa e la responsabilità di tutto il Popolo di Dio nell’edificazione delle Chiesa locale”.
UNA CHIESA MINISTERIALE E MEDIATRICE DI PACE
Le Piccole comunità cristiane ministeriali rappresentano il tentativo più riuscito di dare forma alla Chiesa come Popolo di Dio del Vaticano II. Dall’evangelizzazione tradizionale – di carattere piuttosto unidirezionale e con il baricentro spostato sulle figure del missionario e del catechista-maestro – si punta verso una Chiesa tutta ministeriale, che esiste grazie appunto ai suoi ministeri, come il corpo esiste grazie a tutte le sue membra.
Nella comunità, ogni battezzato vivendo il suo ministero – animatore, celebrante della Parola, animatore della liturgia, catechista, agente della carità, giustizia e pace ecc. – diventa soggetto evangelizzatore per l’altro, nella reciprocità. La Chiesa mozambicana vede maturare uno dei frutti più belli della recezione del Concilio nel suo ruolo decisivo come mediatrice nel dialogo per la pace, che ha portato all’Accordo firmato a Roma il 4 ottobre 1992, mettendo fine a sedici anni di guerra civile.
Fanno eco le parole di Gaudium et spes 77: “Il messaggio evangelico, in armonia con le aspirazioni e gli ideali più elevati del genere umano, risplende in questi nostri tempi di rinnovato fulgore quando proclama beati i promotori della pace, ‘perché saranno chiamati figli di Dio’ (Mt 5,9)”.”
(In www.saveriani.it)
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A Luta Continua spiega la lotta militare del Fronte di liberazione del Mozambico (FRELIMO) contro i portoghesi. Prodotto e narrato dagli attivisti americani Robert Van Lierop, descrive in dettaglio il rapporto della liberazione con le più ampie richieste regionali e continentali di autodeterminazione contro il governo delle minoranze. Rileva i ruoli complici dei governi e delle società straniere nel sostenere il Portogallo contro i nazionalisti africani. I filmati dalle prime linee della lotta aiutano a contestualizzare l'ideologia socialista africana di FRELIMO, in particolare il ruolo dei militari nella costruzione della nuova nazione, l'impegno per l'istruzione, le richieste di uguaglianza sessuale, l'introduzione di assistenza medica nelle campagne e il ruolo di cultura nella creazione di un'unica identità nazionale.
Un film:
- Mueda, Memoria e Massacre (1979), regia di Ruy Guerra con sottotitoli in inglese
Nel 1979 l’Istituto nazionale del cinema del Mozambico (Instituto Nacional de Cinema de Moçambique - INC) produsse un film intitolato Mueda, Memória e Massacre, diretto dal regista mozambicano Ruy Guerra, che era tornato nel suo Paese dopo oltre vent’anni di esilio volontario in Brasile e in Europa. Il film esaminava un episodio risalente all’epoca della resistenza anticoloniale e noto come “massacro di Mueda”, avvenuto nel 1960 nella regione di Cabo Delgado, a pochi chilometri dalla frontiera con la Tanzania. Sebbene fosse essenzialmente caratterizzato da elementi etnici e locali - un conflitto tra gli immigrati makonde in Tanzania e l’amministrazione portoghese - i contorni dell’episodio fecero sì che fosse visto come il punto di svolta che diede inizio alla lotta armata. […] Guerra non adotta l’approccio eroico, carico di virilità e di scontro fisico, che potrebbe sembrare adeguato a onorare il sacrificio e il coraggio dei liberatori. Il film sostituisce invece la violenza “realistica” con il teatro popolare, la risata, le parole e la satira. Durante un viaggio a Cabo Delgado, Ruy Guerra venne a conoscenza di uno spettacolo che i guerriglieri erano soliti allestire nel campo di addestramento di Nachingwea negli anni della guerra. Incredibilmente, lo spettacolo continuò ad andare in scena anche dopo l’indipendenza, nella città di Mueda, durante le commemorazioni in occasione dell’anniversario del massacro. Lo spettacolo era stato parte integrante della mobilitazione per la lotta indipendentista a Nachingwea, ma il suo riposizionamento in quel momento e in quel luogo faceva emergere un simbolismo interessante: gli abitanti di Mueda - compresi coloro che erano sopravvissuti al massacro - diventavano attori per rappresentare una versione teatrale della loro storia. Mettevano in scena fatti accaduti 18 anni prima, un’illustrazione di realtà passate, come se si fosse trattato di un western o un thriller. Catturata in questo modo su pellicola, l’opera teatrale ricrea i dialoghi, i protagonisti, le canzoni e gli eventi che indussero le autorità coloniali a reagire con violenza sproporzionata alle richieste pacifiche del popolo che voleva l’indipendenza.”
