“L’amico del popolo”, 4 novembre 2020

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

THE MISFITS (Gli spostati, USA, 1961), regia di John Huston. Prodotto da Frank E. Taylor. Scritto da Arthur Miller. Musiche: Alex North. Fotografia: Russell Metty. Montaggio: George Tomasini.
Cast: Clark Gable nel ruolo di Gay Langland. Marilyn Monroe nel ruolo di Roslyn Tabor. Montgomery Clift nel ruolo di Perce Howland. Thelma Ritter nel ruolo di Isabelle Steers. Eli Wallach nel ruolo di Guido. James Barton nel ruolo del nonno di Fletcher. Kevin McCarthy nel ruolo di Raymond Tabor. Estelle Winwood nel ruolo della dama di chiesa che raccoglie denaro al bar. Peggy Barton come giovane sposa. Rex Bell come vecchio cowboy. Ryall Bowker come uomo in un bar. Frank Fanelli Sr. come giocatore d'azzardo al bar. John Huston come comparsa nella scena del blackjack, mentre Alfred Hitchcock faceva anche il cameo nei suoi film. Bobby LaSalle come barista, Philip Mitchell come Charles Steers. Walter Ramage come vecchio sposo. Ralph Roberts come autista di ambulanza al rodeo. Dennis Shaw nel ruolo di Fletcher, ragazzo in un bar. J. Lewis Smith come fresco cowboy al bar. Marietta Tree come Susan.

La bella e ingenua Roslyn, da poco divorziata, per mezzo dell'amica lsabelle stringe amicizia con due uomini: Gay, un cow boy anche lui divorziato, e Guido, meccanico e aviatore. Respinti gli approcci di quest'ultimo, Roslyn sente nascere in sé una viva simpatia per il cow boy che, dal suo canto, non è insensibile al fascino della giovane donna, di cui riconosce e apprezza la profonda sensibilità e umanità. Inizia così una relazione fra Roslyn e Gay, finché Guido non propone all'amico di prender parte ad una caccia ai cavalli selvaggi. La brutalità di un rodeo e le ferite che Perce, uno dei concorrenti, subisce durante la gara, sconvolgono l'animo di Roslyn; ai suoi occhi Gay appare ora sotto un aspetto diverso, cinico, rozzo e istintivamente violento.
La reazione della donna è immediata quando Guido e Gay, dopo un'estenuante caccia, riescono a catturare una cavalla selvaggia con un puledro oltre che uno stallone. Inoltre Guido fa il doppio gioco per mostrare ai due l'aspetto peggiore uno dell'altra.
Roslyn, con l'aiuto di Perce, libera però lo stallone ma Gay torna a catturarlo e a domarlo a prezzo d'una lotta furiosa. Dopo aver provato la sua superiorità sulla forza selvaggia dell'animale, a sua volta lo scioglie dai lacci e gli rende la libertà.
È questo il suo cavalleresco omaggio alla sensibilità di Roslyn, che ha definitivamente conquistato il suo amore.

“Si fa presto a dire che The Misfits è un film di Arthur Miller più che di John Huston. Si fa presto a dire che lo si ricorda come l'ultimo film di Clark Gable (che morì undici giorni dopo la fine delle riprese) e di Marilyn Monroe, più che per il suo intrinseco valore. Sono due mezze verità complementari, entrambe ingenerose. È vero che quella di The Misfits fu la prima, e l'ultima, sceneggiatura di Miller e che partendo dal racconto The Mustangs (pubblicato da "Esquire" nel 1955 e frutto di un suo soggiorno a Reno per accelerare le pratiche del divorzio dalla donna che gli aveva dato due figli) l'aveva scritta su misura per Marilyn Monroe. È anche vero che, dopo aver dato la misura del proprio talento di commediante in Some Like It Hot, Marilyn contava di trovare in Roslyn il trampolino di lancio come attrice drammatica e che, pur seriamente malato di cuore alle soglie dei sessant'anni, Clark Gable accettò la parte con la convinzione che fosse una delle migliori della sua carriera. Quando alla fine del luglio 1960 cominciarono le riprese, con un programma di dodici settimane, il matrimonio Miller-Monroe era in crisi e l'attrice in penose condizioni psicofisiche, tali da renderne urgente il ricovero, in una clinica di Los Angeles, che interruppe la lavorazione per due settimane. Soltanto il self-control di Huston, il suo sereno disprezzo per i dilettanti e i nevrotici (tra i quali c'era Montgomery Clift che, però, si comportò con disciplina ammirevole), la sollecitudine di Miller che trascorse tutto il periodo sul set, riuscirono a contenere i guasti. Il che non impedì che The Misfits venisse a costare quattro milioni di dollari (del 1960), procurandosi l'etichetta di più costoso film in bianco e nero della storia di Hollywood. Fu forse un'iperbole giornalistica. Quando uscì, ebbe accoglienze critiche tiepide, nemmeno una nomination agli Oscar e un successo di pubblico inferiore alle attese.

Miller è un intellettuale sedentario, scrittore di città, cittadino di Broadway; Huston un regista viaggiatore, transfuga di Hollywood. The Misfits appare oggi, col senno e la prospettiva di poi, uno dei film più hustoniani che Huston abbia mai diretto. Secondo lui, il tema di fondo riguarda l'ambiente, quel che la civiltà fa per deturparlo e la vita di chi lo abita. È una trenodia sulla vita dei cavalli, in una società dove i cani hanno finito per mangiarli. Ed è, ancora una volta, la storia di una piccola comunità di sbandati. 'Misfits' sta per spostati, disadattati, ma, secondo Huston, anche per holdouts, ossia resistenti, ribelli all'omologazione. Sono personaggi dominati da un mito, la libertà - o l'individualismo? - il cui primo corollario è la volontà di indipendenza dalla società, dalle sue leggi, costrizioni, tabù. Con questo quartetto Miller traccia un'analisi del malessere della società americana e della crisi dell'istituto familiare, analisi che talvolta diventa una patetica meditazione sulle difficoltà della vita di coppia. La singolarità del film consiste in un transfert: Miller sposta problemi, inibizioni, frustrazioni che sono degli americani di città tra la gente della prateria, tra quei cowboy che, ancora nel 1960, grazie al concorso dell'industria culturale incarnavano alcuni miti del Nord America: libertà, indipendenza, vagabondaggio, amore per la natura e gli spazi aperti, gusto dell'avventura e del rischio, competizione. Ma la loro è un'illusione: possono essere o illudersi di essere quelli di una volta, ma i tempi sono cambiati, il mondo è inevitabilmente diverso.

The Misfits è anche un ritratto obliquo di Marilyn Monroe, che Miller ha disegnato dal vivo e che Huston trasforma in un documentario sull'attrice nel senso in cui À bout de souffle è un documentario di Godard su Belmondo. Talvolta nei primi piani di Marilyn traspaiono le ombre, i segni, i guasti con cui la nevrosi ha macchiato il fulgore dei suoi trentaquattro anni. Qua e là la verbosità di Miller irrita e più di una volta il lirismo dei dialoghi sfiora il kitsch più bieco: "Il tuo sorriso - dice Gable alla Monroe - è come il sorgere del sole…". Ma lo spartito di Miller ha in Huston, direttore d'orchestra né timido né ossequiente, un'esecuzione di grande finezza. Con un ricorso insistente al primo e al primissimo piano e la mobilità delle cinepresa, sta addosso agli attori con scioltezza ammirevole. Nella partita finale di caccia ai cavalli, dove The Misfits diventa la lirica accensione di una metafora sulla metamorfosi di un mondo, Huston trova lo stato di grazia stilistica dei suoi film migliori. La metafora non è limpida, ma la forza del suo impatto visivo è inconfutabile. E le parole finali di Gay ("Dirigiti verso quella grande stella… ci riporterà a casa") sono il suggello di un'altissima retorica. Tutto il film, d'altronde, acquista retrospettivamente l'inquietante fascino di un giuoco della verità in cui è difficile discernere il confine che separa la realtà dalla sua finzione, la vita dalla sua rappresentazione.
La separazione della Monroe da Miller, preludio della tragica fine dell'attrice di due anni dopo, è iscritta in filigrana nel film e nella sua struggente malinconia.”

(Morando Morandini - Enciclopedia del Cinema, 2004, in: www.treccani.it)

 

“Si ucciderebbero cosi anche i cavalli, se non fosse per gli occhi malinconici d’una bionda. Troppo simbolico, troppe nuvole in viaggio nei cieli del Nevada, troppe anime scorticate, troppo retorico, troppo listato a lutto (ultimo film per Monroe e Gable). Però cosi bello e commovente, se si ha un certo gusto per il mood lugubre. È l’epoca in cui Marilyn cerca in Paula Strasberg, moglie di Lee e insegnante allo Studio, un controverso sostegno al proprio declino psichiatrico; Montgomery Clift, pur in un ruolo un poco compresso, è magnifico nella sua innocenza invecchiata (tra qualche problema d’Edipo). Arthur Miller scrive per una moglie che sta lasciando, Russell Metty firma una fotografia mozzafiato.”

(In: distribuzione.ilcinemaritrovato.it)

 

Il film:

  • The Misfits 1961 - Clark Gable, Marilyn Monroe, Montgomery Clift
  • The Misfits. 1961 HD (ENG.SUB) Clark Gable, Marilyn Monroe, Montgomery Clift

4 novembre 1960: iniziano le riprese de Gli spostati, con Marilyn Monroe e Clark Gable (per entrambi sarà l'ultimo film).

