“L’amico del popolo”, 6 settembre 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

HAKUCHI (L’idiota, Giappone, 1951), regia di Akira Kurosawa. Prodotto da Takashi Koide. Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Eijirō Hisaita. Dal romanzo L’idiota di Dostoevsky. Musiche: Fumio Hayasaka. Fototgrafia: Toshio Ubukata. Montaggio: Akira Kurosawa. Cast: Masayuki Mori come Kinji Kameda, l’idiota. Toshiro Mifune come Denkichi Akama. Setsuko Hara come Taeko Nasu. Yoshiko Kuga come Ayako. Takashi Shimura come Ono, padre di Ayako. Chieko Higashiyama come Satoko, madre di Ayako. Eijirō Yanagi come Tohata. Minoru Chiaki come Mutsuo Kayama, il segretario. Noriko Sengoku come Takako.

HAKUCHI (L’idiota, Giappone, 1951), regia di Akira Kurosawa

“Kinji Kameda, finito per errore davanti ad un plotone di esecuzione, è rimasto profondamente sconvolto da questa esperienza; in seguito al suo ricovero per una crisi epilettica si è posto come unico obiettivo quello di aiutare il prossimo, diventando una persona buona ed onesta. Recatosi ad Hokkaidō per far visita ad Ono, un suo parente, conosce Akama, un uomo violento e dalla condotta immorale, il quale gli racconta della sua passione per Taeko Nasu e della sua intenzione di farla sua sposa. Kameda, vedendone un ritratto, riconosce negli occhi della donna lo sguardo di una persona che ha sofferto molto in vita sua e se ne invaghisce. Taeko, amante del ricco Tohata e legata a lui sin dall'adolescenza, è promessa sposa di Kayama e durante la festa che dovrebbe sancire il loro fidanzamento, rimane affascinata dalla bontà d'animo di Kameda; su suo consiglio decide di mandare a monte le nozze ma allo stesso tempo rifiuta la proposta dell'uomo, troppo puro di cuore per potersi rovinare la vita legandosi ad una reietta come lei. La donna, sebbene innamorata di Kameda, decide così a malincuore di accettare la corte di Akama. Tempo dopo Kinji, dopo essersi trasferito a Tokyo, ritorna in città ed inizia a frequentare Ayako, figlia di Ono; ma presto tra i due si insinuerà l'ombra di Taeko, ancora innamorata di Kameda con cui ha avuto una fugace relazione. Ma Akama, resosi conto di aver ormai perduto la sua amata Taeko, decide di ucciderla, accoltellandola nel sonno; ormai in preda alla follia, avverte Kameda di ciò che è accaduto e i due rivali, in un ultimo gesto di affetto nei riguardi di Taeko, veglieranno la sua salma tutta la notte, al gelo, per poi morire abbracciati l'un l'altro.

Il regista sposta l'azione del romanzo dalla San Pietroburgo del 1800 al Giappone post-bellico; nel film Kameda (Masayuki Mori) e Akama (Toshirō Mifune), interpreti del tema del "doppio", rappresentano i due volti della pazzia. Quella bonaria e solare del protagonista (Myškin nel romanzo originale) e quella cupa e feroce del suo antagonista (Rogožin). I due si contendono l'affascinante Taeko (Nastas'ja in originale, interpretata da Setsuko Hara). Caino e Abele moderni, si divideranno l'amore e la morte della donna contesa per poi morire abbracciati in un gesto di estremo affetto.”

(In wikipedia.org)

HAKUCHI (L’idiota, Giappone, 1951), regia di Akira Kurosawa

“Kurosawa trasporta il romanzo di Dostoevskij nel Giappone post-bellico, tra le nevi di Hokkaido: ed è affascinato da un personaggio “assolutamente buono”, ridicolizzato da una società che pensa solo al denaro ed è incapace di scalfire l'orgoglio delle persone. I produttori ridussero i 265' originari e il film fu un grande successo: di pubblico, ma non di critica. Alcune sequenze visionarie appartengono ai vertici dell'arte del regista: le allucinazioni ottiche e sonore di Kameda nella città, la veglia funebre finale in cui lo stesso Kameda offre il suo conforto all'assassino (interpretato da Toshiro Mifune).”

