L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL PASSATORE (Italia, 1947), regia di Duilio Coletti. Soggetto: Bruno Corra. Sceneggiatura: Duilio Coletti, Federico Fellini, Tullio Pinelli. Produttore: Luigi Rovere, Dino De Laurentiis. Fotografia: Carlo Montuori. Montaggio: Mario Serandrei. Musiche: Enzo Masetti, dirette da Ugo Giacomozzi. Cast: Rossano Brazzi, Stefano Pelloni, detto Il Passatore. Valentina Cortese, Barbara Montanari. Carlo Ninchi, don Morini. Camillo Pilotto, conte Gigiazzo Ghilardi. Liliana Laine, contessa Isolina Ghilardi. Carlo Campanini, Peppino. Gualtiero Tumiati, padre del Passatore. Bella Starace Sainati, madre del Passatore. Giovanni Grasso, Lazzarini. Folco Lulli, Il Monco. Alberto Sordi, brigante, detto Innamorato. Carlo Tamberlani, Maresciallo Borghi. Pupella Maggio, Marta.
Romagna, anni quaranta dell'Ottocento. In un villaggio si sta per celebrare il matrimonio di Barbara Montanari. Il parroco, don Morini, che è anche suo zio, la sta aspettando sul sagrato della chiesa.
Quando tutti sono pronti per entrare, arriva all'improvviso Stefano Pelloni, detto Il Passatore, famoso in paese per essere una testa calda. Barbara ne è innamorata, ma lo zio ha deciso che è meglio per lei sposare un altro uomo. Stefano, accecato dalla gelosia, uccide il rivale in amore dopo una colluttazione. La sera fa visita a Barbara, che gli dichiara di essere sempre innamorata di lui. In quel momento ritorna il parroco. Lo sguardo di Stefano si incrocia con quello di don Morini, che gli chiede di pentirsi del delitto che ha commesso. Stefano si dà alla macchia.
In poco tempo mette in piedi una banda di malviventi che infestano i villaggi tra Faenza e Forlì. Uno dei suoi colpi più grossi lo mette a segno al teatro di Forlimpopoli, in occasione della prima della Didone abbandonata, quando deruba i presenti di ben 10 000 scudi. Tutti lo temono, meno il suo parroco, don Morini, che lo va a denunciare.
Ma il Passatore gli tende un agguato e lo uccide. Barbara, la nipote, giura di vendicarsi: scuote la popolazione del villaggio e chiede a tutti di armarsi. Sul Passatore c'è una taglia di 3000 scudi. Uno dei suoi cerca di tradirlo, ma viene scoperto subito da Stefano, che lo punisce duramente, ordinando di tagliargli una mano. Stefano, piuttosto che farsi catturare dai militari, preferirebbe farsi uccidere da un amico d'infanzia, Peppino. Va a parlargli e gli fa promettere che si farà uccidere da lui quando ne avrà abbastanza. Intanto a Forlì è giunto un nuovo maresciallo, Borghi, che ha deciso di catturarlo a tutti i costi. La banda di Stefano viene accerchiata sulle sponde del fiume Lamone: anche Barbara si è messa in cerca di Stefano, per ucciderlo personalmente.
Sulle tracce del Passatore è anche il Monco, l'ex bandito cui ha fatto tagliare la mano, che ora è passato dall'altra parte. In un attimo Barbara vede Stefano, ma non riesce ad ucciderlo e i due fanno la pace. Ma Barbara viene colpita per sbaglio dal Monco, il quale viene subito freddato dal Passatore. Barbara muore tra le braccia di Stefano.
Per Stefano non c'è più alcuna ragione per continuare a vivere: il brigante va da Peppino e gli chiede di mantenere la sua promessa. Il giorno dopo il suo corpo viene portato su un carretto attraverso tutti i paesi della Romagna.
“Per una storia d'amore Stefano Pelloni (1824-51) uccide lo zio prete della donna amata, si dà alla macchia e diventa il famoso "Passatore", temuto bandito nella Romagna dell'800, popolare anche per la sua generosità. Tratto da un romanzo (1920) di Bruno Corra e sceneggiato dal regista con Tullio Pinelli, Zavattini e Fellini, è un dramma nazional-popolare senza pretese di approfondimento storico, robusto nel ritmo e colorito nei personaggi, di una ingenuità non priva di scaltrezze con un Brazzi che in quegli anni era il divo n. 1 della provincia italiana in attesa di restituire il posto a Nazzari. Sordi nella piccola parte di un brigante.”
(In: trovacinema.repubblica.it)
- Il film: Il Passatore
4 agosto 1824 nasce Il Passatore, brigante italiano (morto nel 1851)
“La storia delle gesta più eclatanti e sanguinarie del Passatore copre il periodo che va dal 1842 al 1851; il 23 marzo 1851 Stefano Pelloni detto il Passatore muore a due passi da casa sua, in un campo del territorio di Russi, durante uno scontro a fuoco con un gruppo di militi. Aveva 27 anni.
La sua storia si svolge nella Romagna Pontificia tra le Legazioni di Ravenna e di Ferrara: Russi, Faenza, Cotignola, Bagnacavallo, il Brisighellese, Forlì, Bagnara, Lugo, San Pietro in Trento, Castel Guelfo, Longiano, Villafranca, S. Lorenzo in Selva, Sant'Arcangelo, Traversara, Consandolo di Argenta, Forlimpopoli, Bizzuno, Imola: questi i luoghi delle varie imprese.