 

Una poesia al giorno

On a Portrait, di Thomas Stearns Eliot

Among a crowd of tenuous dreams, unknown
To us of restless brain and weary feet,
Forever hurrying, up and down the street,
She stands at evening in the room alone.

Not like a tranquil goddess carved of stone
But evanescent, as if one should meet
A pensive lamia in some wood-retreat,
An immaterial fancy of one's own.

No meditations glad or ominous
Disturb her lips, or move the slender hands;
Her dark eyes keep their secrets hid from us,
Beyond the circle of our thought she stands.

The parrot on his bar, a silent spy,
Regards her with a patient curious eye.

 

Su un ritratto (traduzione in: www.poesie.reportonline.it)

Fra una folla di sogni tenui, ignoti
a noi di mente inquieta e piedi stanchi,
sempre di corsa su e giù per strada,
essa indugia di sera, sola nella stanza.

Non come una dea tranquilla scolpita in pietra
ma evanescente, come se incontrassimo
una lamia pensosa in un ritiro agreste,
una fantasia smateriata di nostra invenzione.

Nessuna meditazione gaia o minacciosa
disturba quelle labbra, o muove le mani fini;
i suoi occhi neri i loro segreti nascondono,
oltre l'ambito dei nostri pensieri essa sosta.

Il pappagallo sulla stanga, spia silenziosa,
la osserva con occhio paziente e curioso.

 

Eliot, Thomas Stearns fu poeta e critico statunitense (Saint Louis, Missouri, 1888 - Londra 1965), naturalizzato cittadino britannico nel 1927. Nacque da famiglia di tradizione unitariana. Dal 1906 al 1910 studiò filosofia alla Harvard Univ., frequentò poi per un anno la Sorbona di Parigi (1910) e, di nuovo a Harvard, approfondì la filosofia di F. H. Bradley per la tesi di dottorato che la guerra gli impedì di discutere (pubbl. nel 1964: Knowledge and experience in the philosophy of F. H. Bradley). Di nuovo in Europa (1914), allo scoppio della guerra si trasferì in Inghilterra. Stabilitosi a Londra, nel 1916 sposò Vivien Haigh-Wood, e trovò poi un impiego presso la Lloyds Bank.

Contemporaneamente dava il via a un'importante attività critica, prima sulla rivista The Egoist e poi su Criterion, da lui fondata e diretta (1922-39). Di tale attività sono frutto i volumi di saggi The sacred wood (1920; trad. it. 1946), con cui si inizia l'influenza che l'opera critica di E. eserciterà sulle generazioni più giovani, e The metaphysical poets (1921), in cui egli propone la tradizione dei poeti metafisici in alternativa a quella rappresentata dalla linea Milton-vittoriani; mentre saggi come Tradition and individual talent (1919) e Hamlet (1921) definiscono il "correlativo oggettivo" quale punto d'incontro neutro tra autore e lettore, quale inglobamento dell'individuale lirico nella tradizione.

Dall'incontro, determinante, con E. Pound, avvenuto a Londra nel 1914, proviene a E. l'interesse per Dante (Dante, 1929; trad. it. 1942), lo Stilnovo e i poeti provenzali, e soprattutto la consapevolezza della tecnica del linguaggio. Influenzato, come tutta la sua generazione, dalla poesia francese simbolista, e in particolare da J. Laforgue, nella sua prima raccolta di versi (Prufrock and other observations, 1917)

(Leggi l'articolo completo in www.treccani.it)

Immagini:

4 novembre 1948: Thomas Stearns Eliot vince il premio Nobel per la letteratura.

 

Un fatto al giorno

4 novembre 1921: la salma del Milite Ignoto viene inumata nell'Altare della Patria del Vittoriano di Roma.

“Il Milite Ignoto (lat. Ignoto Militi, "Al Milite Ignoto", com'è riportato sul suo sacello) è un militare italiano, la cui identità resta sconosciuta essendone stato scelto il corpo in modo che non avesse particolari che lo rendessero riconoscibile, morto nella prima guerra mondiale e sepolto a Roma sotto la statua della dea Roma all'Altare della Patria al Vittoriano. Questo è il lato della pietra sepolcrale che è visibile all'esterno dell'edificio: l'altro lato, quello che dà verso gli ambienti interni del Vittoriano, è visibile in una cripta.

La tomba del Milite Ignoto è un sacello simbolico che rappresenta tutti i caduti e i dispersi in guerra italiani. Essa è scenario di cerimonie ufficiali che si svolgono annualmente in occasione dell'Anniversario della liberazione d'Italia (25 aprile), della Festa della Repubblica Italiana (2 giugno) e della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate (4 novembre), durante le quali il Presidente della Repubblica Italiana e le massime cariche dello Stato rendono omaggio al sacello del Milite Ignoto con la deposizione di una corona d'alloro in ricordo ai caduti e ai dispersi italiani nelle guerre.

Il motivo del suo spiccato simbolismo risiede nella transizione metaforica dalla figura del soldato, a quella del popolo e infine a quella della nazione: questo passaggio tra concetti sempre più ampi e generici è dovuto ai tratti indistinti della non identificazione del soldato. La cerimonia di tumulazione del Milite Ignoto, che avvenne il 4 novembre 1921 durante la Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate, è stata la più importante e partecipata manifestazione patriottica dell'Italia unita, dato che vi partecipò un milione di persone.

Il 24 agosto 1920 il colonnello Giulio Douhet, sulla scorta di analoghe iniziative già attuate in Francia e in altri Paesi coinvolti nella prima guerra mondiale, propose per primo in Italia di onorare i caduti italiani con la creazione di un monumento al Milite Ignoto a Roma.

Il motivo di questa proposta va ricercata nella disfatta di Caporetto (24 ottobre - 12 novembre 1917), scontro armato combattuto durante la prima guerra mondiale tra il Regio Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche che rappresenta la più grave sconfitta nella storia dell'esercito italiano, dopo la quale Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, emise un comunicato che addossava la colpa della sconfitta militare alla viltà dei soldati italiani.

Giulio Douhet, in difesa dei soldati e in polemica con Cadorna, a cui rimproverava alcuni errori strategici e la cocciutaggine nel perseguire obiettivi militari difficilmente raggiungibili, dichiarò, dalle colonne del giornale Il Dovere, testata di riferimento dell'associazione Unione nazionale ufficiali e soldati da lui fondata, la seguente proposta, che è datata 24 agosto 1920:

«[...] Tutto sopportò e vinse il Soldato. Dall'ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri che [...] cominciarono a meravigliarsi del suo valore [...], alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità. Tutto sopportò e tutto vinse, da solo, nonostante. Perciò al Soldato bisogna conferire il sommo onore, quello cui nessuno dei suoi condottieri può aspirare neppure nei suoi più folli sogni di ambizione. Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio [...].» (Giulio Douhet, Il Dovere, 24 agosto 1920)

Giulio Douhet individuò nel Milite Ignoto un simbolo in cui tutta l'Italia si sarebbe dovuta riconoscere. Il motivo dello spiccato simbolismo del Milite Ignoto risiede nella transizione metaforica dalla figura del soldato, a quella del popolo e infine a quella della nazione: questo passaggio tra concetti sempre più ampi e generici è dovuto ai tratti indistinti della non identificazione del soldato[2]. A tal proposito Giulio Douhet scrisse:

«[...] Nel giorno in cui la sacra Salma trionfalmente giungerà al suo luogo di eterno riposo, in quel giorno tutta l'Italia deve vibrare all'unisono, in una concorde armonia d'affetti. [...] tutti i cittadini debbono far ala alla via trionfale, unendosi in un unanime senso di elevazione ideale nel comune atto di reverenza verso il Figlio e il Fratello di tutti, spentosi nella difesa della Madre Comune [...]» (Giulio Douhet)

Questa idea fu raccolta dall'onorevole Cesare Maria De Vecchi, che la fece propria presentando alla Camera dei deputati un disegno di legge finalizzato alla costruzione, anche in Italia, di un monumento dedicato a tutti i soldati italiani morti in guerra:

«Il disegno di legge che il Parlamento discute è frutto del sentimento italico, dolce ed ardente ad un tempo. Deve essere rivendicata ai nostri uomini d'arme la priorità del proposito di trasportare solennemente a Roma i resti di un caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a loro e a seicentomila fratelli.» (Cesare Maria De Vecchi)

La legge sulla "Sepoltura della salma di un soldato ignoto" fu poi approvata dal parlamento del Regno d'Italia all'unanimità e senza dibattito il 4 agosto 1921. L'unica modifica rispetto alla proposta di Giulio Douhet fu quella relativa al luogo di sepoltura: invece che nel Pantheon, che doveva rimanere riservato solo ai Savoia, il Milite Ignoto italiano sarebbe stato inumato all'Altare della Patria al Vittoriano.

A prima vista la scelta di cambiare il luogo di sepoltura poteva sembrare un declassamento, ma non fu così. Innanzitutto il Milite Ignoto si sarebbe seppellito in un luogo aperto, sotto lo sguardo di tutti, e non chiuso tra le mura di un edificio, come se fosse stato tumulato nel Pantheon.

Inoltre la sua tomba si sarebbe trovata in un luogo particolarmente simbolico: all'Altare della Patria (che in questo modo sarebbe stato pienamente consacrato nelle sue funzioni), quindi sotto la statua della dea Roma e davanti alla statua equestre di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re dell'Italia unita e personalità risorgimentale indicata dalla storiografia come "Padre della Patria".