(Catarina Simão, Specters of Freedom - Cinema and Decolonization, a cura di Tobias Hering e Catarina Simão, Berlin Arsenal - Institute for Film and Video Art and filmgalerie 451, Berlino 2018, in festival.ilcinemaritrovato.it)
Una frase al giorno
“A volte capita che debba andare ai ricevimenti e allora vedo quei professionisti ricchi e provo una tale pena per loro. Hanno conquistato il denaro, sì. Hanno conquistato il successo e il potere. Eppure sono frustrati perché si sono accorti di aver avuto una vita vuota. Non vorrei essere al posto loro quando viene l'ora dei lupi. Ingmar Bergman la chiama l'ora dei lupi, cioè l'ora antelucana, l'ora in cui ci troviamo soli anche se accanto c'è la compagna della nostra vita, e non possiamo mentire a noi stessi.”
(Sandro Pertini, da un'intervista di Oriana Fallaci, L'Europeo, Roma, 27 dicembre 1973)
“PERTINI, Alessandro (Sandro) nacque a San Giovanni, frazione del Comune di Stella (Savona), il 25 settembre 1896 da Alberto (1853-1908) e da Maria Muzio (1854-1945). Ebbe tre fratelli e una sorella, quelli che con lui, su tredici figli, giunsero all’età adulta: Luigi Giuseppe (1882-1975), il primogenito, scultore; Giuseppe (1890-1930), che aderì al fascismo; Eugenio (1894-1945), morto nel campo di concentramento di Flossenbürg, e Maria Adelaide (1898-1981), sposata con il diplomatico Aldo Tonna.
Legatissimo alla madre, Pertini crebbe in un ambiente familiare benestante. Dopo i primi tre anni di scuola elementare a Stella, proseguì gli studi presso l’Istituto don Bosco di Varazze. Frequentò il liceo classico Gabriello Chiabrera di Savona, che abbandonò nel 1914. Lesse i classici del pensiero marxista, avvicinandosi alla corrente riformista del Partito socialista italiano (PSI); Adelchi Baratono, docente di filosofia, contribuì a indirizzarlo verso i circoli del movimento operaio e socialista ligure.
Partecipò alla prima guerra mondiale distinguendosi per una serie di azioni di prima linea. Proposto per la medaglia d’argento al valor militare, ricevette l’onorificenza soltanto nel 1985, essendo stato segnalato, nel 1915, come simpatizzante socialista su posizioni neutraliste. L’esperienza bellica rafforzò in Pertini l’idea di un socialismo coerente con la causa nazionale e la fedeltà alle istituzioni, in linea con la tradizione risorgimentale e con il pensiero riformista di Filippo Turati. Nella Grande Guerra maturò una profonda avversione verso la violenza che lo caratterizzò nelle fasi successive della sua vita.
Prima di essere collocato in congedo riprese gli studi e, contemporaneamente, si dedicò all’attività politica. Nel 1919 ottenne la maturità classica da privatista e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Genova.
L’anno successivo venne eletto consigliere comunale a Stella, nelle liste dell'associazione democratica liberale rimanendo in carica fino al 1922. Dopo la scissione del Partito Comunista d’Italia scelse di aderire al Partito socialista unitario (PSU).
Lasciò l’ateneo ligure e completò la propria formazione all’Università di Modena, laureandosi in giurisprudenza con una tesi sulla siderurgia italiana (1923). Si trasferì quindi a Firenze per iscriversi all’Istituto Cesare Alfieri. Nel dicembre del 1924 conseguì la laurea in scienze sociali, discutendo una tesi dal titolo La cooperazione, nella quale propose una lettura antimarxista, riformista e antispeculativa del movimento cooperativo.