La vita e le azioni del 'Passatore' sembrano la trama di un film western, ma invece che nel Far West siamo in Romagna, e i fatti di violenza sanguinaria che l’attraversa fa il paio ai film di Tarantino. Forse sarebbe il caso di spedire la sceneggiatura al noto regista, chissà non gli venisse voglia di farne un film.
Il primo film sul Passatore fu realizzato nel 1947 con la regia di Duilio Coletti. La storia romanzata di Stefano Pelloni, tradotta sullo schermo da Coletti, continuava il genere dei film storico-popolari da lui precedentemente diretti, quali Il fornaretto di Venezia (1938), Capitan Fracassa (1940), La maschera di Cesare Borgia (1941), ecc.
Rossano Brazzi fu l'interprete poco credibile del Passatore. Troppo delicato e raffinato per essere un bandito rozzo e analfabeta che non conosceva altra lingua se non il dialetto romagnolo. Il film, sostenuto da un cast di eccezione (oltre a Brazzi, un folto gruppo dei migliori attori del nostro cinema: Valentina Cortese, Carlo Ninchi, Camillo Pilotto, Carlo Campanini, Folco Lulli, Alberto Sordi, Carlo Tamberlani, Memmo Carotenuto, Enrico Luzi, Gualtiero Tumiati, ecc.), è vedibile se non lo si prende sul serio, se ci si dimentica, cioè, che il personaggio cui è dedicato è effettivamente vissuto. Il continuo riferimento a luoghi e città della terra del ravennate, che solo nei due casi sono veramente quelli in cui il Pelloni può essere passato nella sua breve e scellerata vita, non deve trarre in inganno; come pure le bravate al teatro di Forlimpopoli, una fantasiosa ricostruzione fatta - dopo aver scartato l'idea di riallestire il Teatro di Russi inagibile da alcuni anni - in teatro di posa a Roma.
Un particolare curioso, che avvalora ancora di più la scarsa attendibilità storica del film, è dato dal fatto che il personaggio del bandito Penzavolta detto l'«Innamorato», è interpretato da Alberto Sordi, doppiato da Carlo Romano: che usa uno strano connubio di linguaggi, un misto di romagnolo (o meglio, bolognese) e romanesco!”
(In: alfonsinemonamour.racine.ra.it)
“Il Passatore, pseudonimo di Stefano Pelloni (Boncellino di Bagnacavallo, 4 agosto 1824 - Russi, 23 marzo 1851), è stato un brigante italiano, attivo nella Romagna di metà Ottocento. Fu ucciso nel marzo 1851 nei pressi di Russi dal sussidiario della Gendarmeria pontificia Apollinare Fantini. Il soprannome gli venne dal mestiere di traghettatore (o "passatore") sul fiume Lamone esercitato dal padre Girolamo; viene chiamato anche Malandri, dal cognome della donna che sposò un suo bisavolo.
Stefano Pelloni nacque nel 1824 a Boncellino di Bagnacavallo, paese nella Bassa Romagna, a una decina di chilometri da Ravenna. Frequentò in gioventù una scuola privata, che tuttavia abbandonò alla terza elementare, dopo alcune bocciature.
Evaso durante un trasferimento ad Ancona, dove avrebbe dovuto scontare una condanna a quattro anni di lavori forzati nella risistemazione della nuova darsena per il furto di due fucili da caccia, più altri tre anni di detenzione per la fuga dal carcere di Bagnacavallo, e datosi alla macchia, entrò a far parte di un gruppo assai variabile come consistenza e zone d'azione, del quale (come uso tra i briganti dell'epoca) egli non divenne il vero capo, ma un'importantissima figura di riferimento.
Il gruppo divenne in breve una banda sempre più numerosa, audace, agguerrita e capace di efferatissime violenze, che operò per tre anni nelle Legazioni Pontificie, tenendo in scacco la gendarmeria grazie a una vasta rete di spie, informatori, protettori, ricettatori e addirittura uomini delle forze dell'ordine. Utili anche le connivenze con la popolazione più povera, ricompensata, come sempre fanno i banditi che si comprano appoggi, con i proventi dei suoi furti e rapine. Furono queste elargizioni che contribuirono a creare la sua fama di "Robin Hood" romagnolo.
In realtà i comportamenti del Passatore sono da considerarsi quelli tipici di un criminale che gratuitamente seminava violenza e uccideva con sadismo: è stato, ad esempio, l'unico brigante dell'Ottocento ad aver sezionato alcune vittime. In un caso il Pelloni sparò a sangue freddo a un uomo semplicemente perché uno dei suoi aveva insinuato che si trattasse di una spia.
Un modus operandi caratteristico della banda, inizialmente attiva nei boschi di Brisighella, era la "firma" dei propri delitti: a suggello del misfatto compiuto il Pelloni dichiarava a voce alta il proprio nome e soprannome: «Stuvanèn d'ê Pasadôr» (Stefano (figlio) del passatore), come caratteristico era anche lo scherno verso il potere con cui spesso erano concepite le azioni.
Delle sue gesta, quelle che seminarono il terrore furono le vere e proprie occupazioni militari di interi paesi - Bagnara di Romagna (16 febbraio 1849), Cotignola (17 gennaio 1850), Castel Guelfo (27 gennaio 1850), Brisighella (7 febbraio 1850), Longiano (28 maggio 1850), Consandolo (9 gennaio 1851) e Forlimpopoli (sabato, 25 gennaio 1851) - durante le quali metteva a sacco le abitazioni dei più ricchi, che venivano torturati e seviziati (e in alcuni casi assassinati) per farsi rivelare i nascondigli degli scudi e delle gioie.