In uno stralcio la legge sulla "Sepoltura della salma di un soldato ignoto", in riferimento al luogo di sepoltura del Milite Ignoto, che sarebbe stato all'aperto, infatti recita:

«[Il trasporto della salma avverrà] dalla silente trincea di guerra alla immortale grandezza dell'Urbe sotto il sole d'Italia. [...]» (Legge sulla "Sepoltura della salma di un soldato ignoto")

Il Ministero della Guerra costituì una commissione a cui fu dato l'incarico di individuare undici salme di soldati italiani non identificati: tra esse si sarebbe scelta quella da seppellire solennemente all'Altare della Patria in una tomba che sarebbe diventata il monumento al Milite Ignoto. Tale commissione era formata dal generale Giuseppe Paolini, dal colonnello Vincenzo Paladini, dal tenente Augusto Tognasso, dal sergente Ivanoe Vaccarini, dal caporal maggiore Giuseppe Sartori e dal soldato Massimo Moro, tutti accomunati dal fatto di essere stati insigniti con la medaglia d'oro al valor militare.

Le undici salme furono scelte nell'ottobre del 1921 dalla citata commissione. I suoi componenti cercarono nei cimiteri di guerra sparsi lungo il fronte italiano della prima guerra mondiale, che andava dal passo alpino dello Stelvio al mare Adriatico. I punti precisi dove vennero cercate le salme non furono casuali: erano i luoghi dove la guerra fu più dura e gli scontri più accaniti.

Ogni salma proveniva da una zona precisa del fronte: Rovereto, le Dolomiti, gli Altipiani, il monte Grappa, Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, il monte San Michele e Castagnevizza del Carso. Come criterio di scelta, fu individuato quello più selettivo: non vennero prese in considerazione le salme a cui erano associate, ad esempio, le mostrine o l'elmetto, grazie ai quali si sarebbe potuto risalire al reggimento di appartenenza del soldato.

Le undici bare furono poi portate provvisoriamente nella chiesa di Santa Maria in Castello a Udine per poi essere trasferite ad Aquileia il 27 ottobre. Nel frattempo all'Altare della Patria al Vittoriano a Roma fu realizzato il loculo che avrebbe ospitato il Milite Ignoto. Le undici bare furono trasportate dai teatri di guerra ad Aquileia grazie ad alcuni autocarri. Al passaggio di questi convogli militari le strade dei paesi si riempivano di gente che attendeva il loro passaggio, con le finestre delle abitazioni che si ricoprivano di bandiere tricolori e le campane delle chiese che suonavano "a morto". La gente seguiva gli autocarri lungo una parte del loro percorso arrivando a volte fino al paese limitrofo.

Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas

La scelta della salma a cui dare solenne sepoltura all'Altare della Patria fu affidata a Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, volontario irredentista di Gradisca d'Isonzo, comune friulano annesso al Regno d'Italia solo dopo la guerra, che aveva disertato dall'esercito austroungarico per unirsi a quello italiano, e che era morto in combattimento senza che il suo corpo fosse stato mai ritrovato. Poco prima della scelta, l'ordine d'allineamento delle bare fu cambiato per garantire la massima irriconoscibilità della salma.

Il corpo del soldato da tumulare all'Altare della Patria fu scelto il 28 ottobre nella basilica di Aquileia. Maria Bergamas fu condotta di fronte alle undici bare allineate, che passò in rassegna accasciandosi al suolo davanti al decimo feretro urlando il nome del figlio su cui, per questo motivo, cadde la scelta. Le altre dieci salme trovano riposo nel cimitero degli eroi di Aquileia…”

(Articolo completo in wikipedia.org)

 

Gloria. Apoteosi del soldato ignoto (Federazione cinematografica italiana, 1921). L’epopea del Milite Ignoto, dalla scelta fatta da Maria Bergamas nella basilica di Aquileia al trasferimento fino a Roma, toccando mezza Italia tra il cordoglio dei reduci e delle loro famiglie, del treno con la bara del Milite Ignoto, accompagnata da autorità e vedove di guerra. Manifestazioni in ogni stazione toccata, imponente manifestazione a Roma fino al loculo ad esso destinato presso il Vittoriano, da allora Altare della Patria per tutti gli italiani. Manifestazioni riprese anche nelle principali città italiane: Milano, Torino, Genova, Napoli, Palermo.

 

Una frase al giorno

“Si arriva con piacere a Verona. La città conserva le vestigia di un'antica grandezza. L'anfiteatro è molto ben conservato e degno della magnificenza romana. Per rispetto a Shakespeare e per scrupolo di coscienza sono andato a vedere la tomba di Romeo e Giulietta. È un abbeveratoio di buoi al quale si è dato un nome pomposo.”

(Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour, Torino, 10 agosto 1810 - Torino, 6 giugno 1861, politico italiano. Citato in Italo de Feo, Cavour: l'uomo e l'opera, A. Mondadori, 1969)

“CAVOUR, Camillo Benso, conte di. - Nacque il 10 agosto 1810 a Torino, capoluogo allora d'un dipartimento dell'impero napoleonico. Lo tenne a battesimo, per procura, e gli diede il nome, il principe Camillo Borghese, di cui suo padre, Michele, era ciambellano. I Benso venivano da Chieri e avevano avuto titolo marchionale, ai tempi di Carlo Emanuele III, con Michele Antonio, signore di Santena. Per parte di madre, Adele di Sellon, che nell'ottobre del 1811 abiurò al calvinismo per farsi cattolica, Camillo era imparentato con l'aristocrazia protestante e liberale di Ginevra, dove ebbe specialmente cari i De la Rive; mentre per la nonna paterna, Filippina di Sales, della famiglia di S. Francesco, allacciavasi all'alta società della Savoia. Inoltre due sue zie materne, sposate l'una al conte d'Auzers, l'altra al duca Clermont-Tonnerre lo avvicinavano al patriziato legittimista francese. Questi diversi influssi concorsero a temprargli l'animo e la mente; ma egli fu anzitutto figlio del Piemonte e da questa vecchia terra di nobili e di soldati trasse l'impulso alle sue idealità politiche e nazionali.

Suo primo maestro fu l'abate Frézet, degno e colto sacerdote, di cui conservò sempre gradito ricordo. Poi, come cadetto - il fratello maggiore, Gustavo (v.), attese a studî filosofici - entrò nell'accademia militare e vi rimase sei anni (1820-1826), durante i quali fu anche per breve tempo (1824) paggio di Carlo Alberto. Studiò allora fervidamente le scienze esatte e la matematica, che era insegnata da Giovanni Plana, ma poco profittò nelle discipline letterarie, che nell'accademia erano ritenute di secondaria importanza e meno si confacevano, del resto, all'indole del suo ingegno. Ufficiale del genio a sedici anni (1826), fu a Torino, poi a Ventimiglia (1828), a Exilles (1829) e a Genova. In quest'ultima città, dopo la rivoluzione del luglio 1830, manifestò idee poco ortodosse, onde fu richiamato a Torino e poi trasferito, quasi in punizione, a Bard (5 maggio 1831). Là, tra le montagne valdostane, finì di convincersi che i doveri della rigida disciplina militare non convenivano al suo carattere indipendente e ostinato: ottenuto quindi il permesso della famiglia, chiese e ottenne la dimissione (12 novembre 1831).

Smessa così l'uniforme, si dedicò all'agricoltura e alle scienze economiche e sociali. L'ambasciatore francese, barone di Barante, e il giovine conte di Haussonville, di cui divenne amicissimo, lo aiutarono a liberarsi dalle idee rivoluzionarie che avevano dapprima sedotto la sua ardente giovinezza e a condurlo a quel liberalismo pratico che egli professò poi con maggiore risolutezza e con più profonda consapevolezza, ma che era in sostanza, sin d'allora, nello spirito di tutta, o quasi, l'aristocrazia piemontese. Nel 1832 l'Austria, giudicandolo "uomo pericolosissimo", gli chiuse le frontiere del Lombardo-Veneto. Nel 1834, in poche dozzine di nitide pagine, scrisse un Extrait dei pesanti volumi dell'inchiesta inglese sulla tassa dei poveri e lo pubblicò, per desiderio del ministro De L'Escarène, nel gennaio 1835. Fu questo il suo primo lavoro. Già da alcuni anni gli studiosi di parte liberale volgevano la loro attenzione alle classi disagiate col proposito di sollevarle economicamente e moralmente. La beneficenza civile prendeva il suo posto accanto a quella esercitata dal clero. Il C. studia il problema del pauperismo nell'Inghilterra, dove la miseria era oggetto di provvedimenti legislativi intesi a combatterla, e ricava e difende il principio della "carità legale" che deve integrare, non sopprimere quella privata. Egli era allora a Ginevra, donde, nel febbraio, passò a Parigi. Bramoso di conoscere uomini e cose, frequentò il Parlamento, l'università e i ritrovi aristocratici e intellettuali delle signore Svacchine e di Haussonville, delle duchesse di Abrantès e di Rouan, della contessa Anastasia Circourt e della principessa Cristina di Belgioioso; volle vedere istituti agrarî, officine, fabbriche, scuole, carceri, ospedali, e non lasciò in disparte i circoli mondani e le sale da giuoco, dove anzi una volta perdette ventimila lire! Recatosi a Londra nel maggio, si fece presentare ai più insigni statisti: poscia, attraverso il Belgio, dove s'incontrò col Gioberti, fece ritorno in patria nel luglio 1835. Suo padre era stato nominato proprio allora vicario della città di Torino, cioè prefetto di polizia, e non si sentiva più in grado di attendere all'amministrazione dei beni della famiglia. Camillo si assunse quest'incarico, sperando anche di migliorare le proprie condizioni economiche di cadetto, e, fattosi agricoltore, rimase a Leri, nel Vercellese, salvo brevi intervalli, sino al 1848. Il Piemonte era allora un paese a economia prevalentemente agricola, ma proprietarî e fittavoli, chiusi nei vecchi sistemi patriarcali, ripugnavano a quelle applicazioni scientifiche ch'erano già state introdotte, con profitto, nell'Inghilterra, nella Francia, nella Svizzera e anche, in parte, nella Toscana. Il C. si mise risolutamente nelle nuove vie e, una volta lanciato negli affari, si provò anche nel campo delle industrie. Certo, non tutte le sue imprese riuscirono; ma le esperienze di Leri, mentre non furono senza importanza per lo sviluppo della vita economica del Piemonte, contribuirono a moderargli la naturale tendenza ai giudizî arrischiati e ai gesti audaci, gli acuirono il senso delle cose possibili, gli fecero conoscere l'intima struttura economica e finanziaria del paese, di cui apprese quindi anche a inquadrare i problemi politici in una chiara visione della realtà.