(In www.cicibi.ch)


“Il romanzo di Fedor Dostoevskij, uno dei capisaldi della produzione letteraria russa, è un'opera talmente immensa e raffinata che nessuna trasposizione cinematografica ha saputo soddisfare il messaggio che l'autore sovietico provò a lanciare.
D'altronde Dostoevskij scrisse la storia di un Cristo del suo secolo, basandosi su una meravigliosa parola russa, prekrasnyj, che sta a indicare un personaggio bello e buono contestualmente, il kalos kai agathos dei greci che in italiano, purtroppo, venne localizzato come "idiota". Kurosawa decise di usare la parola "Hakuchi" per proporlo in versione giapponese, nella sua accezione di "persona mentalmente deficitaria".
Andrej Tarkovskij dichiarò che dopo aver visto L'Idiota di Kurosawa non si sarebbe mai azzardato a proporre la propria versione del romanzo di Dostoevskij.
L'idea del regista giapponese, però, si sposta sulla dicotomia tra il bene e il male, proponendo una versione più moderna di Caino e Abele, con Masayuki Mori che rappresenta il principe Myskin, l'epilettico protagonista del romanzo russo, e Toshiro Mifune nei panni di Rogozin, l'antagonista incontrato sul treno dall'Idiota.
L'opera di Kurosawa non venne subito apprezzata in Giappone, tant'è che bisognò attendere la vittoria al Festival di Venezia con il suo Rashomon per poter rivalutare L'Idiota, film che lo stesso Kurosawa avrebbe voluto realizzare prima della pellicola poi vittoriosa in Italia.
Per il Morandini, a oggi, resta il più sconvolgente film dostoevskiano mai realizzato, e trovandoci dinanzi a uno dei romanzi più sinceri e umani della storia della letteratura non possiamo sottrarci alla visione dell'opera di Kurosawa.”

(cinema.everyeye.it)

HAKUCHI (L’idiota, Giappone, 1951), regia di Akira Kurosawa

“Kameda è un puro di cuore, un inetto che si disinteressa al denaro e alla ricchezza. Soffre di un grave disturbo psichico (demenza epilettica), provocato da uno shock subito durante la guerra, quando fu condotto, per errore, davanti al plotone d’esecuzione, per poi essere salvato all’ultimo momento. Akama è un uomo violento e immorale, che conosce Kameda durante un viaggio ad Hokkaido. I due uomini s’innamoreranno della stessa donna, la bella Taeko, e la cosa avrà conseguenze tragiche. Straordinaria trasposizione di Kurosawa di uno dei capolavori assoluti della letteratura mondiale, “L'idiota” di Fëdor Dostoevskij, lo scrittore più amato dal grande regista giapponese. Kurosawa sposta l’azione del romanzo dalla Russia aristocratica di fine ‘800 al nord del Giappone del primo dopoguerra, scegliendo come ambientazione la ricca borghesia mercantile. Come nel libro i due protagonisti maschili, egregiamente interpretati da Masayuki Mori e Toshiro Mifune, incarnano il tema del “doppio”, moderni Caino e Abele, due facce diverse della follia. La follia bonaria di Kameda e quella crudele di Akama. Il regista intendeva realizzare un film di quattro ore e mezza diviso in due parti, ma le lunghe divergenze con la produzione lo costrinsero ad un unico film ridotto a due ore e quarantacinque minuti. Purtroppo i tagli imposti dalla casa produttrice Shochiku sono andati perduti per sempre. Alla sua uscita fu un fiasco clamoroso, stroncato da tutta la critica giapponese, per essere poi rivalutato, qualche anno dopo, in seguito alla vittoria del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia di Rashomon. L’adesione di Kurosawa al testo (sacro) di Dostoevskij, se apparentemente infedele nella forma, è addirittura pedissequa nello spirito dell’opera, riprodotto con rigore maniacale nel profondo scavo psicologico dei personaggi, nella verbosità plateale, nella tragica solennità, nelle atmosfere austere accentuate dalle musiche di Fumio Hayasaka. Lo sfasamento geografico, temporale e sociale, causato dalle modifiche apportate dal regista alle ambientazioni della vicenda, produce un meraviglioso effetto straniante che trova il massimo tripudio artistico nelle scene nevose sui ghiacci di Sapporo. In questo scenario candido, asettico, che simboleggia la purezza di spirito di Kameda, il film assume un tono onirico, allucinato, simbolicamente agghiacciante. E la tragedia che si compie nella memorabile sequenza finale diventa di altezza universale, assoluta, irreversibile. Kurosawa ricrea il capolavoro di Dostoevskij, rispettandone l’anima ma rivestendone la forma di nuova linfa, di puro genio visionario, di vibrante intensità drammatica. E’ uno dei rari casi di adattamento letterario fedele ma autonomo. Il grande regista russo Tarkovskij rese un esplicito omaggio a questo film dicendo: “adoro Dostoevskij, ma non filmerò mai L'idiota dopo Kurosawa”.”