Tra tutte, rimase tristemente famosa l'occupazione di Forlimpopoli, avvenuta nella notte del 25 gennaio 1851. Durante l'intervallo di una rappresentazione, i briganti penetrarono nel Teatro Comunale (oggi teatro Verdi): saliti sul palcoscenico, puntarono le armi contro gli spettatori terrorizzati e, facendo l'appello, rapinarono uno ad uno gli spettatori presenti in sala. Fra le famiglie rapinate vi fu anche quella di Pellegrino Artusi. A raccolto concluso, gli efferati banditi stuprarono alcune donne, e tra queste Gertrude, sorella dell'Artusi, la quale impazzì per lo choc. La vicenda al Teatro di Forlimpopoli divenne talmente popolare da essere cantata per decenni dai cantastorie.
La notizia causò apprensione nelle località della Romagna toscana prossime alla frontiera, perché i briganti sfuggivano all'inseguimento delle truppe pontificie nascondendosi sulle montagne toscane dove il governo granducale, nonostante gli accordi di collaborazione presi con le autorità pontificie, era più tollerante nei confronti di questi soggetti, che classificava come "facinorosi pontifici".
Lo stesso Artusi riconobbe fra gli aggressori don Pietro Valgimigli detto "don Stiffelone", parroco di San Valentino presso Tredozio, loro fiancheggiatore e manutengolo; presenza confermata da altre testimonianze che lo davano "in intelligenza colla banda fino da quando era capeggiata dal Passatore, essendo stato al fatto a Forlimpopoli".
Nella sua biografia è ricordata anche l'incursione che fece nel settembre 1849 a Cascina Mandriole, ove nell'agosto era morta Anita Garibaldi. Il brigante vi fu attirato dalle dicerie locali, secondo le quali Stefano Ravaglia, che aveva ospitato Garibaldi e consorte, e seppellito Anita alla sua morte, fosse in possesso di una somma di denaro, in oro e carta valute, ricevuta dallo stesso generale. La famiglia del Ravaglia fu torturata per estorcere la confessione sul presunto nascondiglio del tesoro. Giuseppe, fratello di Stefano, fu ucciso.
L'attività del Pelloni terminò tragicamente nel marzo 1851. Grazie ad una segnalazione, "Stuvanèn d'ê Pasadôr" fu individuato dalla Gendarmeria Pontificia in un capanno di caccia del podere Molesa, nei pressi di Russi, rimanendo ucciso nello scontro a fuoco che ne seguì. Il suo cadavere fu messo su un carretto ed esibito per tutte le strade della Romagna, a dimostrazione dell'effettiva fine del brigante e per evitare l'insorgere di eventuali future leggende sulla sua morte.
Il cadavere venne poi seppellito presso la Certosa di Bologna in luogo sconsacrato.
Le sue imprese, in una Romagna interessata dalla lotta di classe, ispirarono la musa popolare della rievocazione orale (che enfatizzò la sua generosità, divenuta leggendaria) e quella colta, da Arnaldo Fusinato a Giovanni Pascoli (che nella poesia Romagna idealizzò la sua figura evocandolo, appunto, come il Passator Cortese).”
(In wikipedia.org)
Una poesia al giorno
Ozymandias, di Percy Bysshe Shelley
I met a traveller from an antique land,
Who said - “Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert… Near them, on the sand,
Half sunk a shattered visage lies, whose frown,
And wrinkled lip, and sneer of cold command,
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them, and the heart that fed;
And on the pedestal, these words appear:
My name is Ozymandias, King of Kings;
Look on my Works, ye Mighty, and despair!
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal Wreck, boundless and bare
The lone and level sands stretch far away.”
Ozymandias (traduzione in www.poesiedautore.it)
Incontrai un viandante di una terra dell'antichità,
Che diceva: “Due enormi gambe di pietra stroncate
Stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:
E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null'altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”.
“Ozymandias è un sonetto di Percy Bysshe Shelley (Horsham, Regno Unito, 4 agosto 1792 - Lerici, Italia, 8 luglio 1822) scritto nel 1817, pubblicato per la prima volta nella rivista Examiner l'11 gennaio 1818, successivamente inserito nella raccolta dell'autore Rosalind and Helen, a modern eclogue with other poems nel 1819. È uno dei più famosi poemetti dello scrittore romantico, e uno degli esempi più illuminanti del filone politico di questo movimento letterario.
In aggiunta alla potenza di temi e immagini, la poesia si distingue per il virtuosismo nella dizione. Lo schema delle rime del sonetto è insolito: ABAB ACDC EDE FEF.
Il tema centrale di Ozymandias è l'inevitabile declino degli uomini di potere e dei loro imperi, per quanto grandi e potenti potessero essere stati.
Ozymandias era infatti un soprannome di Ramsete II, faraone della diciannovesima dinastia dell'Antico Egitto. Il soprannome proviene da una traslitterazione in greco di una parte del nome regale di Ramesse, User-maat-re Setep-en-re.
Il sonetto interpreta la traduzione di Diodoro Siculo dell'iscrizione alla base della statua, in cui Ramesse solleciterebbe, per aiutare chi chiedesse chi fosse e che cosa mai avesse fatto, di portare come prova la grandezza delle sue opere.