Nel capoluogo toscano entrò in contatto con il mondo dell’interventismo democratico e socialista, in particolare con Gaetano Salvemini, i fratelli Carlo e Nello Rosselli ed Ernesto Rossi. Aderì al movimento antifascista Italia libera. All’indomani del delitto Matteotti (1924), rese nota la decisione di iscriversi al PSU.
Rientrato in Liguria, esercitò per un breve periodo le professioni di avvocato e giornalista. Nel maggio del 1925 venne arrestato per aver redatto e distribuito il foglio clandestino Sotto il barbaro dominio fascista. Condannato a otto mesi di reclusione, beneficiò di un’amnistia e divenne bersaglio di ripetute violenze squadriste. A seguito della promulgazione delle leggi eccezionali fu raggiunto da un provvedimento di assegnazione al confino di polizia della durata di cinque anni. Entrò in clandestinità trovando asilo presso l’abitazione milanese di Carlo Rosselli. Conobbe Turati e fu uno degli organizzatori del clamoroso espatrio del capo socialista: l’impresa gli valse la condanna in contumacia a dieci mesi di prigione.
Visse in esilio a Parigi e poi a Nizza, adattandosi ai mestieri più disparati. Strinse contatti con antifascisti italiani di punta e partecipò al congresso della Lega dei diritti dell’uomo. Nel 1928, con il denaro ricavato dalla vendita di una masseria ligure che aveva ereditato, mise in funzione, sotto il falso nome di Jean Gauvin, una radio trasmittente a Eze (Nizza), strumento di propaganda antifascista. Scoperto e arrestato dalla polizia francese, fu processato (gennaio 1929) e condannato a un mese di reclusione (sospeso per la condizionale) e al pagamento di un’ammenda.
Insofferente alla vita dell’esule, iniziò a predisporre un piano per far rientro in Italia. Il 26 marzo 1929, utilizzando un passaporto falso intestato al cittadino svizzero Luigi Roncaglia, Pertini riuscì a rientrare in patria da Chiasso. Si mise all’opera per riannodare i fili della rete clandestina antifascista in varie città del Nord; si recò a Pisa per incontrare Ernesto Rossi. Venne riconosciuto, denunciato alla polizia e arrestato il 14 aprile 1929. Deferito al Tribunale speciale, rivendicò la propria fede politica e i propri sentimenti antifascisti. Il 30 novembre 1929 fu condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione e a tre anni di vigilanza. All’annuncio della condanna reagì inneggiando al socialismo e inveendo contro il fascismo. In risposta a tale atteggiamento di sfida venne recluso nel carcere romano di Regina Coeli e successivamente trasferito in una cella di isolamento nel penitenziario di Santo Stefano. Il suo nome fu associato a quello dei principali capi antifascisti: un simbolo dell’opposizione che il regime doveva controllare e recludere.
Le condizioni di salute di Pertini iniziarono a deteriorarsi mentre cominciava il suo itinerario attraverso luoghi di reclusione e di pena. Nel 1931 venne trasferito nel carcere di Turi, dove strinse amicizia con Antonio Gramsci. Nell'ottobre dello stesso anno fu assegnato al sanatorio giudiziario di Pianosa. Qui ricevette la notizia della domanda di grazia inoltrata da sua madre, che rifiutò categoricamente. Subì ulteriori sanzioni per atti di generosità nei confronti di alcuni detenuti che, sommate alla condanna per l’aiuto dato alla fuga di Turati, prolungarono la sua permanenza sull’isola toscana fino al settembre del 1935. Venne quindi inviato al confino a Ponza per espiare la pena comminata nel 1926 e da lì alle isole Tremiti. Dopo aver minacciato lo sciopero della fame, Pertini venne trasferito a Ventotene. Riacquistò la libertà nell’agosto del 1943, un mese dopo la caduta del fascismo: era pronto a partecipare alla fase decisiva della lotta di liberazione.