(In orizzonticinefili.blogspot.com)

  • Il film: El Idiota - Akira Kurosawa - 1951 Ciclo de Cine Japonés

 

6 settembre 1998 muore Akira Kurosawa

Akira Kurosawa (Tokyo, 23 marzo 1910 - Tokyo, 6 settembre 1998) regista, sceneggiatore, montatore, produttore cinematografico e scrittore giapponese. Riconosciuto come una delle personalità cinematografiche più significative del XX secolo, è tra i più importanti cineasti giapponesi. Ha ottenuto tra i vari premi ricevuti il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, la Palma d'oro al Festival di Cannes nel 1980, il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia nel 1982 e l'Oscar alla carriera nel 1990.

Kurosawa nacque a Ōimachi nel distretto Ōmori di Tokyo. Il padre Isamu (1864–1948) era il discendente di una nobile famiglia della prefettura di Akita che annoverava fra gli antenati il celebre samurai Sadatō Abe (1015-1062); fu tra i primi laureati dell'Accademia Imperiale Toyama e un apprezzatissimo insegnante di arti marziali; la madre Shima (1870–1952) proveniva da una famiglia di mercanti di Osaka. Akira fu l'ultimo di otto fratelli. Il regista nella sua autobiografia ricorda l'influenza che il padre esercitò su di lui: oltre a promuovere l'esercizio fisico - Akira era il capitano del club di kendo della sua scuola - Isamu Kurosawa era aperto alle tradizioni occidentali, considerava il teatro e il cinema educativamente preziosi e Akira vide i suoi primi film all'età di sei anni. Grazie a un insegnante di scuola elementare, il signor Tachikawa, fu incoraggiato nella passione per il disegno. Alla scuola elementare incontra anche un amico che gli sarà caro per tutta la vita, Keinosuke Uegasa, che diventerà scrittore e collaborerà ad alcuni suoi film. Un'altra importante influsso sulla sua formazione lo esercitò Heigo, il fratello più grande di quattro anni. Con lui scoprì il piacere di discutere di letteratura e l'amore per i grandi classici giapponesi ma anche occidentali come Shakespeare e Dostoievkij. All'inizio degli anni Venti Heigo trovò lavoro come Benshi nelle sale cinematografiche di Tokyo. Akira inizierà a formarsi una eccellente cultura cinematografica vedendo tutti i film importanti segnalatigli dal fratello. Ma l'avvento del cinema sonoro mise in crisi il lavoro di commentatore dei film muti e Heigo si suicidò nel 1933 all'età di ventotto anni.

Nel 1935, Akira che ormai cominciava a pensare di non avere futuro come pittore, lesse sul giornale che lo studio cinematografico Photo Chemical Laboratories, noto come P.C.L. (che in seguito divenne il grande studio Toho), assumeva assistenti alla regia. Partecipò alle prove e fu assunto. Durante i suoi cinque anni come aiuto regista, lavorò con numerosi registi, ma la figura di gran lunga più importante per lo sviluppo del suo talento fu Kajirō Yamamoto. Dei suoi 24 film come assistente, 17 furono di Yamamoto che lo promosse da terzo assistente alla regia a vicedirettore dopo un anno. L'ultimo film in cui Kurosawa fu assistente di Yamamoto fu Horse (Uma, 1941). Yamamoto consigliò a Kurosawa che un buon regista doveva padroneggiare la sceneggiatura e Kurosawa si rese presto conto che i potenziali guadagni dalle sue sceneggiature erano molto più alti di quelli che gli venivano pagati come aiuto regista. In seguito scrisse le sceneggiature di quasi tutti i suoi film e spesso fornì sceneggiature ad altri registi.