Nel dicembre del 1836, dopo un viaggio nel Lombardo-Veneto, fu nominato membro della Commissione superiore di statistica. Dal 1837 al 1839 si occupò di asili d'infanzia e di scuole popolari, fondando, insieme con C. Boncompagni, F. Sclopis e R. d'Azeglio, una società per facilitarne la diffusione. Nel 1841 costituì a Torino la Société du Whist, circolo aristocratico di giuoco e di conversazione sul modello dei clubs di Londra e di Parigi. Nel 1842 fu tra i fondatori e gl'ispiratori dell'Associazione agraria che nei contrasti d'idee e negli antagonismi personali arieggiò quasi le assemblee politiche, e, nel 1843, nella Gazzetta di quel sodalizio, come anche nella Bibliothèque universelle di Ginevra, trattò di poderi modello e di altri simili argomenti. In quest'ultima rivista, nel 1844 dopo un nuovo viaggio a Londra, pubblicò uno studio molto lodato sulla questione irlandese, e nel 1845, sempre occupandosi della legislazione inglese, sostenne, a proposito del commercio dei cereali, il principio del libero scambio, ch'era allora energicamente affermato da R. Cobden e fu accolto l'anno successivo, con qualche riserva, dal ministero di R. Peel. Di qui ebbe anzi origine lo studio che, nel 1847, iniziò nell'Antologia italiana del Predari intorno alla nuova politica commerciale dell'Inghilterra e all'influsso che essa avrebbe esercitato sul mondo economico in genere e sull'Italia in ispecie. L'importanza delle forze economiche interne ed esterne nel movimento politico italiano non sfuggì affatto alla sua penetrazione. L'anno innanzi (1° maggio 1846), per consiglio del duca di Broglie e a proposito del libro del conte Ilarione Petitti sulle strade ferrate, aveva pubblicato nella Revue nouvelle di Parigi una Étude des chemins de fer en Italie, in cui il problema delle ferrovie era trattato non solo sotto l'aspetto degl'interessi materiali, ma anche e soprattutto sotto quello delle idealità politiche e nazionali.

Questi studî potevano farlo apprezzare in certe sfere, non conquistargli l'anima del popolo. Suo padre, come vicario, aveva nemici che lo accusavano persino di affarismo. Il 17 giugno 1847 il marchese Michele si dimise. Il 29 ottobre Carlo Alberto, gettandosi nella via dischiusa da Pio IX, concesse alcune riforme, tra cui una moderata libertà di stampa. Così, il 15 dicembre, apparve il Risorgimento, giornale quotidiano, di cui il C. fu direttore, redattore-capo e gerente. La vocazione alla vita pubblica, che già a vent'anni gli faceva sognare di svegliarsi un giorno primo ministro del regno d'Italia, s'era venuta in lui consolidando col tempo e con gli studî. La sua ora sembrava suonata. Gentiluomo di campagna, sicuro di sé, aperto alle voci della sua terra subalpina, ma poco o nulla sensibile ai ricordi classici ch'erano e sono tanta parte della coscienza della nazione, non si lasciava abbagliare dalle fulgide visioni del Gioberti e non ammetteva affatto con lui "che nulla potesse farsi senza il papa". Piuttosto consentiva con le idee del Balbo, che, attraverso alle memorie del 1821, meglio rispondevano alle tradizioni secolari del Piemonte; ma, mentre questi dichiarava di mirare solo all'indipendenza, egli poneva come condizione di questa la libertà, anzi tutte le libertà, economiche, religiose e politiche, compatibili con l'ordine pubblico.

Il 7 gennaio 1848, in un convegno di giornalisti provocato dalle agitazioni di Genova, propose che si chiedesse al re la costituzione, e fu appoggiato da R. d'Azeglio, da P. Santarosa, da A. Brofferio e da Giacomo Durando, non da L. Valerio e da altri democratici sospettosi ch'egli mirasse a prendere loro la mano. Proclamato lo Statuto (4 marzo), ne rivendicò la perfettibilità per consenso di principe e di popolo e propose egli stesso il senato elettivo e l'aperta dichiarazione della libertà dei culti. Nelle discussioni per la legge elettorale si adoperò affinché il diritto di voto fosse concesso a tutti gl'individui capaci di esprimere un consapevole proposito politico. Il 23 marzo, con un famoso articolo, incitò Carlo Alberto a rompere gl'indugi e a marciare in soccorso di Milano. Nelle elezioni del 26 aprile rimase soccombente, ma in quelle suppletive del 26 giugno fu eletto in quattro collegi. Optò per Torino e, il 4 luglio, prese per la prima volta la parola alla Camera. Gli mancavano le qualità esteriori che aiutano a dominare le assemblee. Bassotto e fatticcio, aveva la fronte eccessivamente ampia, gli occhi cerulei, vivaci, scintillanti sotto gli occhiali d'oro a stanghetta, i capelli biondi come la barba che gli cingeva l'ovale del viso a guisa di soggolo, lasciando il mento e il labbro superiore senza un pelo. Larga la bocca, ora atteggiata a disdegno, ora sorridente d'ironia; il collo breve piantato su poderose spalle, largo il petto, le gambe corte, le mani quasi sempre dietro la schiena. Abituato all'uso continuo del francese, si esprimeva male e stentatamente in italiano, con voce ingrata e con gesto volgare. Così, dapprima, non ebbe fortuna; ma, sentendo che non è possibile stare in un'assemblea senza possedere una relativa facilità di parola, e che questa non si acquista se non con la pratica, non si trattenne d'allora in poi dal parlare quando gli paresse opportuno, e tanto si esercitò che, se non poté gareggiare con i più provetti, come il Valerio e il Brofferio, riuscì peraltro a superarli per la lucidezza del pensiero, la serrata disposizione logica delle argomentazioni, la meravigliosa elasticità dello spirito pieno di espedienti e di risorse. Giornalista e deputato, conobbe pertanto a fondo gli uomini, come già la terra e gli affari. Sostenne i ministeri Balbo, Casati, Alfieri-Pinelli e Perrone-Pinelli, ma, nel caos prodotto dalla guerra e dalla libertà, non andò immune neppur lui da imprudenze e da errori. Nelle elezioni del 22 gennaio 1849 gli fu preferito certo cav. Ignazio Pansoya, onde rimase fuori del Parlamento, ma ciò non gl'impedì di schierarsi col Gioberti nella questione dell'intervento in Toscana a favore del Granduca. Nel marzo accettò la guerra come una necessità. Il 15 luglio fu nuovamente eletto a Torino, e anche a Finalborgo. Nelle discussioni sul trattato di pace con l'Austria appoggiò il ministero, ma il 19 dicembre, essendo corsa la voce che si volesse restringere la libertà di stampa, insorse con un articolo: Non si tocchi la stampa. Consigliava invece il d'Azeglio ad accentuare la tendenza liberale. Il discorso del 7 marzo 1850 per l'abolizione del foro ecclesiastico segnò il suo primo decisivo trionfo. Allora appunto una parte della destra, separandosi dal Balbo, ostile alla legge, si raccolse intorno a lui, che divenne così capo di un gruppo, centro destro, sul quale il ministero poteva particolarmente appoggiarsi. La legge passò. Di lì a poco, essendo morto P. Santarosa il d'Azeglio offrì al C. il portafoglio dell'Agricoltura e commercio. Il re, non senza ripugnanza, firmò il decreto l'11 ottobre 1850.

Si poteva prevedere che sarebbe diventato presto il padrone. Libero scambista, convinto che il Piemonte dovesse sempre più e meglio confondere la propria vita economica con quella delle potenze occidentali, firmò subito un trattato di commercio e di navigazione con la Francia (5 novembre 1850), poi un altro col Belgio (24 gennaio 1851) e un terzo con l'Inghilterra (27 febbraio 1851). Il 19 aprile 1851 passò alle Finanze, e in tale ufficio, valendosi dell'opera del conte Ottavio Thaon di Revel, suo avversario politico, fece un prestito a Londra, riuscendo a sottrarre il Piemonte dalla dipendenza della casa Rothschild; né, poiché i prestiti si traducono in tasse, rifuggì dall'impopolarità di nuove gravezze. Impaziente di salire più in alto e poco scrupoloso nella scelta dei mezzi, dopo il colpo di stato del 2 dicembre, essendosi rianimato anche in Piemonte il partito reazionario, decise di fare un passo verso la sinistra parlamentare. D'accordo con l'amico Michelangelo Castelli, fece pertanto eleggere alla presidenza della Camera, malgrado l'opposizione del d'Azeglio, Urbano Rattazzi, capo del centro sinistro, onde il ministero dovette dimettersi (16 maggio 1852). Nel rimpasto il C. fu lasciato fuori; ma il d'Azeglio, assalito dai clericali e non difeso dai liberali, si trovò presto costretto a dimettersi nuovamente e a designare come suo successore lo stesso C., che intanto era tornato da un nuovo viaggio nella Francia e nell'Inghilterra. Così, il 4 novembre 1852, il C. assunse la presidenza del Consiglio, riservando per sé il portafoglio delle Finanze e conservando in gran parte l'antico gabinetto; ma, poco dopo, entrò nel ministero il Rattazzi, e in tal modo, come disse il Revel, fu conchiuso contemporaneamente il divorzio dall'antica destra e il connubio col centro sinistro. Il C. aveva ormai la sua maggioranza, e il Piemonte il suo grande ministro.

