“L’amico del popolo”, 26 aprile 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ZERO DE CONDUITE (Zero in condotta, Francia, 1932), scritto, diretto e montato da Jean Vigo. Fotografia: Boris Kaufman. Musica: Maurice Jaubert. Con: Jean Dasté (sorvegliante Huguet), Robert Le Flon ('Pète-Sec', il sorvegliante Parrain), Delphin (direttore del collegio), Du Verron [Blanchar] ('Bec-de-Gaz', il sorvegliante generale), Léon Larive (professore di chimica), Louis Berger ('corrispondente'), Louis-de-Gonzague Frick (prefetto), Henri Storck (parroco), Félix Labisse (primo pompiere), Georges Patin (secondo pompiere), Raphael Diligent (terzo pompiere), Georges Vakalo (quarto pompiere), Madame Émilie ('Mère-Haricot'), Michelle Fagard (figlia del 'corrispondente'), Albert Riéra (inserviente della lampada), Louis Lefevre (Caussat), Gilbert Prouchon (Colin), Gérard de Bédarieux (Tabard), Costantin Kelber (Bruel), Georges Belmer, Émile Boulez, Maurice Cariel, Jean-Pierre Dumesnil, Igor Godfarb, Lucien Lincks, Charles Michiels, Roger Porte, Jacques Poulin, Pierre Regnoux, Ali Ronchy, Georges Rougette, André Thille, Pierre Tridon, Paul Vilhem (collegiali), Natale Bencini, Leonello Bencini (acrobati).

L’infanzia. Dei fanciulli che vengono abbandonati una sera di ottobre alla riapertura delle scuole nel cortile d’onore da qualche parte in provincia sotto una bandiera qualunque, ma sempre lontano da Casa, dove si spera nell’affetto di una madre, nell’amicizia di un padre, se non è già morto.
Ed allora, mi sento stretto dall’angoscia. State per vedere Zero in condotta, io sto per rivederlo con voi. L’ho visto crescere. Come mi sembrava gracile! Neppure convalescente, come un mio stesso figlio, non è più la mia infanzia. È invano che spalanco gli occhi. Il mio ricordo si ritrova male in lui. È dunque già così lontano? Come ho potuto osare, diventato grande, percorrere tutto solo, senza i compagni di gioco e di studio, i sentieri del Gran Meaulnes? Senza dubbio, ritrovo nello scompartimento che allontana le vacanze i due amici del ritorno a scuola. Sicuramente va là, con i suoi 30 letti identici, il dormitorio dei miei otto anni d’internato, e vedo anche Huguet che noi amavamo tanto e il suo collega, il sorvegliante Pète-Sec, e questo sorvegliante generale muto dai passi leggeri di un fantasma. Alla luce della lampada a gas abbassata per la notte, il piccolo sonnambulo ossessionerà ancora il mio sogno questa notte? E forse lo rivedrò ai piedi del mio letto come ci si trovava la vigilia di quel giorno in cui la febbre spagnola lo portava via nel 1919”.

(Jean Vigo, discorso pronunciato il 17 ottobre 1933 in occasione della prima proiezione del film in Belgio, al Club de l’Écran di Bruxelles)

ZERO DE CONDUITE (Zero in condotta, Francia, 1932), scritto, diretto e montato da Jean Vigo

