“L’amico del popolo”, 4 aprile 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

MOTHER INDIA (Madre India, India, 1957), regia di Mehboob Khan (1906-1964). Dialoghi: Wajahat Mirza, Sceneggiatura: Ali Raza. Fotografia: Faredoon Irani. Montaggio: Shamsuddin Kadri. Musica: Naushad. Canzoni: Shakeel Badayuni. Con: Nargis (Radha), Sunil Dutt (Birju), Raaj Kumar (Shamu), Rajendra Kumar (Ramu), Kanhaiyalal, Mukri (Sukhilala), Jilloo, Kumkum (Champa), Chanchal, Sheela Naik (Kamla). Produzione: Mehboob Khan

“Tutti i film hindi vengono da Mother India”, ha osservato uno sceneggiatore indiano. Spettacolare e dotato di un intreccio ricco ed esuberante, il film di Mehboob Khan ha finito per assurgere al rango di epica nazionale. Mother India narra la saga di una contadina determinata e coraggiosa, simbolo della capacità di resistenza e di sopportazione dell’intera nazione. I paesaggi rurali dell’India, i ritmi del villaggio e il succedersi delle stagioni si animano grazie a un’evocativa fotografia a colori dominata dai toni caldi e ricchi della terra. Il viaggio epico di una nazione, Mother India, fu realizzato nel 1957, esattamente dieci anni dopo la conquista dell’indipendenza. Anche se le vicende narrate iniziano una generazione prima di quell’evento fondamentale, stranamente il film non pare interessato a descrivere il volto della potenza colonizzatrice e preferisce invece scavare nei ritmi dell’antichissima civiltà rurale. Questa sorta di atemporalità è rappresentata da Radha, interpretata da Nargis, un misto di Madre Coraggio e Madre Terra. Con lei, percorriamo il viaggio epico di un intero paese dal buio alla luce. All’inizio Radha è una giovane sposa che, insieme al marito contadino, lotta per arrivare alla fine del mese. La loro è una vita fatta di poca felicità e tanti sacrifici, poiché la maggior parte dei prodotti della loro terra finisce nelle mani di un proprietario terriero. Quando Radha e suo marito decidono di coltivare un misero e arido pezzo di terra, la catastrofe sconvolge le loro vite: il marito perde entrambe le braccia in un incidente e Radha è costretta a dare in pegno al proprietario terriero i suoi gioielli per provvedere ai tre figli. In seguito dovrà cedergli anche il pezzo di terra. Benché a questo punto il film ruoti attorno alle tematiche della terra, del sacrificio e di un sistema agrario iniquo, entrano in gioco anche altri elementi: la scomparsa del marito di Radha, che si allontana perché non sopporta l’umiliazione d’essere invalido, e la morte del figlio più piccolo durante un’alluvione. Mentre gli anni passano e i figli diventano uomini, continuiamo ad assistere alle traversie dell’indomita Radha. Il solo riferimento alla nascita dello Stato Indiano giunge quando Radha si rivolge ai compaesani in fuga dalle devastazioni dell’alluvione e li esorta a non abbandonare le loro terre e ad aver fede in un futuro migliore. I compaesani ritornano e, in un’immagine dalla forte valenza simbolica, si radunano componendo una mappa dell’India. È il 1947: il paese è libero. Il film si sposta sulla duplice lotta di Radha, impegnata da un lato a lavorare la terra con l’aiuto dei figli e dall’altro a domare lo spirito ribelle del figlio minore, il quale nutre un profondo rancore nei confronti dell’aguzzino che ha causato tanti guai alla sua famiglia. Nonostante queste traversie, Radha conserva stoicamente una dignità profondamente ancorata a valori saldissimi, quelli di un’India tradizionale che ha assistito a una serie di assalti destabilizzanti rimanendo sempre incrollabilmente fedele a se stessa. Il film si conclude nell’India indipendente, dove Radha è invitata a inaugurare una piccola diga che porterà finalmente l’acqua ai campi riarsi: la speranza è che si tratti di un nuovo inizio per tanta gente lungamente sfruttata e oppressa”.