S'era conquistato il suo posto nel pieno vigore delle forze fisiche e intellettuali, dopo una preparazione quanto mai larga e sicura. "L'umanità", diceva, "è diretta verso due scopi, l'uno politico l'altro economico. Nell'ordine politico essa mira evidentemente a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla partecipazione del potere; nell'ordine economico mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori e ad un migliore riparto della terra e dei capitali". Con questa visione dell'avvenire si accinse all'opera. Non era un dottrinario né un fanatico dalle idee fisse: vero uomo politico, osservava, studiava, pronto a cogliere l'attimo fuggente e ad andare, con audacia rivoluzionaria, allorché le circostanze propizie gli si presentassero, assai più oltre di quello che avesse prima immaginato. Anzitutto voleva fare del Piemonte uno stato moderno, capace di attirare a sé le simpatie delle potenze occidentali e di esercitare un'attrazione irresistibile su tutti gli spiriti colti della penisola. Perciò attese con grande energia a svolgere la ricchezza pubblica e privata, a riordinare l'amministrazione e le finanze, a riformare l'esercito (opera insigne di Alfonso Lamarmora), a promuovere l'istruzione e l'educazione popolare, a dare impulso ai lavori pubblici, soprattutto ferroviarî (cura precipua del ministro Paleocapa). La ferrovia Torino-Genova, che apriva ai paesi subalpini un grande sbocco sul mare, e, riavvicinando gl'interessi delle due città, affievoliva le antiche gelosie regionali, e specialmente il traforo del Fréjus, incominciato nel 1857, furono opere degne d'una grande potenza. Questi e altri lavori esigevano sacrifici che il popolo sopportava malvolentieri, tanto più che la nuova politica doganale aveva prodotto una passeggera crisi nei commerci e nelle industrie. Ma il C., sebbene i suoi avversarî lo accusassero anche d'illecite speculazioni personali, e la plebaglia si recasse persino a tumultuare sotto le sue finestre, persistette coraggiosamente nella sua via, convinto che la nazione avrebbe ricavato a suo tempo, nel campo economico e in quello politico, largo frutto della sua dura fatica. E intanto, non perdendo mai di vista le supreme idealità nazionali, protestava a Vienna per il sequestro dei beni degli emigrati lombardi che s'erano fatti sudditi piemontesi e, non ottenuta soddisfazione, rompeva i rapporti diplomatici col governo austriaco, mentre faceva votare dal Parlamento un sussidio di 400 mila lire per le vittime della rappresaglia del Radetzky. In quella circostanza tre lombardi furono nominati senatori e il secondo collegio di Torino, morto Cesare Balbo, elesse a suo rappresentante Giorgio Pallavicino, uno dei martiri dello Spielberg (1853).

La guerra d'Oriente gli offrì l'occasione di compiere un atto importantissimo. L'idea che l'Austria, ove in qualche modo fosse riuscita ad estendersi nella Penisola Balcanica, avrebbe spontaneamente rinunziato all'Italia, era popolare in Piemonte. D'altra parte, i ricordi del 1849 in Ungheria lasciavano supporre che Francesco Giuseppe avrebbe finito con l'accorrere in aiuto della Russia. Il C. aveva subito pensato ad allearsi, per ogni evenienza, con le potenze occidentali, ma nel 1854 l'Inghilterra si limitò a chiedergli un corpo di truppe mercenarie. Egli respinse questa proposta. Allora, il 26 gennaio 1855, fu conchiuso un trattato per il quale il Piemonte aderiva all'alleanza franco-inglese e, mediante un prestito di un milione di sterline, s'impegnava a mandare in Oriente 15 mila soldati. Mancava però qualsiasi garanzia di compensi territoriali in Italia, e questo spiega l'opposizione che l'accordo incontrò nella Camera e nel paese. Lo stesso ministro degli esteri, G. Dabormida, si dimise per non assumerne la responsabilità. Ma il C., che non faceva mai il secondo passo avanti il primo, era soddisfatto del prestigio militare e politico che intanto veniva al Piemonte: poi, alla pace, "sarebbe stato più vantaggioso", diceva, "sedere nella sala delle deliberazioni che restare alla porta". Finalmente, dopo lunghi dibattiti, il trattato riscosse i suffragi del parlamento e, sulla fine di aprile, le truppe, al comando del Lamarmora, salparono da Genova per la Crimea. Il re si accomiatò da loro con un senso d'invidia. "Beato lei", disse a Giovanni Durando, "che va a combattere i Russi: a me tocca combattere frati e monache".

Con queste parole alludeva alla legislazione ecclesiastica che, proprio in quei giorni, per poco non costrinse il C. ad allontanarsi dal governo. Il 2 marzo la Camera aveva approvato un disegno di legge col quale si abolivano alcune comunità religiose e se ne incameravano i beni a vantaggio dell'erario e, insieme, dei parroci poveri. Occorreva però ancora l'approvazione del Senato e del re. Quest'ultimo aveva perduto, tra il gennaio e il febbraio, la madre, la moglie e il fratello, e la sua coscienza religiosa era turbata perché alcuni cattolici rappresentavano quelle sventure come segni dell'ira divina. Si rivolse quindi per consiglio al vescovo di Casale, monsignor Nazari di Calabiana, senatore, il quale, d'accordo con Roma, fece una proposta utile al Tesoro, ma contraria affatto allo spirito della legge. Il C., risoluto a non ridurre una questione di principio a una questione di finanza, offrì le dimissioni (27 aprile); ma il re, ammonito coraggiosamente dal d'Azeglio, fece forza a sé stessi e non le accettò. La legge fu poi approvata, il 22 maggio, con notevoli modificazioni che tuttavia non soddisfecero il papa.

Il valore che i Piemontesi spiegarono alla Cernaia (16 agosto) fu un conforto per il re soldato e una prima soddisfazione per il suo grande ministro. Verso la fine dell'anno andarono insieme a Parigi e a Londra. Nel marzo 1856 si tenne nella capitale francese il celebre congresso dove, per l'abilità del C., l'esistenza d'una questione italiana, nei riguardi soprattutto dell'Austria, venne solennemente affermata. La cosa ebbe un'eco immensa. Il Piemonte si ergeva, in cospetto all'Europa, rappresentante legittimo delle aspirazioni patriottiche di tutta la penisola. Così aveva voluto il Gioberti in tempi non ancora maturi. Tuttavia il C. era contento a metà. Aveva persuaso Napoleone III che solo le armi avrebbero risolto la questione italiana, ma tornava a Torino, dopo una rapida corsa a Londra, senza neppure un ducato in tasca. Ripreso il portafoglio degli esteri, che aveva momentaneamente ceduto al Cibrario, accentuò il carattere antiaustriaco della sua politica: i Lombardi aprirono una sottoscrizione popolare per un monumento all'esercito sardo, che fu infatti innalzato sulla piazza Castello a Torino, e Italiani d'ogni paese, anche emigrati all'estero, inviarono somme per fornire cento cannoni alla fortezza di Alessandria. Ma la conseguenza più importante del prestigio acquistato dal Piemonte fu la forza di attrazione che il regno sardo esercitò d'allora su tutti i liberali: i moderati, già regionalisti e dinastici, diventavano unitarî, gli unitarî, già repubblicani, si volgevano alla monarchia. "Io, repubblicano", aveva proclamato dal suo doloroso esilio di Parigi il Manin, "pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi e lo difenda chiunque vuole che l'Italia sia, e sarà. Il partito repubblicano dice alla casa di Savoia: Fate l'Italia, e sono con voi: se no, no. E ai costituzionali dice: Pensate a fare l'Italia e non ad ingrandire il Piemonte: siate italiani e non municipali, e sono con voi, se no, no". Era il Rinnovamento del Gioberti e, più indietro, la lettera del Mazzini a Carlo Alberto nel 1831. Su queste basi sorse (agosto 1857) la Società nazionale, di cui fu presidente il Manin e, lui morto, il Pallavicino, vicepresidente il Garibaldi, segretario il siciliano G. La Farina. Il C. non era allora unitario: poiché l'Italia non poteva fare da sé, e bisognava ricorrere all'alleanza della Francia, le sue speranze non andavano oltre un regno italico che, insieme col Piemonte, comprendesse il Lombardo-Veneto e i ducati, paesi annessi già nel 1848, più forse qualche provincia dello Stato della Chiesa. Ma la Società nazionale, spezzando il partito repubblicano e raccogliendo in tutta la penisola le migliori energie per porle disciplinate al servizio del Piemonte, si prestava mirabilmente ai suoi disegni. Perciò la protesse e la sorvegliò, pronto a valersene in campi più vasti se le circostanze lo consigliassero.