Scrive in realtà Diodoro Siculo: «Ἐπιγέγραφθαι δ' ἐπ' αὐτοῦ· «Βασιλεὺς βασιλέων Ὀσυμανδύας εἰμί. Εἰ δέ τις εἰδέναι βούλεται πηλίκος εἰμὶ καὶ ποῦ κεῖμαι, νικάτω τι τῶν ἐμῶν ἔργων».»
«Si trova scritto su di essa: «Sono Osimandia, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese».»
Il sonetto celebra l'anonimo scultore e la sua opera artistica, mentre Shelley visita virtualmente le rovine di una potenza passata per trarne una composizione musicale e compatta, imperniata sul racconto di un viaggiatore riguardo lontane e distanti rovine nel deserto. "Le solitarie e piatte sabbie" che si stendono nell'orizzonte, e circondano la statua sradicandola dall'imponente costruzione che Diodoro descrive, suggeriscono probabilmente un vuoto causato da un abuso di potere di cui "nulla accanto rimane"; infatti per quanto grandi siano le opere di Ramesse, il tempo le cancella lentamente, come svanito nel nulla è il suo impero, e Shelley sembra appunto rivolgere lo stesso monito agli imperi a lui contemporanei.
Si dice che Shelley avesse preso ispirazione dall'arrivo a Londra di una grandissima statua di Ramesse II, acquisita per conto del British Museum dal pioniere dell'Egittologia Giovanni Belzoni nel 1816.
Gli studiosi Rodenbeck e Chaney, tuttavia, mettono in evidenza che la poesia fu scritta e pubblicata PRIMA dell'arrivo della statua in Gran Bretagna, per cui era impossibile che Shelley l'avesse vista; in realtà la fama della statua ne aveva preceduto lo sbarco nel Regno Unito; (Napoleone, per esempio, aveva in precedenza tentato di acquisirla per la Francia) e pertanto avrebbe potuto essere la sua fama o la notizia del suo imminente arrivo a ispirare l'autore. Altre fonti indicano che invece potrebbe essere stata l'educazione classica (in cui di certo lo studio di Diodoro faceva parte dell'insegnamento del greco) ad ispirare Shelley, ed anche Smith, la cui versione del sonetto è riportata più sotto.
Tra i significati arcaici di "to mock" è "fare una imitazione della realtà", ma nel sonetto è il significato più moderno di "ridicolizzare" (specialmente parodiando) ad essere preferito nell'interpretazione.
Il sonetto è spesso citato o riprodotto scorrettamente, in particolare il verso XI dove si legge "Look on my works, ye Mighty, and despair!" il cui "on" è rimpiazzato con "upon", trasformando il verso decasillabo (pentametro giambico) in un endecasillabo.”
(In wikipedia.org)
“Nato a Field Place il 4 agosto 1792 presso Horsham, nel Sussex, di antica famiglia nobile, Percy Bysshe Shelley (morto nel luglio 1822) fu educato ad Eton (dove lo soprannominarono «mad Shelley») e a Oxford, donde fu espulso nel 1811 per un suo opuscoletto agnostico di quattro pagine suggeritogli dall’amico Hogg, The Necessity of Atheism; s’alienò la famiglia per questa espulsione, e per il matrimonio con la sedicenne Harriet Westbrook, da cui si separò dopo tre anni di vita vagabonda durante i quali compose Queen Mab, a philosophical poem, e tentò di far propaganda rivoluzionaria in Irlanda.
Per le sue idee sovversive era entrato in rapporti con William Godwin che venerava come maestro; con la figlia del filosofo, Mary Wollstonecraft, fuggi sul Continente (1814); con lei si unì in nuove nozze, dopo che l’abbandonata Harriet si fu tolta la vita (1816). Tiratasi addosso per le idee e la condotta la scomunica della società inglese, nella primavera del 1818 lo Shelley abbandonava l’Inghilterra per l’Italia, «paradiso degli esuli».
Nei più bei luoghi d’Italia, all’aria aperta, lo Shelley compose il meglio della sua opera poetica: il dramma lirico Prometheus Unbound (pubbl. 1820) sulle terrazze della Villa Cappuccini ad Este e nelle Terme di Caracalla, la tragedia The Cenci (pubbl. 1819) a Villa Valsovano a Livorno, le più belle liriche alle Cascine di Firenze (l’Ode to the West Wind), nelle pinete della Versilia, nei prati di San Giuliano presso Pisa, sulle cime dei Colli Euganei, e il Triumph of Life, l’ultimo poema, in una barca nel golfo di Spezia.
Avendo raccolto l’eredità del nonno, il poeta non aveva più preoccupazioni pecuniarie, e poteva vivere ove più con venisse alla sua salute (lo minacciava l’etisia): i suoi soggiorni più lunghi furono a Napoli (la proclamazione della Costituzione del 1820 gl’ispirò l’Ode to Naples), a Livorno e a Pisa, dove lo raggiunse il Byron. Una passione platonica per la contessina Emilia Viviani gli fece scrivere il poemetto Epipsychidion; un’altra amicizia amorosa, per Jane, moglie dell’amico Williams, gli suggerì alcuni dei versi più aerei, To Jane: the Recollection; delineò il proprio ritratto, a contrasto con quello di Byron, nei couplets di Juliano and Maddalo (1818); pianse la morte del Keats nell’elegia Adonais in stanze spenseriane.