“Le vacanze sono terminate. Caussat sta facendo ritorno al collegio, Bruel lo raggiunge nel vagone. I due scherzano ed estraggono dal cappotto oggetti con cui si esibiscono in alcuni trucchi da fiera. Al loro fianco, un uomo adulto dorme. Giunti alla stazione, sono accolti dal sorvegliante 'Pète-Sec'. L'uomo che viaggiava con loro è M. Huguet, il nuovo sorvegliante. La sera, nel dormitorio, tre allievi (Bruel, Caussat e Colin) vengono puniti per eccessivi schiamazzi, e costretti a restare in piedi davanti alla tenda del sorvegliante. La mattina successiva i tre si attardano nel rifare il letto, ricevendo così da Pète-Sec il primo zero in condotta dell'anno scolastico, e la conseguente consegna domenicale. Decidono quindi di vendicarsi. Pianificano una rivolta mentre nel cortile si svolge l'intervallo scolastico e regna il finimondo: si fuma nelle latrine, si gioca a pallone mentre il sorvegliante Huguet fa il verso a Charlot. In classe i ragazzi disegnano il simbolo dei pirati su un pezzo di stoffa nera. Un sorvegliante allampanato controlla silenziosamente i giovani dalla finestra. Dopo essere stata presentata al direttore del collegio (un nano con la barba), la scolaresca si esibisce in una breve passeggiata in città, che termina con l'inseguimento di una giovane impellicciata. Un sorvegliante e il direttore discutono degli atteggiamenti equivoci di Bruel e Tabard. Tabard manda al diavolo l'insegnante di chimica, che gli ha accarezzato lascivamente la mano, e rifiuta di scusarsi pubblicamente, mandando al diavolo anche il direttore della scuola davanti all'intera classe. Per questo riceve uno zero in condotta e la consegna domenicale. La rivolta è dunque matura: in refettorio, all'ora di pranzo, la scolaresca si ribella di fronte all'ennesimo piatto di fagioli: lancio di molliche di pane, salti tra i tavoli. Nella notte, nel dormitorio si alza il grido di rivolta contro sorveglianti e punizioni. Fiocchi di piume di cuscino volteggiano nell'aria. È il caos. La bandiera nera è issata sul tetto della scuola. La mattina, Pète-Sec viene legato al letto e lasciato in posizione verticale. I quattro consegnati si arrampicano sui tetti della scuola: durante una cerimonia ufficiale lanciano oggetti di ogni tipo sugli invitati.

Realizzato nel 1932, uscito nel 1933 e censurato fino al 1945, Zéro de conduite nasce da un moto interiore: il ricordo degli otto anni di internato in un collegio che Jean Vigo visse sulla propria pelle. Il film si palesa dunque attraverso una forte connotazione autobiografica, destinata però a essere annullata, sbriciolata da una messa in scena geniale, furiosa, sfuggente, dirompente come una meteora. Zéro de conduite non somiglia per nulla ai film autobiografici dal tono smaccatamente nostalgico. Più che filmare un inno sull'infanzia, Vigo è riuscito miracolosamente nell'impresa di costruire un film che quest'infanzia occulta, sfigura, altera, rendendola imprendibile, intrattabile. Enigmatica. Zéro de conduite si presenta come una macchia informe nella memoria, un punto cieco sul quale ruotano allusivamente le immagini sconnesse, feroci, euforiche di alcuni gesti atti a rendere impossibile la rappresentazione di un'esperienza troppo intima e dunque irrecuperabile, resa attraverso un preciso lavoro di anamorfosi. Appunto, l'esperienza dell'infanzia.
Costretto da limiti produttivi a ridurre la lunghezza del film così come il numero delle riprese su cui si basava la sceneggiatura, Vigo trasformò questo improvviso ostacolo in un punto di forza, rendendo il film un oggetto squilibrato, dove l'aspetto narrativo evapora all'interno di una struttura filmica a mosaico, il cui discorso si srotola attraverso trovate figurative, toni comici, prospettive inusuali: estraendone uno stile. Zéro de conduite è infatti un film dominato da un forte senso delle sproporzioni. In questo senso va la scelta di filmare attraverso angolazioni irregolari della macchina da presa, accentuando lo scarto e il senso di vertigine dei punti di vista nelle frequenti plongées e contre-plongées, cui fa da contrappunto l'uso straniato di alcuni primissimi piani sui volti; nello stesso senso va anche la scelta di servirsi della figura di determinati attori, fino alla vera e propria trovata di attribuire la parte del direttore a un nano con barba e voce stridula. Si tratta dello stesso nano (un infante con barba posticcia) che poco dopo osserviamo incapace di specchiarsi, data la statura e la proibitiva posizione dello specchio; superficie che per pochi attimi sembra deformare il corpo lillipuziano del direttore, dal momento che vi appare riflessa una figura affusolata e allungata (ma si tratta della sagoma silenziosa e riflessa di un sorvegliante). Vigo procede con massima padronanza a sviare il tono e il senso di una sequenza, lavorando a una forma interna di contrappunto: si pensi alla tranquilla passeggiata in città, destinata a trasformarsi nello sfacciato inseguimento di una giovane donna in pelliccia, che s'interrompe a sua volta dopo che la truppa ha confuso il tessuto ondeggiante della gonna con quello meno invitante di un abito talare.
Un direttore-nano, un sorvegliante spilungone, un secondo sorvegliante che, simile a un sonnambulo, nasconde i suoi occhi con una maschera nera, un grasso professore di chimica: corpi mal assortiti, inafferrabili, mostri e guardiani paradossali dell'infanzia. Il nero degli abiti dei sorveglianti, il grigio di M. Huguet, il bianco delle camicie da notte degli allievi; poi una bandiera nera issata sul tetto del collegio, una pioggia di piume d'oca che, simili a neve, invadono il dormitorio, e lo scorrimento rallentato delle immagini: ecco il ritratto gioioso della rivolta, del caos, il cuore commovente di Zéro de conduite. Ci sembra di poter sfiorare qui la vulnerabilità dei ricordi di Jean Vigo, ma è solo un attimo. Un attimo di hybris in grado di bloccare il tempo. Prima del conclusivo assalto al cielo, lì sui tetti, dopo aver rigettato ogni invito all'ordine, mentre Vigo manipola l'inclinazione verticale del tetto trasformandolo in superficie piana, dopo aver trasformato le cerimonie della vita adulta - giù in basso - in un isterico tiro a segno”.