Nel gennaio 1857 l'Austria tolse il sequestro ai beni degli emigrati in Piemonte, ma, due mesi dopo, le relazioni diplomatiche si ruppero di nuovo. Sulla fine dell'anno, per l'affare del Cagliari, cioè del bastimento col quale il Pisacane era sbarcato a Sapri, il C. mostrò verso Ferdinando II maggior fermezza della stessa Inghilterra. Al principio del 1858 il Rattazzi, che non aveva saputo impedire né il moto mazziniano di Genova (giugno 1857) né la vittoria di parecchi reazionarî nelle recenti elezioni, si dimise, e allora il Lanza prese il portafoglio delle Finanze e il C. quello dell'Interno. L'attentato Orsini (14 gennaio 1858) parve compromettere tutta l'opera faticosamente compiuta per giungere a un'alleanza offensiva e difensiva con la Francia; ma la legge De Foresta contro gli eccessi della stampa politica (29 aprile) calmò lo sdegno di Napoleone. Il 21 luglio, in un segreto colloquio a Plombières, Napoleone stesso e il C. stabilirono i patti dell'alleanza: la Francia avrebbe avuto la Savoia e Nizza, il Piemonte si sarebbe ingrandito col LombardoVeneto, i ducati, le legazioni, le Marche sino ad Ancona, e avrebbe formato, insieme con la Toscana, lo Stato pontificio e le Due Sicilie, una federazione sotto la presidenza del papa. Il 1° gennaio 1859, durante il ricevimento solenne del corpo diplomatico, Napoleone lanciò il primo squillo di guerra: il 10, inaugurando la nuova legislatura, Vittorio Emanuele pronunziò il memorabile discorso che corse la penisola come una fanfara d'imminente battaglia. Il 18 il trattato e l'annessa convenzione militare furono firmati a Torino, e, il 30, il principe Girolamo Bonaparte sposò, com'era convenuto, la principessa Clotilde, figlia del re. Ma allora, mentre fervevano i preparativi bellici, vennero per il C. giorni terribili di trepidazione e di angoscia. L'Inghilterra, temendo che l'Italia cadesse sotto la supremazia francese, si adoperava per la pace. La Russia proponeva un congresso, e l'Austria vi acconsentiva purché il Piemonte disarmasse. Napoleone sembrava esitare. Il C. respingeva il disarmo e chiedeva che almeno al congresso fossero ammessi, con voto deliberativo, tutti gli stati italiani. Il 25 marzo partì per Parigi, e tornò il 1° aprile irritatissimo per non aver nulla ottenuto. Minacciava di pubblicare le promesse che Napoleone gli aveva fatte in iscritto. Tra schermaglie diplomatiche-venne così il 18 aprile, quando giunse il dispaccio del Walewsky con le definitive proposte anglo-francesi e con l'ordine al C. d'assentirvi senza indugio: disarmo simultaneo del Piemonte e dell'Austria, ammissione degli stati italiani al congresso a titolo consultivo. Il C. dovette cedere, ma cadde in tale scoraggiamento che pensò persino a uccidersi per non sopravvivere alla distruzione della sua opera. L'amico Castelli lo confortò e il 19 arrivarono telegrammi di Napoleone e del principe Girolamo che gli ridettero qualche speranza. Contemporaneamente giunse la notizia che l'Austria respingeva le proposte anglo-francesi ed aveva anzi già spedito un ultimatum per imporre essa stessa al Piemonte il disarmo entro tre giorni. Era la vittoria del grande ministro. Il 23 aprile la Camera diede al re poteri dittatoriali, e il 26 l'ultimatum austriaco ebbe l'atteso rifiuto. "Alea iacta est !", esclamò tutto felice il C., stropicciandosi le mani, "esco dalla tornata dell'ultima Camera piemontese: la prossima sarà quella del regno d'Italia. Abbiamo fatto della storia. E ora andiamo a pranzo".

L'armistizio di Villafranca (11 luglio) fu per lui un nuovo colpo: dopo tante speranze la guerra terminava con l'acquisto della sola Lombardia, senza Mantova e Peschiera. L'Italia centrale, sospese le sorti di Parma, doveva tornare agli antichi sovrani! Il C. accorse a Monzambano e consigliò il re a non firmare l'armistizio e a continuare per suo conto la guerra, ma, sebbene trascendesse persino a parole poco rispettose, non poté indurlo a quella follia. Diede quindi le dimissioni e tornò a Torino per consegnare il potere a un ministero Rattazzi-Lamarmora. Era al colmo dell'esasperazione e dell'ira, non voleva sentire scuse, e fece al Pieri, amico e confidente di Napoleone, una violenta scenata: "Il vostro imperatore mi ha disonorato... Ma ve lo dico io: questa pace non si farà... Mi farò cospiratore, mi farò rivoluzionario, ma questo trattato non sarà eseguito. No, mille volte no. Mai, mai!". Tuttavia, quando seppe che della cessione della Savoia e di Nizza non si sarebbe più parlato, ritrovò l'equilibrio e comprese in breve che l'Italia, riacquistata a Villafranca la sua libertà di movimento, senza perdere per questo le simpatie napoleoniche, poteva trarre da quella pace insperati vantaggi. L'energia della Società nazionale e del Farini e del Ricasoli nell'Emilia e nella Toscana, l'abilità di Costantino Nigra a Parigi, il mutato atteggiamento dell'Inghilterra, che divenne allora favorevole alla formazione d'un grande stato italiano, spianarono la via alle annessioni. Il 20 gennaio 1860 il re, passando sopra ai suoi risentimenti personali, richiamò al governo il C.; nel marzo, col consenso della Francia e dell'Inghilterra, si fecero i plebisciti nell'Emilia e nella Toscana; il 2 aprile finalmente fu inaugurato a Torino il Parlamento dell'Italia settentrionale e centrale. In quel medesimo mese, secondo lo spirito dei patti di Plombières, la Savoia e Nizza furono consegnate alla Francia.

A questo punto il C. avrebbe voluto fermarsi "per qualche anno", ma il moto unitario aveva preso ormai tale slancio ch'egli non osò opporsi alla partenza dei Mille (6 maggio), anzi, affinché incontrando la flotta borbonica non incorressero in un disastro che avrebbe suscitato contro di lui i più gravi sospetti, li fece scortare dalle navi del Persano sino nelle acque della Sicilia. Dopo la liberazione di Palermo (6 giugno) l'impresa passò sotto la sua diretta responsabilità. Bisognava rifornire i garibaldini d'armi, di denari e d'uomini, e in pari tempo salvare le forme nei riguardi del giovane sovrano, Francesco II, ch'era congiunto di Vittorio Emanuele; impedire, con l'appoggio della Francia, un intervento europeo, e, a questo scopo, arrestare a Napoli la marcia del Garibaldi, che voleva invece proseguire su Roma; sventare infine le trame dei repubblicani e porre tutto in opera affinché la liberazione di tanta parte della penisola non avvenisse con danno del principio monarchico e del prestigio della casa di Savoia. Tutto questo fu fatto dal C. con abilità somma, senza nessuno scrupolo nella scelta dei mezzi, alternando, secondo le circostanze, la prudenza dello statista all'audacia del rivoluzionario. Intorno a Francesco II fece il vuoto all'interno e all'esterno. Si adoperò, sebbene invano, affinché Napoli si liberasse da sé prima dell'arrivo del Garibaldi, al quale oppose il voto del Parlamento, allorché si ostinava a procrastinare le annessioni. Nel settembre, volendo a ogni costo che il re non si lasciasse sfuggire la direzione del movimento nazionale, accordatosi con Napoleone, mandò l'esercito nelle Marche e nell'Umbria. Il 18 il Cialdini sconfisse i pontifici a Castelfidardo; il 29 Ancona si arrese al Persano. Il 1° ottobre avvenne la battaglia del Volturno, e poco dopo il Garibaldi, facendo forza a sé stesso, ordinò i plebisciti (21-22 ottobre). Qualche giorno innanzi, il re era entrato nel territorio napoletano proclamando, affinché sentissero ugualmente i mazziniani e l'Europa, che veniva a impedire che l'Italia diventasse "il nido delle sette cosmopolite" a servizio "della reazione e della demagogia universale". Il 7 novembre, già caduta Capua, fece il suo ingresso in Napoli; il 9 il Garibaldi partì per Caprera, come "un limone spremuto", lasciando al re l'onore di condurre a termine, con gli assedî di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, l'impresa ch'egli aveva guidata da Calatafimi al Volturno.

Il 14 marzo 1861 fu proclamato il regno d'Italia. La rivoluzione aveva dato forza alla diplomazia, ma, senza la diplomazia, la rivoluzione non avrebbe nulla conchiuso. Ora però lo spirito rivoluzionario, imbaldanzito dalla fortuna, era divenuto l'anima d'un partito detto di azione che, insofferente di indugi, pretendeva di imporsi allo stato e di trascinarlo alle più arrischiate avventure. Forti del nome di Garibaldi, questi uomini volevano recidere con un colpo di spada il nodo gordiano delle intricate questioni di Venezia e di Roma, né erano disposti ad ascoltare i consigli della moderazione e della prudenza. Il C. era capace di tutto, e lo aveva dimostrato a Napoli, quando si trattava degl'interessi supremi della dinastia e del paese, e sentimento e ragionamento lo spingevano, ora come sempre, a muovere incontro alle aspirazioni nazionali. Così appunto da piemontese s'era fatto italiano. Mentre pertanto, non dimenticando Venezia, volgeva l'animo a future alleanze contro l'Austria, tentò di risolvere anzitutto la questione romana, come quella che toccava corde più profonde e offriva alle agitazioni maggiori pretesti, e, sulla fine del 1860, valendosi dell'opera del dottor Pantaleoni e del padre Passaglia, si mise in rapporti diretti col papa. L'accordo, fondato, secondo egli intendeva, sulla formula: Libera chiesa in libero stato, avrebbe dovuto non solo risolvere la questione territoriale, ma anche regolare stabilmente le relazioni tra i due poteri, religioso e civile. Era già la legge delle guarentigie. Ma il tentativo fallì. Allora il C. provocò alla Camera l'interpellanza Audinot che gli diede modo di spiegare come la questione romana dovesse essere risolta con mezzi morali, d'accordo con la Francia, con la completa reciproca indipendenza dello Stato e della Chiesa e con la più ampia libertà del pontefice nell'esercizio del suo alto ministero spirituale. Con queste premesse, Roma fu acclamata capitale d'Italia (27 marzo 1861), e quel voto tagliava corto, per il momento, anche alle impazienze di coloro che, adducendo ovvie ragioni topografiche, negavano la possibilità di mantenere la capitale a Torino. Seguirono subito, per mezzo del Nigra, del Vimercati e del principe Girolamo, trattative con Napoleone per il richiamo dei Francesi da Roma. Le condizioni erano quelle stesse che poi, nel 1864, furono accolte dal Minghetti, tranne la clausola del trasporto della capitale a Firenze, ma per allora non si conchiuse nulla, perché il C. improvvisamente morì.