Nell’aprile del 1822 gli Shelley, i Williams, e il Trelawny si stabilirono a Villa Magni, tra Lerici e San Terenzo, sul golfo di Spezia: tornando da una gita a Livorno in barca a vela, naufragò in una tempesta (8 luglio 1822): dieci giorni dopo il cadavere del poeta fu trovato sulla spiaggia presso Viareggio e quivi arso alla presenza di Byron e di Leigh Hunt. Le ceneri furono seppellite nel Cimitero Protestante di Roma, presso la Piramide di Cestio.
Come d’altri poeti di cui ci siamo venuti occupando, l’anima di Shelley era ricca di contrasti. Un sognatore, un utopista, un ideatore di progetti impossibili, che poi scrive operette piene di buon senso come A Proposal for putting Reform to the Vote throughout the Kingdom (1817) e A Philosophical View of Reform, che gli meritano un posto tra i precursori del socialismo (e tale lo considerava Marx). Un agnostico che scrive, sia pure sotto l’influsso d’un amico, The Necessity of Atheism, e vi contraddice con le sue convinzioni sentimentali, col suo persistente atteggiamento d’apostolo semi-demonico di Gesù, il più patetico degli apostoli, che soltanto la chiesa di Auguste Comte avrebbe potuto santificare...”
(Leggi l’articolo completo di Mario Praz in: lafrusta.homestead.com. Tratto da “La letteratura inglese dai romantici al Novecento”, Accademia, Milano 1968)
Un fatto al giorno
4 agosto 1972: attentato all'oleodotto della SIOT, un'azione terroristica perpetrata da Settembre Nero contro i serbatoi di stoccaggio del petrolio greggio situati presso la località di Mattonaia, a San Dorligo della Valle (TS).
“L'attentato all'oleodotto della SIOT del 4 agosto 1972 fu un'azione terroristica perpetrata contro i serbatoi di stoccaggio del petrolio greggio situati presso la località di Mattonaia, a San Dorligo della Valle (TS). La prima delle cariche esplosive all'oleodotto transalpino che da Trieste pompa greggio sino ad Ingolstadt, in Baviera, brilla alle 03:15 del mattino ma, a causa dell'errato posizionamento della carica di tritolo sulla valvola della conduttura attraverso la quale passa il greggio proveniente dai pontili del vallone di Muggia ove attraccano le navi, il cilindro di contenimento del serbatoio n. 44, il più vicino alla città e contenente 31.531 m³ di combustibile, regge all'esplosione. Nel frattempo, udito il boato, vengono allertati i vigili del fuoco che giungono anche da altre località del Friuli Venezia Giulia e persino da Veneto e Lombardia. Alle 03:25 è la volta della cisterna n.11 con 69.000 m³ di liquido infiammabile, alle 03:30 salta pure il serbatoio n. 54, anch'esso con 69.000 m³ di prodotto e, immediatamente dopo, alle 03:16, tocca anche alla cisterna n. 21 con invece soli 1.534 m³ di petrolio. A quel punto i tecnici della SIOT attuano il piano d'emergenza iniziando a svuotare tutti i serbatoi di stoccaggio, pompando verso Ingolstadt più greggio possibile per evitare il pericolo di nuove esplosioni. Tuttavia nel pomeriggio, per contagio, l'incendio coinvolge anche il serbatoio n. 55. Le fiamme sono alte 150 m e le colonne di fumo, visibili a centinaia di chilometri di distanza, raggiungono un'altezza di circa 6 km; fortunatamente solo l'assenza di bora, unita al bel tempo, impediscono un ulteriore propagarsi delle fiamme e il fenomeno delle piogge acide. Il 6 agosto 1972, con un dispaccio da Damasco, i fedaìn rivendicano l'attentato, per domare gli incendi ci vorranno 4 giorni, vanno in fumo circa 160.000 tonnellate di petrolio greggio.
In primo grado di giudizio, per tale azione, sono condannati, in contumacia, a 22 anni di carcere gli appartenenti e simpatizzanti di Settembre Nero: Mohamed Boudia (mente ed organizzatore del gruppo, in seguito ucciso il 28 giugno 1973 con una bomba posta sotto il sedile della sua auto, forse dal Mossad come obiettivo dell'operazione Ira di Dio), Chabane Kadem entrambi algerini; e le due "pasionarie" francesi Marie-Thérèse Lefebvre (l'autista del commando) e Dominique Jurilli (o Iurilli); pena poi ridotta in appello a soli 6 anni, derubricando l'accusa di tentata strage in quella di semplice incendio doloso e con l'assoluzione da quella di associazione per delinquere. Tuttavia nessuno di loro scontò mai nemmeno un solo giorno di carcere.
L'esplosione e la combustione del petrolio provocò notevoli problemi di inquinamento atmosferico. Inoltre, i terreni contaminati dalle fuoriuscite di greggio furono scavati e gettati nel Pozzo dei Colombi, una profonda grotta in località Basovizza, nel comune di Trieste, causando l'inquinamento del sottosuolo.”