Pertini divenne uno dei protagonisti della Resistenza e delle sue strutture di comando. Inizialmente impegnato nella fondazione del Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP) e nella costituzione di un comitato militare congiunto con il Partito d’azione e il Partito comunista italiano (PCI), il 10 settembre 1943 combatté in difesa di Roma, a Porta San Paolo. Continuò la sua febbrile attività fino alla metà di ottobre, allorché, insieme a Giuseppe Saragat, venne arrestato, tradotto a Regina Coeli e condannato a morte. Riuscì a evadere il 24 gennaio 1944 e riprese il suo posto nell’apparato del Partito e nella giunta militare centrale del Comitato di liberazione nazionale (CLN). A fine maggio 1944 si spostò nell’Italia settentrionale. Assunse la guida del PSIUP in qualità di segretario. Organizzò e coordinò la lotta armata nelle regioni del Nord.
Richiamato da Nenni a Roma all’inizio dell’estate, Pertini attraversò le linee del fronte e prese parte alla battaglia per la liberazione di Firenze. Nell’ottobre 1944 decise di tornare nell’Italia settentrionale. Con l’aiuto degli Alleati e di alcuni militanti della Resistenza francese, attraversò le Alpi e raggiunse Milano. Fu tra i membri della giunta rivoluzionaria del CLN nell’insurrezione del 25 aprile 1945. Il giorno successivo, in Piazza Duomo, tenne il suo primo comizio, annunciando alla radio l’avvenuta liberazione del capoluogo lombardo.
Insignito della medaglia d’oro al valor militare per meriti partigiani (1953), identificò nella Resistenza l’elemento fondante dell’identità repubblicana: analoga al Risorgimento nella sua spinta ideale, ma distinta per il carattere popolare e collettivo e per il patrimonio di aspettative di libertà, pace e giustizia sociale. Convinto antimonarchico, rimase contrario alle ipotesi di amnistia per i fascisti e rappresentò uno dei simboli più in vista della nuova Italia nata dalla cesura del secondo conflitto mondiale.
La sua parabola politica attraversò le fasi della rinascita postbellica. Segretario del PSIUP dall’estate al dicembre del 1945, fece parte della direzione del PSI dal 1947 al 1955, anno in cui fu designato vicesegretario. Membro della Consulta nazionale, il 2 giugno del 1946 venne eletto all’Assemblea costituente. Sei giorni più tardi, in Campidoglio, sposò, con rito civile, la giovane staffetta partigiana Carla Voltolina (1921-2005).
Senatore di diritto nella I legislatura, nella II fu eletto alla Camera dei deputati, per essere confermato senza interruzioni fino al 1976. Nei primi anni del dopoguerra riprese l’attività giornalistica; diresse l’Avanti! (1946-47, 1949-51) e il Lavoro nuovo di Genova (1947-68).
Strenuo sostenitore dell’unità socialista, al congresso di Firenze (aprile 1946) si schierò a favore dell’autonomia dal PCI. Nel gennaio del 1947 Pertini si prodigò per impedire la scissione dei socialdemocratici guidati da Saragat e fu l’unico tra i dirigenti di punta del Partito a recarsi a palazzo Barberini per esortare gli scissionisti a desistere.
Contrario alle liste unificate del Fronte democratico popolare con il PCI, dopo la sconfitta elettorale del 1948 accentuò la posizione autonomista: impostazione anticomunista associata alla rivendicazione di uno spazio autonomo per la tradizione socialista. In occasione dell’attentato a Palmiro Togliatti (1948), denunciò in Parlamento l’atmosfera di ostilità nei confronti della sinistra e si adoperò affinché la situazione non sfociasse in un tragico scontro tra opposte visioni politiche. Nel 1953 fu tra coloro che si opposero alla cosiddetta ‘legge truffa’ per la riforma del sistema elettorale in senso maggioritario.
Dalle aule parlamentari e dalle colonne di diversi quotidiani richiamò costantemente l’attenzione al rispetto delle regole democratiche. Avversò qualunque provocazione reazionaria, scagliandosi contro i metodi illiberali di repressione delle manifestazioni di piazza. Attaccò i provvedimenti arbitrari a danno di politici, sindacalisti e studenti. Il 30 giugno 1960 fu tra i protagonisti della mobilitazione collettiva contro la decisione del Movimento sociale italiano (MSI) di tenere il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro per la Resistenza, fatto che portò alle manifestazioni antifasciste e alla loro violenta repressione. Fece da tramite con una nuova generazione di antifascisti formatasi nei primi anni del dopoguerra.