Gli ultimi suoi giorni furono contristati dal violento attacco che, il 18 aprile, gli mosse alla Camera il Garibaldi a proposito dell'epurazione dell'esercito meridionale. I due grandi patrioti si riconciliarono di lì a poco, ma certe cose, in certi momenti, producono effetti incancellabili. Il C. non aveva abitudini di vita ordinata, ed era inoltre scosso dal lavoro e dalle emozioni. Il 29 maggio si mise a letto; il 2 giugno tornò allo studio e vi persistette sino alla sera, quando lo colse di nuovo la febbre. Sin dal 1856, temendo la sorte di P. Santarosa, s'era assicurato l'assistenza del frate Giacomo da Poirino, vice-parroco della Madonna degli Angeli, che poi fu gravemente punito dallo stesso Pio IX. Sebbene non fosse cattolico praticante e poco sentisse i problemi religiosi, voleva morire nel seno della chiesa e nella fede dei suoi avi. Tra le molte notizie allora diffuse, fu detto che si spegneva mormorando nel delirio al sacerdote che lo confortava con le ultime benedizioni: "Frate, libera chiesa in libero stato". Erano le sei e tre quarti del 6 giugno 1861.

Sin dalla prima giovinezza il C. aveva avuto l'ambizione d'essere il grande ministro d'un paese costituzionale all'inglese. La fede nella libertà, patrimonio delle aristocrazie, e la persuasione, comune al suo tempo, ch'essa potesse poggiare soltanto sugli ordini rappresentativi, sono le sue caratteristiche e costituiscono l'unità mirabile della sua vita. Nel 1861 avrebbe potuto ripetere ciò che nel 1852 aveva detto alla Camera: "Dovessi rinunziare a tutti i miei amici d'infanzia, dovessi vedere i miei conoscenti più intimi trasformarsi in nemici accaniti, non fallirei al dover mio, non abbandonerei mai i principî di libertà ai quali ho votato me medesimo, del cui sviluppo ho fatto il mio compito ed a cui per tutta la mia vita sono stato fedele". Meno sentì il problema nazionale. Piemontese anzitutto, mirò a realizzare, per le vie tracciate dall'esperienza del 1848, quel regno sabaudo dell'Alta Italia ch'era stato l'ambizione e il tormento di Carlo Alberto; ma quando si accorse che si doveva e si poteva ottenere di più, non esitò a farsi italiano e a mettersi risolutamente alla testa del movimento unitario. Il Piemonte era preparato a questa missione unificatrice, e favorevoli erano le condizioni europee, entro le quali essa doveva compiersi. Il C. ebbe la visione esatta della realtà, anzi di tutte le realtà, sino agli estremi limiti del possibile; e tutto il possibile volle conseguire sfruttando tutte le circostanze con sommo ingegno, con ferrea tenacia, con calda passione di artista della politica. Qui è la sua grandezza e la sua originalità. Soprattutto fu un grande diplomatico, ma le risorse della vecchia diplomazia in lui si unirono con l'impeto del rivoluzionario e l'audacia del giocatore d'azzardo. Nessuno può dire che cosa avrebbe fatto per compire l'unità politica della nazione, per risolvere i problemi ideali che il Risorgimento implicava, per dare il . soffio di una vita sua originale al rinnovato popolo d'Italia. Morì, come il Nelson, nella gloria d'un trionfo che pochi anni innanzi era follia sperare; e si può conchiudere che morì in tempo per la sua fama.”

(Francesco Lemmi - Enciclopedia Italiana, 1931, in: www.treccani.it)

Immagini:

4 novembre 1852: Camillo Benso, Conte di Cavour, diventa presidente del Consiglio del Piemonte-Sardegna, che presto si espanderà per diventare Italia.

 

Un brano musicale al giorno

Domenico Natale Sarro, Achille in Sciro, Atto I Scena 2: No, ingrato, amor non senti

(Deidamia) Gabriella Martellacci.
Direttore: Federico Maria Sardelli. Orchestra Internazionale d'Italia.

Domenico Natale Sarri, o Sarro (Trani, 24 dicembre 1679 - Napoli, 25 gennaio 1744), compositore italiano. Le uniche notizie relative alla sua giovinezza e alla sua formazione musicale ci pervengono dal suo contratto di matrimonio del 6 febbraio 1705. Dopo esser giunto a Napoli, fu ammesso al Conservatorio di Sant'Onofrio a Porta Capuana, dove fu allievo di Angelo Durante (lo zio del celebre Francesco Durante). Nel 1702 scrisse la sua prima composizione, l'opera sacra L'opera d'amore, la quale fu rappresentata presso la Confraternita della Santissima Trinità dei Pellegrini. L'anno successivo partecipò a un concorso per occupare il posto di maestro di cappella della corte napoletana lasciato vacante da Alessandro Scarlatti: dovette quindi competere con Gaetano Veneziano, Cristoforo Caresana e Francesco Mancini. Non riuscendo ad ottenere la posizione di direttore titolare, assegnata a Veneziano, prese nel 1704 quella di vice maestro di cappella.

Tra il 1706 e il 1707 compose parecchie opere per i teatri napoletani: nell'estate del 1706 collaborò con il compositore veneziano Tomaso Albinoni nella composizione del dramma La Griselda e la sua prima opera, Candaule, re di Lidia, vide la sua prima nell'ottobre dello stesso anno al Teatro dei Fiorentini. Nel 1707 a causa dell'occupazione di Napoli da parte degli austriaci, Veneziano e Sarro persero i rispetti posti: in loro sostituzione rientrò Alessandro Scarlatti come primo maestro e fu nominato Mancini per la posizione di secondo maestro. Dunque fino al 1709 si dedicò prevalentemente alla composizione di oratori e serenate. Dal 1709 al 1717 la sua produzione musicale subì un forte decremento: in questi anni si ricordano principalmente gli intermezzo Barilotto, rappresentato a Venezia nell'autunno del 1712, due opere messe in scena nel 1713 a Napoli e un gran numero di cantate per la chiesa di San Paolo Maggiore (della quale fu maestro di cappella) e altre chiese napoletane.

Dal 1718 al 1741 si diede alla composizione principalmente di drammi per musica: tra le numerose opere serie si ricordano l'Armida al campo data durante il Carnevale del 1718 al Teatro San Bartolomeo e la Didone abbandonata rappresentata nel 1724 nello stesso teatro con Annibale Pio Fabri, Marianna Bulgarelli e Nicolò Grimaldi, la quale fu la prima messa in musica di un libretto di Pietro Metastasio. Nel 1720, dopo esser stato reintegrato nel ruolo di vice maestro della cappella di corte, il 13 aprile fu nominato anche secondo maestro della cappella della città di Napoli; nel 1728 succedette a Gaetano Greco diventando primo maestro della stessa. Il 21 agosto 1737 occupò inoltre la carica di maestro della cappella reale (succedendo a Mancini). Il 4 novembre con la messa in scena dell'opera Achille in Sciro venne inaugurato il nuovo teatro San Carlo con Vittoria Tesi ed Angelo Amorevoli alla presenza del re Carlo VII di Napoli: seguirono le rappresentazioni dell'Ezio (4 novembre 1741 con Giovanna Astrua e Gaetano Majorano) e dell'Alessandro nelle Indie (Carnevale 1743). Sarro non fu, rispetto ai molti colleghi del suo tempo, un viaggiatore, un uomo cosmopolita, e ciò probabilmente è stata la prima causa del minor diffondersi della sua musica. D'altra parte, fu il primo compositore a mettere in musica un libretto di Metastasio, lanciando di fatto il Poeta Arcade, ed inaugurando quello che sarebbe stato tra i maggiori sodalizi letteratura-musica di ogni tempo. Egli inoltre conobbe la svolta che portò dallo stile codificato da Alessandro Scarlatti e Mancini a quello nel quale l'accompagnamento al canto subì un'ulteriore semplificazione con Nicola Porpora, Leonardo Vinci, Leonardo Leo e altri compositori più giovani. Ciò influì, come già nella musica di Georg Friedrich Händel, sul suo stile. Infatti, nelle sue prime composizioni si denota uno stile in linea con quello di Scarlatti, dove il contrappunto riveste un ruolo non marginale, mentre dal 1718, nelle sue opere serie, questo viene sempre meno nella struttura musicale e le melodie iniziano ad acquisire maggior importanza, oltre ad un maggiore sviluppo, guadagnandone in bellezza. Forse per questa caratteristica, il viaggiatore e musicografo Charles Burney lo considerava un "imitatore" più che un "inventore" trovando che il suo stile aveva molto in comune con quello di Vinci. Dopo il 1726, la nuova generazione di autori napoletani di Leo e di Hasse nello scenario musicale di Napoli, unito alla sua nomina di maestro di cappella che potrebbe avere determinato un maggiore impegno nella musica sacra, ridussero significativamente i suoi lavori e successi operistici. Il suo prestigio non dovette tuttavia soffrirne dal momento che re Carlo lo nominò maestro di cappella regio per affidargli l'opera di inaugurazione del Teatro San Carlo.