(In: wikipedia.org)
“Sono le 3.00 del 4 agosto 1972, la notte sta trascorrendo tranquilla nella piana di San Dorligo della Valle, dove contro il cielo ancora scuro si stagliano i grandi serbatoi della Raffineria “Aquila”, un complesso che comprende 24 cisterne che contengono complessivamente oltre un milione e mezzo di liquido oleoso ai bordi del grande golfo di Trieste. Lì attraccano le navi cisterne che portano il gasolio che dovrà essere trasformato in benzina o immesso del lungo oleodotto che va verso l’Austria e la Baviera.
Alle 3.15 un boato scuote la città, non è molto forte (si saprà più tardi che la sistemazione dell’esplosivo non è stata fatta a “regola d’arte”) ma il bagliore viene notato e più di qualcuno dopo una decina di minuti telefona ai Vigili del Fuoco per spiegare che laggiù, in direzione sud est della città, c’è del bagliore, “forse una sterpaglia in fiamme”. Appena il tempo di iniziare a prendere posto a bordo di un’autobotte e altre esplosioni si succedono: i boati sono seguiti da lunghe e possenti fiamme che portano verso il cielo cumuli di fumo nero e bianco che raggiungerà fino i 4.000 metri di quota. Alle 3.25 infatti salta il serbatoio n. 11 (69.000 mc di petrolio), alle 3.30 è la volta del serbatoio n. 54 anch’esso con la stessa quantità ed un minuto più tardi il serbatoio n. 21 con soli 1.534 mc di combustibile conclude il ciclo. Il primo serbatoio che non è saltato, il n. 44 contiene 31.531 mc di liquido infiammabile, è il più vicino alla città, a poche decine di metri dagli altri impianti da quella che è definita “zona industriale” con gli Uffici della Dogana e la Caserma della Guardia di Finanza. Il pericolo è altissimo perché i tre serbatoi in fiamme potrebbero dare inizio ad un tragico susseguirsi di altri incendi, contaminando il cielo del capoluogo giuliano e causando danni e vittime. I Vigili del Fuoco, prontamente accorsi con tutti i messi a disposizione, non possono fare altro (ma è già tanto e molto pericoloso) che lasciare bruciare il petrolio e cercare di contenere e proteggere gli altri serbatoi, mentre si mette in atto l’Oil Alarm Plan che prevedeva il pompaggio di tutto il greggio contenuto nei serbatoi non attaccati dalle fiamme verso la Baviera. Nel sopralluogo immediatamente successivo vengono trovate quattro aperture che consentono di dare conferma della prima ipotesi di sabotaggio, suggerendo la presenza di quattro gruppi di attentatori. Dopo indagini anche internazionali verranno individuati e condannati - in contumacia - a 22 anni per atto di terrorismo, ma al processo di Appello la pena verrà ridotta perché da terrorismo si passerà all’accusa di “incendio doloso” e a questo punto dobbiamo dare atto all’autore di “IL GRANDE FUOCO - 4 agosto 1972: l’attentato all’oleodotto di Trieste” (Giuliano Sadar, caposervizio alla sede RAI del Friuli Venezia Giulia, autore di una memorabile biografia del Paron Nereo Rocco) del grande lavoro svolto nel rievocare un attentato che per varie ragioni, prima fra tutte forse anche la mancanza fortunatamente di vittime, toglie un velo - più che un velo una pesante coperta - su una vicenda italiana di quei lontani anni che videro pesantemente coinvolti i cosiddetti “servizi”, personaggi anche importanti, organizzazioni come “Settembre Nero”, “Al Fatah” e tante altre di ogni Paese basandosi su documenti dell’epoca (la bibliografia al riguardo è imponente).”
(Carlo d’Agostino in: www.masedomani.com)
“Molti triestini ricorderanno la mattina del 4 agosto 1972 quando, affacciandosi alla finestra, videro il cielo sopra la città oscurato da due enormi colonne di fumo simili a un fungo atomico. Sono passati 43 anni, e l’attentato di Settembre nero al deposito costiero della Siot è finito negli archivi della memoria come uno di quei momenti in cui la grande storia inciampa nella piccola città di confine, città che per altro che con la storia ha sempre mantenuto conti aperti. Un fatto in fondo marginale, qualcosa che comunque andava oltre Trieste, anche se connotava un ruolo - allora - strategico per il capoluogo.
Dopo quattro anni di indagini, per quell’attentato verranno condannati in contumacia a 22 anni di carcere ciascuno per concorso in strage due donne francesi, Dominique Jurilli e Marie Therese Lefebvre, insieme all’algerino Chabane Kadem. La mente del gruppo di fuoco, Mohamed Boudia, invece, sarà ucciso un anno dopo l’attentato dal Mossad. Nessuno dei condannati scontò mai un giorno di carcere, anche perché - forse pochi lo ricordano - in appello una clamorosa sentenza ridusse le pene da 22 a sei anni, assolvendo tutti i terroristi dal reato di associazione a delinquere e derubricando l’accusa di strage in “incendio doloso”. Ecco, è qui, a partire da questa sentenza, che l’attentato di Trieste esce dai cassetti delle memorie “a latere” per diventare cifra esemplare e punto di snodo di una verità storica che allunga i suoi riflessi fino ai nostri giorni, e illumina l’antica consuetudine dei governi e della politica italiana di scendere a patti con terrorismo e criminalità pur avere vita facile e, soprattutto, conservare il potere anche a scapito degli interessi del Paese.
L’attentato alla Siot, in definitiva, è una delle tante «storie di terrorismi sempre condannati, ma da sempre concreto strumento di politica internazionale». È questa la conclusione cui giunge Giuliano Sadar nel suo documentato e appassionante libro “Il grande fuoco - 4 agosto 1972: l’attentato all’oleodotto di Trieste” (MgsPress, pagg. 230, euro 18,00).