(Rinaldo Censi - Enciclopedia del Cinema, 2004, Treccani)

ZERO DE CONDUITE (Zero in condotta, Francia, 1932), scritto, diretto e montato da Jean Vigo

“È evidentemente a Renoir che Vigo si avvicina di più anche se si è maggiormente discostato da lui nella crudezza e anche nell’amore dell’immagine. Tutti e due sono cresciuti in un’atmosfera nello stesso tempo ricca e povera, aristocratica e popolare, ma il cuore di Renoir non ha mai sanguinato. Per Jean Renoir, figlio di un pittore di genio, il problema era di non fare nulla che fosse indegno del nome che portava ed è noto che egli arrivò al cinema dopo aver rinunciato alla ceramica a suo giudizio troppo vicina alla pittura. Jean Vigo era, anche lui, figlio di un uomo celebre ma discusso, Miguel Almereyda, militante anarchico, morto in prigione in circostanze misteriose e oscure. Orfano sbattuto da un collegio all’altro sotto falso nome, Jean Vigo ha talmente sofferto che la sua opera risulta necessariamente più urtante. [...] Miguel Almereyda sposerà Emily Clero, giovane militante anarchica, che da una prima unione libera avrà cinque figli tutti morti in giovane età, uno di questi cadendo da una finestra. Nel 1905 essi metteranno al mondo il nostro Jean, Jean che nasce per vivere duramente, Jean che, restato orfano, si ritrova solo con l’unica eredità di una divisa del bisnonno paterno, Jean Vigo infine i cui film saranno appunto l’illustrazione fedele, divertente e triste, fraterna e affettuosa, sempre acuta, di questo motto: “Proteggo il più debole”.
Questo motto ci conduce al fondamentale punto in comune tra Vigo e Renoir: la loro passione per Chaplin. Le storie del cinema fanno poco caso alla cronologia dei film e alle influenze che i diversi cineasti hanno potuto esercitare gli uni sugli altri e mi è perciò impossibile dimostrare l’ipotesi, di cui però sono sempre stato convinto, che la costruzione di Zéro de conduite, la sua ripartizione con sottotitoli che commentano spassosamente la vita nel dormitorio, nel refettorio ecc., fosse molto influenzata da Tire au flanc (1928) di Renoir, direttamente ispirato a sua volta da Chaplin e più precisamente da Shoulder Arms (Charlot soldato, 1918). E ugualmente, come non pensare che ricorrendo a Michel Simon per L’Atalante Vigo avesse in mente la prova da lui fornita con Renoir in Boudu sauvé des eaux (1932) l’anno precedente?”