All’interno del PSI evitò di porsi a capo di una corrente, preferendo il profilo di un riferimento ideale e di un esempio per i militanti più giovani. Nel Comitato centrale del 15 maggio 1964 sostenne che «la segreteria del partito avrebbe dovuto vigilare attentamente affinché nessuna forma di affarismo penetrasse all’interno del Psi» (Gandolfo, 2013b, p. 531).
Fautore della pace e della distensione tra i blocchi, nel clima della guerra fredda condivise l’orientamento prevalente nella sinistra italiana secondo il quale l’Urss, vincitrice contro il nazismo e il fascismo, era garante degli equilibri seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale. Si oppose al Piano Marshall e fu ugualmente contrario all’adesione italiana al Patto atlantico. Non condivise né accompagnò le scelte fondamentali della collocazione internazionale della nuova Repubblica. D’altro canto, dopo gli avvenimenti del 1956, pur non venendo meno la fiducia nell’esperienza scaturita dalla rivoluzione d’ottobre, Pertini riaffermò i principi della legalità democratica, del diritto all’autodeterminazione e alla sovranità nazionale, palesemente violati dai carri armati sovietici.
Dopo la nascita dei governi di centro-sinistra, che accolse favorevolmente come il segnale di un significativo passo avanti nella rappresentanza della classe operaia, Pertini si aprì all’atlantismo, condividendone la funzione difensiva e stabilizzatrice. Partecipò alle prime stagioni dell’europeismo richiamandosi al disegno di un’Europa unita aperta al resto del mondo, fondata sul protagonismo dei popoli e non dei capitali.
La sua intensa partecipazione alla vita pubblica si tradusse in una presenza crescente all’interno del quadro istituzionale. A partire dalla II legislatura prese parte, con vari incarichi, ai lavori di diverse Commissioni parlamentari. Fu vicepresidente della Camera nella IV legislatura. Il 5 giugno 1968 venne chiamato a presiedere l’assemblea di Montecitorio con 364 voti su 583.
Primo presidente non democristiano dal 1948, la sua elezione si inserì nel clima di stallo della politica di centro-sinistra, che condusse in avvio della V legislatura alla nascita del secondo governo Leone (monocolore democristiano), in attesa di un nuovo accordo tra democristiani e socialisti che potesse ridare slancio all’apertura a sinistra.
Durante il mandato di presidente dell’aula si tennero dibattiti impegnativi, su tematiche di grande impatto sociale (l’approvazione della legge sul divorzio e dello statuto dei lavoratori), e di attuazione del dettato costituzionale (l’istituzione delle regioni, la riforma previdenziale e quella tributaria, la disciplina dell’istituto referendario). Sotto la presidenza Pertini, nel febbraio 1971, si giunse all’approvazione del nuovo regolamento della Camera dei deputati che rafforzò i poteri dei gruppi parlamentari e le attività delle Commissioni. Il suo stile diretto ed energico incontrò grande consenso tra i cittadini: si rese protagonista e garante di un canale di comunicazione diretto con le istituzioni. Denunciò i fenomeni degenerativi del sistema politico.
All’indomani dello scandalo del petrolio, il 10 marzo 1974, scelse La Domenica del Corriere per socializzare il suo punto di vista: «Amici miei, io non resto un minuto di più su questa sedia se la mia coscienza si ribella. Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione» (2012, p. 7). Negli anni trascorsi sullo scranno più alto di Montecitorio inaugurò l’abitudine di ricevere delegazioni di giovani e studenti, per discutere con le nuove generazioni i problemi e le prospettive del Paese.
Il 25 maggio 1972, con 519 voti su 615, Pertini fu confermato presidente della Camera, dove rimase fino alla fine della VI legislatura.