Il magistrato Rosario Priore, nell’introduzione al volume, ricorda che, «vista da Oriente, in particolare da quel Medio Oriente in ebollizione per la questione palestinese, Trieste era il luogo ideale da colpire». E così accadde, con modalità e in un contesto che Sadar ricostruisce nel dettaglio, ampliando lo sguardo ben oltre i confini del Nord-Est, e in anni in cui il terrorismo in Europa e nel mondo era così diffuso, radicato, efficace da far quasi apparire i fanatici dell’Isis dei dilettanti. I collegamenti fra settembre nero, Avanguardia nazionale, la banda Baader-Meinhof, l’eversione di destra e di sinistra: era un intreccio fitto, e fruttifero, orbitante - ieri come oggi - intorno al buco nero del petrolio, «vero e solo protagonista di questa storia», nota Sadar.
Una minaccia costante di fronte alla quale l’Italia scese a patti, varando il Lodo Moro, il patto segreto - firmato appunto da Moro - fra i nostri servizi segreti e i terroristi palestinesi, che dava agli islamici il via libera per far passare attraverso il nostro Paese quintali di armi destinate a cellule terroriste sparse in tutto il continente e, in aggiunta, garantiva la liberazione dei prigionieri palestinesi. In cambio, i terroristi non avrebbero colpito gli italiani, ebrei a parte. “Il grande fuoco” racconta tutto questo, e altro ancora, gettando uno sguardo inquietante su un momento di svolta della storia d’Italia.”
(Pietro Spirito in: ilpiccolo.gelocal.it)
“… Sei anni di carcere per incendio doloso in appello, dopo che in primo grado arrivarono addirittura 22 anni per tentata strage. Poco importa. Nessuno, né Lefevbre, né Iurilli, né l’algerino Chaban Kadem, né gli altri presunti partecipanti all’azione mai individuati (erano almeno 8 secondo il giudice istruttore) né i presunti fiancheggiatori italiani, men che meno l’organizzatore dell’attentato Mohamed Boudia, pezzo grosso del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina poi ucciso nel giugno 1973 dal Mossad, si sono fatti un giorno di prigione in Italia. Nessuno era presente al processo, primo grado dicembre 1977, appello giugno 1977, procedimenti che i giornali dell’epoca titolarono come “Processo alle ombre”. Dopo le sentenze, su quell’attentato di Settembre Nero, prima azione palestinese su suolo italiano, e dopo l’estrema protezione accordata alle persone coinvolte dalle autorità giudiziarie (e politiche) francesi, scese il silenzio. Anche su Dominique Iurilli, studentessa e attrice di teatro a tempo perso, frequentatrice dei corsi tenuti al Teatro parigino dell’Ovest di Mohamed Boudia, coinvolta in questa storia dal supertestimone Lamri Bouadiche. E non è un caso neppure questo, dato che Trieste 1972 aprì la serie di attentati che un anno e mezzo dopo portarono all’accordo fra governo italiano e organizzazioni palestinesi, noto oggi come Lodo Moro: in parole povere l’accordo concedeva possibilità per i palestinesi di portare armi su e giù per il territorio nazionale, in cambio della promessa di non eseguire più attentati in Italia e di mettere una buona parola con i paesi arabi produttori di petrolio. Roba indicibile, allora, e anche oggi vissuta da alcuni con un certo mal di pancia. Si veda per esempio le reazioni alla pista palestinese sulla strage di Bologna. Roba che giustificava la trasformazione in “ombre” dei protagonisti delle azioni. O così fu, per decenni.
Oggi siamo però venuti a scoprire che sotto il lenzuolo di uno dei fantasmi, si celerebbe una persona in carne e ossa. Una giornalista, Dominique Bari.
Dominique Bari, già Iurilli, ha lavorato in tutti questi anni all’Humanité, il potentissimo (un tempo) giornale del Partito Comunista Francese. Sposò nel 1983 - quindi quattro anni dopo la sentenza di appello che neppure scalfì i condannati - Jean-Émile Vidal, anch’egli giornalista militante all’Humanité, prestigioso corrispondente dell’Estremo Oriente e vicino al Partito Comunista. I due hanno avuto una figlia. Dopo la pensione, Vidal è tornato in Asia con Dominique che a sua volta è diventata corrispondente per l’Humanité da Pechino dal 1988 al 1993. Dominique Iurilli Bari è sopravvissuta al marito, scomparso nel 2002, e sino a oggi ha continuato a scrivere di Estremo Oriente come notista politica di spessore.
(In: www.humanite.fr)
Il ruolo di Dominique Iurilli nella storia dell’attentato di Settembre Nero alla Siot non è stato chiarito, e appare più defilato di quello di Marie Therese Lefebvre che, a differenza di Iurilli, prese parte anche alle azioni in Olanda e, nell’autunno di quel 1972, all’omicidio del giornalista siriano Khannou Khor, considerato informatore degli israeliani. La sua presenza a Venezia è piena di buchi neri, e della Fiat 850 che avrebbe secondo Lefevbfre noleggiato non c’è l’ombra di un documento. Lei ha sempre negato tutto, e il confronto del 1974 con Lefevbre ha davvero i crismi del teatro dell’assurdo: "io non sono quella che dite, anche Lefevbre afferma che io non sono quella, anche se è vero che conosco Boudia ed è vero che frequentavo il suo teatro. Marie Therese Lefevbre, per chiudere il cerchio, aveva dichiarato che la Dominique Iurilli che aveva conosciuto a Venezia, non era la Dominique Iurilli che aveva lì davanti in questura bensì un’altra persona. Che comunque gli era stata presentata da Boudia come giovane aspirante attrice che frequentava il suo teatro".