(François Truffaut, I film della mia vita, Marsilio, Venezia 2003)

“Non c’è un film piu feroce di questo. Chi lo colpì prima e dopo la sua uscita sapeva evidentemente quello che faceva. Zéro de conduite è un atto di sovversione allo stato puro, uno schiaffo potente e necessario a tutto ciò che gli adulti costruiscono in nome e per conto di quella categoria chiamata infanzia.
Jean Vigo lo visse sulla propria pelle, sulle macerie di un’esperienza diretta e traumatica della vita di collegio. Ma invano vi cercheremmo le cadenze nefaste della denuncia, o la cronaca spicciola, o la polemica sociale. Zéro de conduite azzera tutto questo e parte dalla vita. Dalla vita come desiderio. Che è proprio ciò che qualunque potere esclude, chiamando a difesa di se stesso quello che si definisce ordine, disciplina, educazione. Contro l’orrore di un mondo che vuole i figli a immagine dei padri, votati dalla nascita all’obbedienza e al conformismo, non c’è che l’arma dello sberleffo e del ridicolo. In nessun momento Vigo nasconde l’‘allegria’ dei suoi ragazzi, la loro capacità di seppellire con una risata i tetri fantocci che li vorrebbero sottomettere.
In questa coincidenza profonda della mente e del cuore sta il segreto dell’arte di Vigo, che gli aggettivi ricorrenti (anarchico, poetico, surreale, irriverente, trasgressivo, eversivo, lirico, maledetto...) non riescono a racchiudere in nessun catalogo. Altri se ne possono aggiungere: impietoso, crudele, tenero, ‘cattivo’. E mancherebbe un aggettivo solo, per dire quello che Vigo non è: indulgente. Nei ritratti dei suoi ragazzi non c’è infatti alcun partito preso, alcuna simpatia preconcetta. Vigo ama i suoi ragazzi, ma li sa anche odiare al momento giusto. Solo quando ne coglie la mancanza di libertà, trova in questa privazione la vera radice del male. E non cerca, né concede, attenuanti.”

(Gianni Amelio, Il vizio del cinema, Einaudi, Torino 2004)

ZERO DE CONDUITE (Zero in condotta, Francia, 1932), scritto, diretto e montato da Jean Vigo

“Se, dall’opera di Vigo, si dovesse scegliere per un’antologia una sola sequenza rappresentativa del suo stile, si dovrebbe prendere l’inizio di Zéro de conduite. Vi si trovano tre passaggi tipici della sua creazione. Si parte da modesti dati reali, pensati in ogni particolare (un compartimento di terza classe, dei collegiali con le divise usate e le gambe magre), per arrivare al fantastico (l'atmosfera fumosa dello scompartimento) passando per l’assurdo (gli oggetti e i giochi dei ragazzi). [...]
L’immagine si sposta verso destra per accompagnare un ragazzo fino al suo letto, poi in avanti per l’altro, e ritorna a sinistra verso il letto vuoto, per aspettare Colin che lo raggiunge subito di corsa.
Se dovessi indicare il più bel verso del poema Zéro de conduite, sceglierei questo rapido ritorno di Colin al suo letto dove l’aspetta, complice, la macchina da presa.
Le scene del dormitorio ci mostrano un Vigo in un momento di padronanza completa del mezzo cinematografico, docile al suo desiderio di esprimere la succosa intimità che è andato a ripescare nei suoi ricordi di infanzia. Qui, il montaggio, i movimenti della macchina, la composizione e il ritmo interno dell’immagine, i dialoghi, l’illuminazione, tutto è fuso in un’armoniosa unità che era senza dubbio quella dei suoi sogni più ambiziosi. [...]
Riconsiderando il film nel suo insieme, si può constatare come in Zéro de conduite siano presenti due mondi: da una parte quello dei bambini e del popolo, dall’altra quello degli adulti e della borghesia.
La scelta dei ragazzi non ha obbedito a nessun criterio di stilizzazione; essi rappresentano, realisticamente, la media dei ragazzi di un collegio povero di provincia. Sono per lo più magri, né belli né brutti, a volte un po’ sudici. Ma sono ragazzi uguali a tutti i ragazzi del mondo. I due adulti del popolo, la cuoca e il garzone del bar che asciuga i bicchieri per la festa, sono, in modo altrettanto realistico, una qualunque brava donna, o un qualunque giovanotto ben piantato. Il sorvegliante Huguet non è un vero e proprio adulto, la sua solidarietà con i bambini è totale.
Con gli altri personaggi siamo trasportati nel mondo dei fantocci, a cominciare dalle tre incarnazioni dell’autorità all’interno del collegio: il rettore, il sorvegliante generale Santt detto Bec-de-Gaz, e il sorvegliante Parrain detto Pète-Sec. Il grottesco che li caratterizza è proporzionale alla loro importanza”.