(Saeed Mirza su Cineteca di Bologna)

“L’Età dell’Oro del cinema indiano è stata caratterizzata dall’attività di quattro registi straordinari: Mehboob Khan, Bimal Roy, Raj Kapoor e Guru Dutt. Autori diversi per personalità, tematiche e linguaggio artistico, i “quattro grandi” sono tuttavia legati da alcune caratteristiche di fondo che si ritrovano costantemente nelle loro opere migliori. Innanzi tutto, uno spiccato senso umanistico, manifestazione della loro sensibilità per la grande povertà e per l’ineguaglianza a quei tempi ancora ampiamente diffuse presso la popolazione indiana. In secondo luogo, li accomuna una profonda consapevolezza della cultura passata e presente del proprio Paese, sia nelle forme auliche che negli aspetti popolari. Un terzo dato in comune è una certa idealizzazione dei contadini - benché si riconosca che la città sia l’unico luogo dove poter risolvere ogni arretratezza - e infine, la loro grande maestria nel divulgare le proprie idee, al fine di incoraggiare le masse a un cambiamento radicale.
La figura di Mehboob Khan (Ramjan Khan, 1906-1964) è leggendaria, fu soprannominato «il Cecil B. De Mille dell’India» per il suo stile melodrammatico e spettacolare. Proveniente da una famiglia povera del Gujarat, fece il suo ingresso nel mondo del cinema nel 1927 come comparsa e factotum, per poi diventare attore. Finalmente, nel 1935, ottenne la sua prima regia. Temperamento tenace e versatile, uno dei suoi primi lavori di rilievo è Roti (Il pane, 1942), figurativamente simile a un prodotto dell’Espressionismo tedesco. Nel film si mettono a confronto due modelli di vita: il mondo libero e con valori senza tempo di una coppia di adivasi (aborigeni tribali) e il nuovo stile “cittadino”, rappresentato da un milionario. Dopo un frustrante soggiorno nella grande città, i due contadini torneranno nella loro terra, dove saranno raggiunti dal milionario, il quale avendo subito un irreparabile dissesto finanziario, cerca salvezza in quella sorta di paradiso perduto. In un periodo in cui fra gli estremisti indiani dilagava la violenza, Mehboob realizzò Humayun (1945), una biografia romanzata dell’imperatore poeta figlio di Babur, il Moghul che nel XVI secolo aveva conquistato l’India. Il regista in questo kolossal, interpretato da Ashok Kumar e Nargis (“Narciso”, Fatima Rashid), intendeva indicare ai suoi contemporanei un esempio da seguire. Un modello proveniente dal lontano passato, quando per musulmani e induisti era stato possibile vivere insieme pacificamente, grazie a una reciproca tolleranza. Il film fu apprezzato da De Mille che in una lettera lo descrisse come “un capolavoro per l’uso delle luci e la composizione delle scene”. Il melodramma Andaz (Stile, A Matter of Style o Beau Monde, 1949) è incentrato, come Roti, sulla contrapposizione degli stili di vita. Nita (Nargis), una ereditiera occidentalizzata, con il suo comportamento moderno e disinvolto fa credere all’amico Dilip (Dilip Kumar) di essere innamorata di lui. Nita lo ucciderà per dimostrare al marito Rajan (Raj Kapoor) di essersi ravveduta e pagherà con la prigione l’essersi comportata in maniera non tradizionale. Il film è particolarmente notevole per i testi delle canzoni di Majrooh Sultanpuri e per le musiche di Naushad.
Nel 1952, Mehboob fu autore di Aan (Onore), il primo kolossal indiano in Technicolor (che fu distribuito in Inghilterra con il titolo Savage Princess e in Francia con quello di Mangala, Fille des Indes, nonché mostrato ad Hollywood proprio a De Mille). La storia, ambientata in epoca moderna, narra di un coraggioso e fedele capo clan Rajput che difende il suo maharaja dai tentativi di usurpazione messi in atto da uno dei figli del re. La sua opera più nota è Bharat Mata (Madre India), un remake del 1957 del suo precedente Aurat (Donna, 1940). Bharat Mata è forse il film più famoso e acclamato della storia del cinema indiano, il corrispettivo asiatico di Gone with the Wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming. Analizzato fin nei minimi dettagli da tutti i critici, questo film viene generalmente etichettato come il massimo esempio di quell’ “epica nazionale” nata all’indomani dell’Indipendenza. La vecchia contadina Radha, assurta quasi a simbolo della Nazione Indiana, ricorda la sua vita di moglie e di madre e l’indomita lotta per la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia, oppressa da Sukhilala, l’usuraio del villaggio. Dopo molte traversie, un giorno viene abbandonata dal marito, che ha perso entrambe le braccia in un incidente di lavoro, poi dovrà subire la violenza di Sukhilala e perderà uno dei figli, Ram, durante un’alluvione. Infine, per un innato senso di giustizia, ucciderà il figlio ribelle, Birju, pur essendo il suo preferito, che ha assassinato l’usuraio e ne ha sedotto per vendetta la figlia. Radha, una idealizzazione della figura femminile, il cui ruolo tradizionale è quello di assicurare la stabilità della famiglia, diventerà per gli abitanti del suo villaggio un modello da imitare, appunto perché con la sua fiducia nel futuro incarna i concetti di equilibrio e continuità. Bharat Mata, che come linguaggio cinematografico si rifà in parte ad Aleksandr Dovženko, per alcuni critici è una grande sintesi di temi psicoanalitici e di simbolismi che rimandano anche alle antiche religioni dell’India (Radha è ad un tempo la Dea Madre e Kali). Per altri, è lo studio di una cultura in conflitto con se stessa. Ad alcuni Bharat Mata potrebbe sembrare un film po’ retorico, anzi i suoi detrattori lo accusano di esaltare gli aspetti più retrivi della società indiana, ma per capirlo bene bisogna inserirlo nella giusta prospettiva storica. Grazie ad una perfetta ambientazione, alle splendide musiche di Naushad, alle spettacolari coreografie e alle capacità recitative degli attori - in primo luogo Nargis, che per questo film ottenne una nomination all’Oscar e il premio come migliore attrice al Festival di Karlovy Vary - Bharat Mata rimane ancora oggi un vero capolavoro del cinema ed è il film che sintetizza tutta l’opera di Mehboob”.