Rimane il fatto che la verità giudiziaria dice che è stata condannata come partecipante all’attentato di Trieste. Per quel che riguarda la verità storica, essendo passato ormai mezzo secolo da quella storia, sarebbe interessante che la signora racconti qualcosa. Magari anche per chiarire o smentire il suo ruolo.
L’informazione è arrivata grazie all’aiuto di un olandese interessato a queste vicende, che ringrazio vivamente. Suo padre lavorava alla stazione di compressione e miscelazione di gas a Ravenstein, nei Paesi Bassi, oggetto il 6 febbraio 1972 assieme alla stazione di Ommen, quindi cinque mesi prima di Trieste, dei due attentati dinamitardi, cui parteciparono Marie-Therese Lefevbre e Lamri Bouadiche, l’uomo che poi vuotò il sacco sull’attentato di Trieste.”
(In ilfuocoeilsilenzio.wordpress.com)
Immagini:
- 4 agosto 1972 - Attentato all'oleodotto a Trieste
- ATTENTATO ALL'OLEODOTTO - TRIESTE di Piero Dolzani
Una frase al giorno
“La mia eccitazione per la vista del primo film a colori è stata molto simile a quella di quando vidi per la prima volta un aeroplano alzarsi in volo. Vivevo da contemporaneo e testimone un progresso della civiltà umana”
(Béla Balázs, 1924. Da “L'uomo visibile”, a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino, 2008, trad. it. di Sara Terpin)
“Balázs, Béla, pseudonimo di Hermann Bauer, scrittore, teorico del cinema e sceneggiatore ungherese, nato a Szeged il 4 agosto 1884 e morto a Budapest il 17 maggio 1949.
Con capillare completezza affrontò nei suoi testi tutti i problemi connessi all'immagine filmica, ritornando più volte sugli stessi concetti e riuscendo a modularli con preziose variazioni formali, riadattando gli argomenti ai contesti cambiati, ponendo in scena il tessuto problematizzato della sua logica in progress. Adottando una prospettiva antropologico-culturale, fu il primo tra i teorici a rilevare la condizione rivoluzionaria di un'arte, quella cinematografica, nata sotto gli occhi degli studiosi. Con i suoi contributi impose un rovesciamento del punto di vista tradizionale in virtù del quale l'estetica non veniva più chiamata a legittimare lo statuto d'arte del cinema, ma a riconsiderare, proprio per l'affermarsi del cinema stesso e sulla base dell'analisi delle sue peculiari caratteristiche, tutte le altre arti.
Cosmopolita per vocazione, convinto di non appartenere a nessuna nazione e sentendosi fondamentalmente europeo, si laureò in lettere e partecipò alla Prima guerra mondiale, ma prima ancora di compromettersi con la Repubblica dei Consigli (novembre 1918 - marzo 1919), divenendo, dopo la sua caduta, un perseguitato politico costretto a lasciare l'Ungheria come altri esponenti della sinistra, B. già era abituato a spostarsi tra Vienna, Parigi e Budapest, manifestando così il suo nomadismo e lo spessore e la qualità mitteleuropei della sua cultura.
Ebreo non del tutto osservante, poi convertitosi negli anni della maturità al cattolicesimo, 'viandante' della cultura, fu segnato per tutta la vita dal fatto di sentirsi escluso da una comunità senza però appartenere a un'altra, di ritrovarsi al di fuori di qualsiasi Chiesa.
Esiliato più metafisico che concreto, non a caso scelse il tedesco come lingua di lavoro (per poi eventualmente tradursi in ungherese) anche per le sue opere narrative e poetiche...”
(Leggi l’articolo completo di Marco Vallora - Enciclopedia del Cinema (2003) in www.treccani.it)
Immagini:
- Georg Wilhelm Pabst 1931 Die Dreigroschenoper - L'opéra de quat'sous version française
Un brano musicale al giorno
Louis Lully, Orphée: Imploration d'Eurydice aux enfers
Michel Alabau organo
Françoise Masset soprano
“Louis Lully (Parigi, 4 agosto 1664 - Parigi, 1º aprile 1734) compositore francese, primogenito di Jean-Baptiste Lully.
Louis Lully condusse una vita dissoluta, contraendo anche molti debiti e finendo in prigione, motivo per cui rischiò di essere diseredato dal padre.
Non ebbe una carriera brillante e non ereditò nessuno dei posti che Jean-Baptiste Lully ebbe nel corso della sua sfolgorante carriera.
Compose Tragèdies Lyriques e balletti di discreto successo, Zefiro e Flora (1688), in collaborazione con il fratello Jean-Louis e Pierre Vignon, e Alcide (1693) con Marin Marais.
L'Orfeo (1690), unica opera che scrisse da solo, fu fischiata proprio in occasione della prima, ma riveste invece un certo interesse per l'importanza data al recitativo accompagnato, che è una caratteristica originale del melodramma francese di fine Seicento.”
(In wikipedia.org)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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