Kurosawa cercò una storia adatta ad avviare la sua carriera da regista. Verso la fine del 1942, circa un anno dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor, il romanziere Tsuneo Tomita pubblicò il suo romanzo di judo ispirato a Musashi Miyamoto, Kurosawa convinse la Toho di assicurarsi i diritti del film e iniziò le riprese. La produzione procedette senza intoppi, ma il film incontrò le resistenza dell’ufficio di censura: l'intervento del regista Yasujirō Ozu fu determinante affinché fosse accettato. Sanshiro Sugata fu un successo sia critico che commerciale. Il film successivo ebbe come tema le lavoratrici di guerra: l'attrice che interpretava il capo delle operaie della fabbrica, Yōko Yaguchi divenne la moglie del regista nel 1945. Poco prima del matrimonio, Kurosawa fu convinto dallo studio a dirigere un sequel del suo film d'esordio, Sanshiro Sugata Parte II.

Dopo la guerra il primo film realizzato Non rimpiango la mia giovinezza (1946), Il successivo, Una meravigliosa domenica, fu presentato per la prima volta nel luglio del 1947 ed ebbe recensioni contrastanti. Fu la prima collaborazione con l’attore Toshiro Mifune. L'Angelo ubriaco è considerato il primo grande lavoro del regista. Kurosawa, con il produttore Sōjirō Motoki e i colleghi registi e amici Kajiro Yamamoto, Mikio Naruse e Senkichi Taniguchi, formarono una nuova unità di produzione indipendente chiamata Film Art Association (Eiga Geijutsu Kyōkai). Per il primo film per gli studi Daiei, Kurosawa scelse una commedia contemporanea di Kazuo Kikuta e, insieme a Taniguchi, l'adattò per lo schermo, Il duello silenzioso. Nelle sale nel marzo del 1949 fu un successo al botteghino. Il suo secondo film del 1949, prodotto anche dalla Film Art Association e distribuito da Shintoho, fu Cane randagio, un film poliziesco. Fu la prima collaborazione del regista con lo sceneggiatore Ryuzo Kikushima, che in seguito avrebbe contribuito alla sceneggiatura di altri otto film di Kurosawa. Scandalo (Shubun) uscì nell'aprile del 1950. Kurosawa fu avvicinato dagli studi di Daiei per fare un altro film per loro. Le riprese di Rashomon iniziarono il 7 luglio 1950 e, dopo un lungo lavoro di localizzazione nella foresta vergine di Nara, terminarono il 17 agosto. il film finito fu presentato per la prima volta al Teatro Imperiale di Tokyo il 25 agosto. Il film in Giappone fu accolto da recensioni tiepide, ma ottenne il Leone d'oro alla mostra cinematografica di Venezia. «“Certi critici dividono le mie opere in due categorie (sempre questa mania di schematizzare): film in costume (Jidai geki) e film contemporanei (Gendai geki). Personalmente non vedo differenze tra queste due “categorie”. È il soggetto che impone la forma in cui verrà trattato. Alcuni li si può svolgere meglio e con più libertà ambientandoli nel passato. È il caso di Barbarossa che descrive la miseria del Giappone odierno alla stessa stregua di Dodes'ka-den. In un Jidai geki è più facile sottrarsi ai ricatti della censura produttiva e distributiva. In genere dopo un film moderno, soprattutto se impegnativo, sento l'esigenza di cambiare aria e mi cimento con soggetti più avventurosi e disinvolti (dopo Vivere ho girato I sette samurai). Il genere storico offre altri vantaggi: la spettacolarità, l'avventura, elementi essenziali al cinema, ne costituiscono lo charme. In un film sul presente l’elemento avventuroso si colloca su un piano, come dire, metafisico, o morale, o sociale, mentre nel genere storico è azione, spettacolo puro. Io amo il cinema d'azione, mi piace raccontare storie.»

(Koichi Yamada, L'Empereur: entrétiens avec Kurosawa Akira (Intervista ad Akira Kurosawa), in Cahiers du Cinéma, n. 182, settembre 1966, pp. 34-42)

...Infatti nella produzione del regista si alternano film moderni e film in costume. Dopo aver girato L'idiota e Vivere torna ad esplorare i secoli bui del medioevo giapponese e nel 1954 gira quello che può essere considerato il suo capolavoro epico I sette samurai. Diresse anche molti adattamenti di classici della letteratura occidentale, come gìà L'idiota, tratto dal romanzo omonimo di Fëdor Dostoevskij, I bassifondi sarà tratto dal romanzo di Maksim Gorkij; Anatomia di un rapimento da Due colpi in uno dello scrittore statunitense Ed McBain.