Nel 1978, in seguito alle tormentate dimissioni di Giovanni Leone, nella difficile ricerca di un’intesa tra le forze politiche, emerse la candidatura di Pertini per la massima magistratura dello Stato. In un clima politico fortemente segnato dal peso della questione morale e dall’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse (9 maggio 1978), l’8 luglio, al sedicesimo scrutinio, Pertini venne eletto settimo presidente della Repubblica. Sostenuto da uno schieramento che escludeva l’estrema destra, ottenne una maggioranza larghissima e senza precedenti: 832 voti su 995. Nel suo discorso di insediamento dichiarò di voler essere il presidente di tutti gli italiani e presentò l’ossatura ideale di un mandato ispirato alle eredità feconde della stagione costituente: richiamo alla pace («si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame»), alla libertà («bene prezioso e inalienabile») e alla giustizia sociale, centralità del processo d’integrazione nel vecchio continente, unità delle forze democratiche contro la minaccia terroristica, superamento degli antagonismi ideologici, lotta alla corruzione. Con energia rivendicò la necessità di una spinta riformatrice incentrata sui cardini del dettato costituzionale: occupazione, con particolare attenzione a quella giovanile, politiche per la casa, diritto alla salute e all’istruzione, promozione della cultura e della ricerca scientifica. La Carta del 1948 rimase il suo orizzonte di riferimento valoriale e la sua ispirazione costante. Come primo atto scelse di rendere omaggio alla tomba di Moro a Torrita Tiberina (10 luglio 1978).
A differenza dei predecessori, Pertini improntò la sua azione a un notevole dinamismo, dando un’interpretazione più attiva della carica e delle funzioni di presidente della Repubblica. Dotato di grande slancio comunicativo e di un linguaggio semplice ed efficace, riscosse, in anni difficili e in circostanze spesso drammatiche, l’ampio consenso di chi vedeva in lui il rappresentante di un’Italia diversa, non toccata dagli scandali. Il Diario tenuto dal Segretario generale al Quirinale, Antonio Maccanico, riflette «il senso della straordinaria trasformazione della presidenza» e di un cammino finalizzato alla «possibilità di ridare prestigio alla suprema magistratura» (Maccanico, 2014, pp. 45 e 49). I suoi interventi politici furono condotti secondo uno stile schietto e talvolta duro e irruento, come avvenne il 26 novembre 1980, dopo il terremoto in Irpinia, quando, in un messaggio televisivo alla Nazione, si scagliò contro la lentezza dei soccorsi e l’inefficienza dell’intervento.
Nella crisi di governo del gennaio 1979 affidò per la prima volta l’incarico a un laico, il repubblicano Ugo La Malfa, che non riuscì nel suo intento per i veti incrociati della Democrazia cristiana (DC) e del PCI. Fu ancora Pertini ad affidare il compito a un altro repubblicano, Giovanni Spadolini, nel giugno 1981, e, dopo di lui, al leader del PSI Bettino Craxi, nell’agosto del 1983.
In campo internazionale Pertini si mosse con le contraddizioni e le debolezze di un pacifista coerente, esprimendosi a favore di un disarmo totale e controllato (aprile 1983), o dichiarando che il contingente italiano di stanza in Libano andava richiamato in caso di guerra (Messaggio di fine anno, 31 dicembre 1984).
L’autorevolezza con cui seppe interpretare il ruolo di presidente, insieme al prestigio che lo circondava come intransigente alfiere dell’antifascismo, contribuirono in misura determinante a stabilizzare le sorti della democrazia italiana in uno dei suoi momenti più travagliati.
Erano gli anni dell’attacco terrorista, della stagnazione economica, nel contesto della tormentata fase politica seguita all’esaurimento della solidarietà nazionale e all’assassinio di Moro. La Presidenza della Repubblica si rivelò una risorsa preziosa, fondamentale per tentare di uscire dalla strettoia della crisi italiana pur rischiando di svolgere una funzione di supplenza rispetto al deficit di credibilità delle classi dirigenti e del ‘sistema Paese’ nel suo complesso. Le parole consegnate al Diario da Maccanico sono emblematiche: «Ormai Pertini è un grande illusionista: fa credere agli stranieri che esista un’Italia seria e affidabile» (Maccanico, 2014, p. 120).