(Da triciclo.forumcommunity.net)

MOTHER INDIA (Madre India, India, 1957), regia di Mehboob Khan

 

Una poesia al giorno

Diálogo, di Cecília Meireles (Rio de Janeiro 1901-1964)

Minhas palavras são a metade de um diálogo obscuro
continuando através de séculos impossíveis.

Agora compreendo o sentido e a ressonância
que também trazes de tão longe em tua voz.

Nossas perguntas e respostas se reconhecem
como os olhos dentro dos espelhos. Olhos que choraram.

Conversamos dos dois extremos da noite,
como de praias opostas. Mas com uma voz que não se importa...

E um mar de estrelas se balança entre o meu pensamento e o teu.
Mas um mar sem viagens.

Le mie parole sono la metà di un dialogo oscuro
che continua attraverso secoli impossibili.

Adesso comprendo il senso e la risonanza
che pure porti da tanto lontano nella tua voce.

Le nostre domande e risposte si riconoscono
come gli occhi dentro agli specchi. Occhi che hanno pianto.

Conversiamo dai due estremi della notte,
come da spiagge opposte. Ma con una voce che non si importa...

E un mare di stelle oscilla tra il mio pensiero e il tuo.
Ma un mare senza viaggi.

 

Un fatto al giorno

4 aprile 1866, Dmitry Karakozov (1840-1866), il primo rivoluzionario russo ad attentare alla vita dello Zar fallisce l’attentato allo Zar Alessandro II alle porte del Giardino d’Estate di San Pietroburgo. Dopo questo fatto, nell’aprile del 1866, la Polizia di Stato diventò onnipotente. Ogni persona sospetta di "radicalismo" doveva vivere con il terrore di essere arrestata in qualsiasi momento per la simpatia che poteva nutrire per questo o quello dei coinvolti in un qualche affare politico, o semplicemente per le sue opinioni o per un'innocua lettera intercettata. Arresto per sospetti politici poteva significare qualunque cosa: anni di reclusione nella prigione dei Santi Pietro e Paolo, deportazione in Siberia o anche la tortura nelle casematte della fortezza. Anche diffondere libri poteva essere pericoloso poiché, nonostante avessero passato l'attento vaglio della censura, potevano portare all'arresto chiunque li facesse circolare. 151 anni dopo è ancora un attentato a Pietroburgo, fatalità?

 

Una frase al giorno

“La cosa peggiore è la posizione stentata in cui ci tiene il bisogno; l'uomo bisognoso non cammina normalmente; egli salta, striscia, si contorce, si trascina, passa la vita ad assumere e a eseguire delle posizioni”

(Denis Diderot)

 

Un brano al giorno

Wild Thing - The Runaways, con la straordinaria Sandy West (1959 -2006)

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org