Nel 1970, insieme a Masaki Kobayashi, Kon Ichikawa e Keisuke Kinoshita, fondò la casa di produzione indipendente Yonki-no-Kai. L'unico film prodotto dalla società fu Dodes'ka-den, film a episodi incentrati sui disadattati e gli emarginati della società giapponese, che purtroppo non fu apprezzato.
Dopo l'insuccesso di Dodes'ka-den e il tentativo fallito di lavorare su un progetto di Hollywood, Tora! Tora! Tora! durante il quale la 20th Century Fox lo rimpiazzò con Kinji Fukasaku, Kurosawa attraversò un periodo di profonda depressione. Riuscì ad uscirne grazie alla proposta ricevuta nel 1972 dal regista russo Sergej Gherasimov di girare un film in Unione Sovietica. Fu così che nacque l'idea per Dersu Uzala, ambientato in Siberia nei primi anni del XX secolo. Seguirà Kagemusha - L'ombra del guerriero (coprodotto da Francis Ford Coppola e George Lucas), il sosia di un nobile medievale che prenderà possesso della sua identità, che si aggiudicò la Palma d'oro ex aequo con All That Jazz - Lo spettacolo comincia; Ran, prodotto con la Francia, che divenne un vero e proprio successo internazionale.

Gli ultimi film del regista sono opere intime, familiari, spesso autobiografiche: Sogni, Rapsodia in agosto e Madadayo - Il compleanno. Kurosawa continuò a scrivere e dirigere film fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1998. La sua tomba si trova a Kamakura presso il cimitero del tempio buddista An'yō-in.”

(In wikipedia.org)



Una poesia al giorno

Capodanno a Milano, di Gaio Fratini (da Italici piangenti, Longanesi, 1988)

Il gran tripudio dei consumi futili
intimi caminetti crocefigge.
Milano ostenta nebbie tecnologiche,
ogni autonomo indossa un grigio smog.

Flatus vocis, tu, Krizia, a pompeiani
reperti regredisci, a etruschi buccheri
di mercanti, usurai, trafugatori
fossili icone affidi, danze falliche.

Il mongolico ghigno d'una bambola
tanto sola e perversa nel funereo
baby-doll non vuol fiori ma archibugi
di patrioti caduti a Custoza.

Sale la Borsa delle invitte azioni
transessuali, lottano i castori
contro i leopardi. Un industriale tutto
di vetro e di cemento sega il cuore
galeotto di Dora con la lima
di diamante, orchidee di Singapore
fioccano - jet a jet - lungo le piste
della Malpensa. Il neon d'una epilettica
insaziata Milano buon Natale
augura ai drudi suoi. Troia in visone
acquista un incensiere porta-gioie,
un gotico ciborio per fiammanti
epistole, piviali, e da mutare
in mobiletto-bar questo tarlato
sghembo inginocchiatoio del Seicento.

A San Babila il re
della gomma sintetica ha creato
una Cariddi elastica che dondola
sul velluto di bare convertibili
in due piazze per coiti marca-tempo.

Scilla in slip s'è stesa
sul catafalco d'uno yacht, lo scheletro
che salpa beve a sorsi ilari il vento.

 

 

Gaio Fratini (Città della Pieve, 6 settembre 1921 - Orvieto, 31 gennaio 1999) poeta, giornalista scrittore e critico televisivo italiano. È considerato uno dei maggiori epigrammisti italiani.
Redattore de Il Caffè di Giambattista Vicari dal 1960 al 1992 (di cui ha curato nel 1992 un'antologia in volume, pubblicata dall'editore Lubrina), ha curato con Antonio Delfini ed Ennio Flaiano l'Almanacco del Pesce d'Oro (1960).
Tra le sue raccolte di poesia si ricordano: I poeti muoiono (1952), Il Re di Sardegna (1961), La signora Freud (1964), Il caffè delle Furie, Italici piangenti e La luna in Parlamento (1973), Un derby in maschera (1985), Italici piangenti (1988) e La matita di Minerva. Poesie, 1945-1999 (2000, a cura di Paolo Mauri). Ha collaborato con La fiera letteraria, Il Mondo, Tempo Illustrato, La Voce Repubblicana, Il Gatto Selvatico rivista dell'ENI (all'epoca di Enrico Mattei), Il Guerin Sportivo, Corriere dello Sport, Playboy, "L'Italia" rivista Enit. Autore radiofonico per la Rai" commedie, interviste e altro. Redattore della trasmissione sportiva Rai "Dribbling" con Maurizio Barendson e Paolo Valenti (anni '70). È stato uno dei redattori anonimi de "Il Male" Autore di testi per Laura Betti "La potentissima signora" (Longanesi). Ha raccolto l'antologia La rivolta delle muse. Epigrammi d'Italia (1994).
È stato anche sceneggiatore per film di Pietro Francisci "Le fatiche di Ercole (1958) e Domenico Paolella " Totò Destinazione Piovarolo" 1954 e per Boccaccio '70 di Federico Fellini. "I Tartari" 1956. Keep Britain Sexy (BBC 1970) regia e sceneggiatura.”