Durante il settennato emersero con forza la fermezza e lo spessore umano del suo carattere; Pertini riuscì a riaccendere la fiducia degli italiani nelle istituzioni pur misurandosi con le premesse di una crisi di sistema che si rivelerà irreversibile. Fu definito ‘il Presidente più amato dagli italiani’ o quello ‘dei funerali di Stato’ in occasione delle vittime di mafia dei primi anni Ottanta. Il suo volto sofferente accompagnò la prima diretta televisiva su un fatto di cronaca a fianco della mamma di Alfredino Rampi sul bordo del pozzo di Vermicino dove il bimbo era precipitato (giugno 1981) e dove poi morì, mentre la gioia incontenibile per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio del 1982 in Spagna lo fece esultare in tribuna rompendo ogni vincolo di protocollo.
Viaggiò molto in Italia e all’estero: un totale di 203 interventi, più di 40 i viaggi, 75 gli incontri con capi di Stato esteri. Fu il primo presidente a compiere una visita in Cina, nel 1980, unica occasione ufficiale con la presenza della moglie, quasi dieci anni dopo l’apertura delle relazioni diplomatiche bilaterali. Fu anche il primo capo di Stato italiano a recarsi in Giappone dall’imperatore Hirohito, nel marzo 1982. Negli anni di presidenza, manifestò più volte il suo impegno nella lotta per la difesa dei diritti umani: contro l’apartheid in Sudafrica, le dittature sudamericane e l’intervento sovietico in Afghanistan.
Grande comunicatore, mise in evidenza, anche in occasioni ufficiali, una straordinaria schiettezza e, al tempo stesso, un respiro consapevole e misurato, che conferivano alle sue parole il carattere di un messaggio non episodico o incidentale.
Nessun capo di Stato o uomo politico italiano ha conosciuto all’estero una popolarità paragonabile a quella di Pertini. Ricevette lauree honoris causa in università prestigiose (Columbia University, Università di Oxford e di Madrid), divenne Accademico di Francia.
Da capo dello Stato conferì l’incarico a sei presidenti del Consiglio: Giulio Andreotti (del quale aveva respinto le dimissioni di cortesia presentate nel 1978), Francesco Cossiga (1979 e 1980), Arnaldo Forlani (1980), Giovanni Spadolini (1981 e 1982), Amintore Fanfani (1982) e Bettino Craxi (1983). Nominò tre giudici della Corte costituzionale: Virgilio Andrioli (1978), Giuseppe Ferrari (1980), Giovanni Conso (1982), e cinque senatori a vita: Leo Valiani (1980), Eduardo De Filippo (1981), Camilla Ravera (1982, prima donna senatrice a vita), Carlo Bo e Norberto Bobbio (1984). Non risiedette al Quirinale, preferendo mantenere la residenza nel proprio appartamento a piazza Fontana di Trevi.
Il 29 giugno 1985 rassegnò le dimissioni e divenne, di diritto, senatore a vita. Nell’ultima fase della sua vita l’unico incarico che decise di accogliere fu la presidenza della Fondazione di studi storici Filippo Turati di Firenze.
Morì a Roma, all’età di novantatré anni, il 24 febbraio 1990.”
(Umberto Gentiloni Silveri - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 82 (2015) in www.treccani.it)
- Immagini: SANDRO PERTINI intervistato da Enzo Biagi (INEDITO)
25 settembre 1896 nasce Sandro Pertini, giornalista e politico italiano, settimo Presidente della Repubblica Italiana (morto nel 1990)
Un brano musicale al giorno
Jean-Philippe Rameau: Suite orchestrale da «Daphnis et Églé»
«Daphnis et Églé», pastorale eroica in un atto, rappresentato davanti al re a Fontainebleau, nel 1753.
Suite orchestrale Les Siècles, François-Xavier direttore.
“Rameau, Jean-Philippe, musicista (Digione 1683 - Parigi 1764). Considerato come un teorico illustre e un abile organista, autodidatta, R. fu attivo in diverse località francesi ma soprattutto a Parigi (dal 1706-09 e dal 1723 alla morte). Autore di numerose composizioni per clavicembalo, si dedicò alla carriera teatrale solo dal 1733, coltivando principalmente, con circa. 30 lavori. Il suo Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturels, uno degli scritti teorici più importanti del Settecento, segnò la nascita della moderna teoria dell'armonia.