(Paulo Emilio Sales Gómes, Jean Vigo. Vita e opere del grande regista anarchico, Feltrinelli, Milano 1979)

“Film debitore del surrealismo e che colpisce ancora oggi per la poesia di alcune sue immagini, Zero in condotta è il prototipo di una serie di film d’ambiente scolastico giocati sul tema della rivolta alla gerarchia e alle istituzioni. Registi come François Truffaut ne I quattrocento colpi, Lindasy Anderson in Se... e Marco Bellocchio in Nel nome del padre vi si sono ispirati o, comunque, gli hanno reso esplicito omaggio. Centrale è così il tema della contestazione, che qui assume i modi di una rivolta anarchica e fine a se stessa, in cui si liberano giustamente le pulsioni represse per le ripetute ingiustizie subite mandando all’aria l’esistente, qualunque esso sia. In particolare la scena della rivolta in dormitorio trascende i limiti contestuali per farsi, attraverso le inquadrature rallentate dei ragazzini che marciano sotto una pioggia di piume, un’immagine fortemente simbolica di libertà e irrisione nei confronti dell’ordine borghese - che è poi il vero bersaglio del film dell’anarchico Vigo.
La ribellione si esercita nei confronti di una scuola rappresentata in modo grottesco - vedi ad esempio il rettore nano e barbuto - attraverso una serie di diverse figure di adulti e insegnanti che appaiono essere poco più che dei manichini (l’esatto contrario di quella vivacità rappresentata invece dai ragazzi) e il cui motto principale potrebbe essere: “Punire per prevenire”. A essi si contrappone uno stuolo di ragazzini che appaiono essere innanzitutto dei monelli scatenati - si veda il modo in cui riempiono di fumo di sigaro lo scompartimento del treno in cui hanno preso posto - e non certo delle vittime designate. Da questo punto di vista il film opera un’importante rovesciamento nella tradizionale rappresentazione dell’infanzia e della preado-lescenza in chiave apertamente smitizzante. Il mondo degli adulti è dunque condannato senza appello, con l’unica eccezione dell’insegnante Huguet. Relativamente giovane, svampito e un po’ poeta - vedi ad esempio la scena in cui conquista i ragazzi con l’imitazione di Charlot - Huguet sembra innanzitutto essere un adulto che non ha del tutto perso quei tesori dell’infanzia che ogni uomo dovrebbe sapere portare con sé sino alla fine. È nei fatti attraverso il suo personaggio che nel film si incarna il punto di vista dello stesso Jean Vigo.
Non va poi dimenticato come il film sia anche un paziente e a tratti crudele lavoro di memoria, in cui il regista - proprio come il Federico Fellini di Amarcord - ricostruisce quella che è stata la sua esperienza scolastica e nel far ciò conferisce all’opera tutti quei tratti di soggettività che spesso segnano simili operazioni - ancora una volta potremmo far riferimento all’appena citato film di Fellini - : modalità di rappresentazioni oniriche, effetti di ralenti, angolazioni accentuate, composizioni insolite del quadro, improvvisi primi piani, uso di filtri ecc. Importante anche il finale del film che non si chiude con la presumibile repressione della rivolta e l’inevitabile punizione, bensì nel bel mezzo della contestazione, coi ragazzi che ancora marciano sui tetti, letteralmente padroni del mondo”.