Per quanto riguarda i suoi lavori sacri, si sa quanto riportato dal Dizionario storico di Giuseppe Bertini ossia che furono, tra l'altro, molto apprezzati in Germania. Recentemente diversi dischi con musiche strumentali, operistiche e sacre a lui intestate hanno svelato un compositore di valore, certamente da rivalutare a scapito del sommario giudizio di Burney, sul quale, come riferito dal baritono Peter van der Graaf nel libretto di uno di questi dischi, è stato costruito l'attuale giudizio dei musicologi.”

(In: wikipedia.org)

Teatro San Carlo di Napoli 

4 novembre 1737: inaugurazione del teatro San Carlo di Napoli con la rappresentazione dell'Achille in Sciro di Domenico Sarro, tratta dall'opera di Metastasio.

“Il Teatro di San Carlo, noto semplicemente come Teatro San Carlo, è un teatro lirico di Napoli, tra i più famosi e prestigiosi al mondo, fondato nel 1737. Può ospitare 1386 spettatori e conta una vasta platea (22×28×23 m), cinque ordini di palchi disposti a ferro di cavallo più un ampio palco reale, un loggione ed un palcoscenico (34×33 m). Date le sue dimensioni, struttura e antichità è stato modello per i successivi teatri d'Europa.

Affacciato sull'omonima via e, lateralmente, su Piazza Trieste e Trento, il teatro, in linea con le altre grandi opere architettoniche del periodo, quali le grandi regge borboniche, fu il simbolo di una Napoli che rimarcava il suo status di grande capitale europea.

Fondato per volontà di Carlo di Borbone, costruito da Giovanni Antonio Medrano e Angelo Carasale per una capienza da 3.000 posti, fu inaugurato il 4 novembre 1737, proprio in occasione del giorno dell'onomastico del re, dal quale prese il nome il teatro. L'opera che per prima in assoluto andò in scena fu l'Achille in Sciro di Domenico Sarro e libretto di Pietro Metastasio con Vittoria Tesi, Angelo Amorevoli e il soprano Anna Peruzzi alla presenza del re. A Domenico Sarro vennero pagati, con apposita polizza emessa nel dicembre del 1737, 220 ducati «in soddisfazione della composizione del prologo ed opera in musica intitolata Achille in Sciro che si è rappresentata nel Teatro Reale di San Carlo il dì 4 novembre prossimo passato».

Inizialmente fu sede esclusivamente dell'opera seria; l'opera buffa si dava in altre sedi della città, come il teatro Mercadante (al tempo denominato "Fondo dei Lucri") o il San Bartolomeo o il teatro dei Fiorentini.

Nei primi anni gli artisti che si esibivano sul palcoscenico erano prettamente quelli di scuola napoletana, provenienti dai conservatori della città. Questi erano su tutti: Leonardo Leo, Niccolò Porpora, Leonardo Vinci, Johann Adolf Hasse, Gaetano Latilla, Niccolò Jommelli, Baldassarre Galuppi, Niccolò Piccinni, Antonio Maria Gaspare Sacchini, Carlo Broschi, Tommaso Traetta, Giacomo Tritto, Giovanni Paisiello e Domenico Sarro.

Tra i cantanti si registrano i nomi della Tesi, Amorevoli, Anna Lucia De Amicis, Celeste Coltellini e Gaetano Majorano.

Nel frattempo, il prestigio del San Carlo crebbe al punto da attirare diverse illustri personalità di fama internazionale. Andò infatti in scena nel 1752 la prima assoluta di Clemenza di Tito di Christoph Willibald Gluck con successo con Majorano, nel 1761 il Catone in Utica e nel 1762 l'Alessandro nell'Indie entrambe prime assolute di Johann Christian Bach, mentre negli anni successivi vi giunsero come ospiti Georg Friedrich Händel, Franz Joseph Haydn e il giovane Mozart, il quale comparve tra gli spettatori nel 1778.

Nel 1774 avviene il successo della prima di Alessandro nell'Indie di Niccolò Piccinni con Gaspare Pacchierotti e nel 1779 di Ifigenia in Aulide di Vicente Martín y Soler con Luigi Marchesi e Giovanni Ansani.

Intanto sul finire del Settecento il San Carlo accolse anche uno due dei più illustri compositori europei e uno dei più importanti esponenti della scuola musicale napoletana, Domenico Cimarosa. Il Cimarosa, che era fino ad allora andato in scena solo nei teatri dei Fiorentini e San Bartolomeo, debuttò al teatro Massimo di Napoli solo nel 1782 con L'eroe cinese (dramma su libretto di Pietro Metastasio), nel 1783 con Oreste per poi ritornare in scena solo in un'altra occasione, nel 1797, con l'Artemisia regina di Caria (dramma su libretto del Marchesini). A Giovanni Paisiello, nel 1787, viene dato il compito di "sovrintendere all'Orchestra del San Carlo".

Nel 1799, durante la Repubblica Napoletana, il San Carlo assunse la denominazione di Teatro Nazionale di San Carlo. Una volta caduta la Repubblica, poi, ritornò alla precedente denominazione….

… Il teatro, costruito su progetto di Giovanni Antonio Medrano, Colonnello Brigadiere spagnolo di stanza a Napoli e Angelo Carasale, già direttore del teatro San Bartolomeo, sorge addossato al lato nord del palazzo reale col quale è comunicante mediante una porta che si apre proprio alle spalle del palco reale, in modo che il re potesse recarsi agli spettacoli senza dover scendere in strada. I lavori, ultimati in circa otto mesi a un costo complessivo di 75 mila ducati, videro la realizzazione di una sala lunga 28,6 metri e larga 22,5 metri con 184 palchi disposti in sei ordini, più un palco reale capace di ospitare dieci persone, per una capienza complessiva all'epoca di 1379 posti. Il progetto introduce la pianta a ferro di cavallo, la più antica del mondo, modello per il teatro all'italiana. Su questo modello furono costruiti i successivi teatri d'Italia e d'Europa, tra gli altri, il teatro di corte della reggia di Caserta che diventerà il modello di altri teatri italiani come il Teatro alla Scala di Milano. Nel 1767 Ferdinando Fuga eseguì gli interventi di rinnovamento in occasione del matrimonio di Ferdinando IV con Maria Carolina e nel 1778 ridisegnò il boccascena.

Nel 1797 fu realizzato un restauro delle decorazioni della sala per opera di Domenico Chelli. Nel 1809 Gioacchino Murat incaricò l'architetto toscano Antonio Niccolini per il progetto della nuova facciata principale che fu eseguita in stile neoclassico traendo ispirazione dal disegno di Pasquale Poccianti per la villa di Poggio Imperiale di Firenze.

Il teatro fu ricostruito in soli nove mesi su progetto dello stesso Niccolini, dopo un incendio che lo distrusse nella notte del 13 febbraio 1816. La ricostruzione lo restituì alla città nelle sembianze attuali, eccetto i colori che continuarono a essere quelli originari del 1737. Questi, capaci di donargli un aspetto ancora più atipico di quello contemporaneo, vedevano le decorazioni in argento brunito con riporti in oro (oggi tutte in oro) mentre i palchi così come il velario e il sipario, in azzurro (oggi rossi); questi tutti colori ufficiali della Casa Borbonica. Solo il palco reale era rosso “pallido” (così lo definì Stendhal), prima che diventasse rosso fuoco tutta la tappezzeria del teatro. I cambiamenti avuti nel 1816 riguardarono: il palcoscenico, che fu ampliato fino a superare per grandezza la platea; il soffitto, che fu sollevato rispetto al velario del Cammarano eseguito nella stessa occasione; infine fu aggiunto il proscenio.

Nel 1834 fu avviato un nuovo restauro per opera del medesimo Niccolini. Per scelta di Ferdinando II, nel 1844-45, i colori autentici in azzurro e argento-oro furono sostituiti con l'abbinamento rosso e oro, tipico dei teatri d'opera europei. Francesco Gavaudan e Pietro Gesuè, con la demolizione della Guardia Vecchia, realizzarono il prospetto occidentale, verso il palazzo reale.

Nel 1872, su suggerimento di Giuseppe Verdi, fu costruito il "golfo mistico" per l'orchestra; al 1937 invece risale il foyer collegato, tramite uno scalone monumentale a doppia rampa, ai giardini reali dell'adiacente palazzo. Distrutto durante i bombardamenti di Napoli del 1943, nell'immediato dopoguerra fu rifatto così com'era.

Il 27 marzo 1969 il gruppo scultoreo niccoliniano della Partenope, presente sull'acroterio centrale del frontone della facciata principale, si sgretolò a causa di un fulmine e delle infiltrazioni piovane: tale avvenimento rese necessario rimuoverne una parte. Nei primi anni settanta, dopo un incendio della copertura, fu rimosso anche quanto sopravvissuto dell'originale gruppo scultoreo in muratura e stucco….”

 

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.