Vita e opere.
Figlio di un organista, fu un autodidatta. Dopo mediocrissimi studi letterari si consacrò alla musica e diciannovenne partì per Milano, dove prese più intimo contatto con la musica italiana allora in gran voga nella sua città natale. Tornato in Francia (1702), condusse vita errante passando per Lione, Avignone e Clermont-Ferrand (giugno 1702), prima di rientrare a Parigi nella primavera del 1705. Nel 1705 passò a Parigi, ove pubblicò il Premier livre de pièces de clavecin (1706) e divenne organista dei gesuiti e dei mercedari. Tornò poi a Digione, ove restò qualche anno. Nel 1715 passò per Lione, forse Lilla, e si fermò nuovamente a Clermont-Ferrand, come organista, fino al 1723.
Durante questo periodo della sua esistenza, rimasto molto oscuro, sembra che Rameau abbia abbandonato la composizione per dedicarsi alla teoria musicale. A Clermont egli stese il suo celeberrimo Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturels (1723). Tornò quindi a Parigi, dove svolse attività di organista in varie chiese. Il 25 febbraio 1720 sposò la musicista Marie-Louise Mangot; divenne organista di diverse chiese, pubblicò le sue cantate e un certo numero di opere teoriche che completano la sua opera maggiore. Un mecenate (il signor de La Pouplinière) lo assunse come maestro, direttore d'orchestra, compositore, e gli diede il modo di eseguire e rappresentare le sue produzioni. Rameau dette allora, già cinquantenne, la sua prima opera teatrale, Hippolyte et Aricie, che alla rappresentazione (1733) sollevò uno scandalo per la complessità e l'arditezza armonica, più vicina allo stile italiano che al francese tradizionale. Seguirono, tra gli opéras-ballets: Les Indes galantes (1735); Les fêtes d'Hébé (1739); tra le tragédies lyriques: Castor et Pollux (1737); Dardanus (1739), tutte più o meno accolte con accesi contrasti tra ammiratori e detrattori.
Nel 1737 intanto Rameau aveva pubblicato un altro lavoro teorico (Génération harmonique, ecc.); fondò una scuola di composizione. Dal 1739 al 1745 egli tacque, mentre nel mondo artistico di Francia aumentava rapidamente la sua fama. Nel 1745 la corte gli commissionò La princesse de Navarre e lo assunse quale compositore di camera del re. Ed ecco la sua opera più originale: la comica Platée (1745), guastata soltanto dagli avversari di Rameau, gli enciclopedisti. Seguirono opere (Les fêtes de Polymnie, Le temple de la gloire, ecc.) che sconcertarono per la commistione di comico e di tragico, e le opere scritte per la corte: Les fêtes de l'Hymen et de l'Amour (1747); Naïs (1749); Zoroastre (1749); Acanthe et Céfise (1751); Les Paladins (1760).
Intanto aveva continuato a pubblicare musiche non teatrali, scritti teorici, polemiche, ecc. Vasta è la sua produzione: 25 lavori teatrali, 6 cantate, mottetti, 5 raccolte di pezzi per clavicembalo e musica da camera. Rameau fu il maggior teorico dei suoi tempi: con lui le pratiche armoniche posteriori alla sistemazione zarliniana (sec. XVI) trovarono il nuovo assetto razionale. Come compositore, egli badò - anche nell'opera - a valori di ricchezza e di logica nel discorso musicale; discorso di cui egli pose la ragione sintattica nell'armonia, ma, novatore nella tecnica armonica e orchestrale, rimase ostinatamente fedele alla tradizione dell'opera lullista che si estinse con lui.”
(In www.treccani.it)
- L’opera completa: Rameau, Maître à danser - Daphnis et Églé (Les Arts Florissants, 2015)
L'ensemble barocco Les Arts Florissants esegue l'eroica pastorale in un atto "Daphnis et Églé", di Jean-Philippe Rameau
Reinoud van Mechelen - Daphnis
Élodie Fonnard - Églé
Magali Léger - Amore
Arnaud Richard - prete
Les Arts Florissants
William Christi, direzione
25 settembre 1683 nasce Jean-Philippe Rameau, compositore e teorico francese (morto nel 1764).
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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