(Dario Tomasi, Aiace, Torino)

Jean Vigo (Parigi, 26 aprile 1905 - Parigi, 15 ottobre 1934) è stato un regista francese, da molti considerato uno dei massimi maestri del cinema, nonostante la sua breve vita, fu ritenuto dai più autore maledetto in virtù degli accostamenti agli scrittori Arthur Rimbaud e Louis-Ferdinand Céline che parte della critica fece.

Jean Vigo (Parigi, 26 aprile 1905 - Parigi, 15 ottobre 1934)

 

Una poesia al giorno

Hai nome, di Vicente Aleixandre

Il tuo nome,
giacché tu l’hai. La vita non è stata
altro che un nome. Lo so, e non esisto.
Un nome respirato non è un bacio.
Un nome che s’incalza sopra un labbro
non è il mondo, è sognarlo da ciechi.
Così sotterra respirai la terra.
Sopra il tuo corpo respirai la luce.
Nacqui dentro di te: perciò son morto.

Vicente Aleixandre (Siviglia, 26 aprile 1898 - Madrid, 14 dicembre 1984) è stato un poeta e autore spagnolo, premio Nobel per la Letteratura nel 1977 

Vicente Aleixandre (Siviglia, 26 aprile 1898 - Madrid, 14 dicembre 1984) è stato un poeta e autore spagnolo, premio Nobel per la Letteratura nel 1977.

 

Un fatto al giorno

26 aprile 1937: durante la guerra civile spagnola, Guernica è bombardata dall’aviazione militare tedesca, parte integrante della Wehrmacht durante il secondo conflitto mondiale.

“Il bombardamento di Guernica fu un'incursione aerea compiuta (sotto il nome in codice di Operazione Rügen) dalla Legione Condor con il supporto dell'Aviazione Legionaria, durante la guerra civile spagnola, che colpì duramente la città basca omonima il 26 aprile 1937.
La Legione Condor tedesca e l'Aviazione Legionaria italiana dichiararono ufficialmente di aver avuto come obiettivo dell'attacco il ponte di Rentería (19,5 m di lunghezza per 9,5 di larghezza), sul fiume Oca, per appoggiare gli sforzi bellici dei nazionalisti franchisti nell'offensiva in corso nella Biscaglia per rovesciare le sacche fedeli al governo della Repubblica Spagnola, bombe che il forte vento deviò sulla città (ma l'azione, in realtà, fu intenzionale). La città venne devastata, anche se miracolosamente l'Assemblea Basca e il Gernikako Arbola sopravvissero”.

(Wikipedia)

Affresco dedicato a Guernica di Pablo Picasso

“Guernica prosegue e approfondisce lo studio delta pittura attraverso gli strumenti specifici del linguaggio cinematografico e della letteratura, iniziato da Resnais con la serie delle "visite" ai pittori e con Van Gogh e Gauguin. Così, alla sceneggiatura in parte non riuscita del Gauguin per mancanza di una "voce" letteraria che costituisse un valido contrappunto evocativo all'immagine, Resnais provvede facendo intervenire durante l'elaborazione delta sceneggiature il poeta Paul Eluard, sulla base dei cui versi elabora un montaggio estremamente complesso. Con questo film termina la collaborazione con il gruppo "Les amis de l'art" e con Hessens. Con Braunberger Resnais girerà ancora in seguito Toute la mémoire du monde. Guernica è un film costruito con materiale composito: dalla lirica omonima di Eluard (adeguatamente allungata) a numerose tele, sculture e composizioni di Picasso (oltre, ovviamente, all'affresco dedicato a Guernica), a titoli di giornali in cui dominano le parole "fascismo", "guerra", sino a panoramiche su rovine fumanti e ad un muro coperto di graffiti e di segni di distruzione. Ma l'orientamento semantico del materiale converge sistematicamente sul tema della distruzione, della barbarie del fascismo. È una testimonianza del massacro fascista di Guernica, che aggredisce lo spettatore come uno choc e pone il problema della giustizia, della distruzione, del fascismo. Per Resnais si tratta di costruire non tanto un'opera di denuncia quanto un film-grido, capace di determinare nel fruitore una tensione emotiva violenta, vigorosa, tale da fargli percepire il massacro, la violenza, il fascismo come negazione. Così l'impianto ideologico del discorso - definito insieme dalla lirica di Eluard e dalla struttura compositiva dell'opera, dai materiali impiegati - ha un carattere morale, umanitario più che politico; non sviluppa un'analisi della politica fascista del massacro, ma cerca piuttosto di suscitare un rifiuto emotivo. E la struttura dell'opera è lirico-epica, si affida alla comunicazione dei sentimenti, piuttosto che alla conoscenza ed alla razionalità.”

(Paolo Bertetto in www.mymovies.it)

Alain Resnais (Vannes, 3 giugno 1922 - Parigi, 1º marzo 2014)

 

Una frase al giorno

“Che interesse c'è a studiare filosofia, se tutto quello che fa per voi è rendervi capaci di esprimervi in modo relativamente plausibile su alcune astruse questioni di logica ecc., e se questo non migliora il vostro modo di pensare le questioni importanti della vita di tutti i giorni, se non vi rende più consapevoli di un qualsiasi giornalista rispetto all'uso delle pericolose espressioni che persone di questa specie usano per i propri scopi?”

(Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Vienna, 26 aprile 1889 - Cambridge, 29 aprile 1951. E’ stato un filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio, e considerato da alcuni, specialmente nel mondo accademico anglosassone, il massimo pensatore del XX secolo).

Ludwig Josef Johann Wittgenstein (Vienna, 26 aprile 1889 - Cambridge, 29 aprile 1951)

 

Un brano musicale al giorno

Giorgio Moroder - From Here To Eternity (1977)

Giorgio Moroder - From Here To Eternity (1977)

Giovanni Giorgio Moroder (nato il 26 aprile 1940) è un cantante, cantautore, dj e produttore discografico italiano. A quattro volte vincitore del Grammy Award, Moroder è spesso accreditato come pioniere della discoteca Italo e della musica dance elettronica ed è soprannominato il "Father of Disco".
Quando a Monaco negli anni '70, iniziò la sua etichetta discografica chiamata Oasis Records, che diversi anni dopo divenne una suddivisione di Casablanca Records. Ha prodotto singoli per Donna Summer durante l'era disco della fine degli anni '70, tra cui "Love to Love You Baby", "I Feel Love", "Last Dance", "MacArthur Park", "Hot Stuff", "Bad Girls", "Dim All the Lights", "No More Tears (Enough Is Enough E)" e "On the Radio", ed è il fondatore degli ex Musicland Studios di Monaco, uno studio di registrazione utilizzato da molti artisti tra cui Electric Light Orchestra, Led Zeppelin, Queen ed Elton John.
Moroder ha anche composto la colonna sonora del film Midnight Express, che ha vinto un Golden Globe e un Academy Award, e ha contenuto il successo internazionale "Chase". Ha anche prodotto un certo numero di discoteche elettroniche per i Three Degrees, due album per Sparks, e una manciata di canzoni per l'album di Bonnie Tyler Bitterblue e il suo singolo del 1985 "Here She Comes". Nel 1990 ha composto "Un'estate italiana", la sigla ufficiale della Coppa del Mondo FIFA del 1990.
Ha creato una partitura di canzoni per molti artisti tra cui David Bowie, Kylie Minogue, Irene Cara, Janet Jackson, Madleen Kane, Melissa Manchester, Blondie, Giappone e Francia Joli. Moroder ha dichiarato che il lavoro di cui è più orgoglioso è "Take My Breath Away" di Berlino. Questa canzone e "Flashdance... What a Feeling" gli valsero il Golden Globe e l'Academy Award come miglior canzone originale rispettivamente nel 1986 e nel 1983. Nel 2004, è stato inserito nella Dance Music Hall of Fame.


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k