(In wikipedia.org)

6 settembre 1921 nasce Gaio Fratini, poeta e giornalista italiano (morto nel 999)

 

Un fatto al giorno

6 settembre 1955: si compì il Pogrom d'Istanbul, saccheggio premeditato e tollerato dalle autorità diretto a colpire la minoranza greca (forte allora di 100.000 elementi), ma anche ebrei ed armeni che vivevano in città. Tra 13 e 16 greci morirono durante o dopo il pogrom a causa delle bastonate e degli incendi appiccati.

“Il Pogrom d'Istanbul (o Disordini di Istanbul), fu un pogrom, un saccheggio premeditato e tollerato dalle autorità, in prima istanza diretto a colpire tra il 6 ed il 7 settembre 1955 la minoranza greca di Istanbul, composta da circa 100.000 persone. Furono colpiti anche ebrei e armeni che vivevano in città, subendo danni nelle loro attività commerciali o aggrediti fisicamente.
Il pogrom venne orchestrato dal Partito Democratico Turco, al governo con il suo Primo ministro Adnan Menderes, e dal Partito "Cipro è turca". I disordini furono innescati dalla falsa notizia che la casa natale di Mustafa Kemal Atatürk, nato nel 1881, a Thessaloniki, in Grecia fosse stata danneggiata il giorno prima da un attentato esplosivo.

Una folla di cittadini, appositamente trasportata da zone limitrofe a Istanbul con alcuni camion, assaltò la comunità greca della città distruggendo e saccheggiando abitazioni e negozi per nove ore. Sebbene gli istigatori del pogrom non esortassero esplicitamente all'uccisione dei greci, tra 13 e 16 greci morirono durante o dopo il pogrom, a causa delle percosse o negli incendi intenzionalmente appiccati.
Vennero feriti gravemente 32 cittadini greci; inoltre, decine di donne greche furono stuprate e un certo numero di uomini circonciso a forza dalla folla. 4.348 proprietà greche, 110 alberghi, 27 farmacie, 23 scuole, 21 fabbriche, 73 chiese e oltre un migliaio di abitazioni private di proprietà greca furono distrutte o seriamente danneggiate.

Le stime dei danni variano: le fonti governative turche parlano di 69,5 milioni di Lire turche mentre i diplomatici del Regno Unito le stimano almeno a 100 milioni di sterline. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese a sua volta parla di 150 milioni di dollari USA, mentre il governo greco invece calcola circa 500 milioni di dollari USA.

Il pogrom accelerò fortemente l'emigrazione dell'etnia greca, riducendo la forte minoranza dei "Romei", che ammontava nel 1924 a 200.000 persone, ad appena 2.500 nel 2006.

Costantinopoli, l'odierna Istanbul, fu capitale dell'Impero Bizantino fino al 1453, quando la città cadde in mano alle forze turco-ottomane. Di fatto la popolazione greca della città, in particolare la comunità dei Fanarioti, svolse un ruolo significativo nella vita sociale ed economica della città, e in generale nella vita politica e diplomatica dell'Impero ottomano. Questo ruolo proseguì anche dopo la nascita dello Stato indipendente della Grecia, avvenuto nel 1829. A seguito della guerra greco-turca, del collasso dell'Impero ottomano e dell'instaurazione di una Repubblica di Turchia, la popolazione greca di Costantinopoli iniziò a declinare, come dimostrano anche le statistiche demografiche.
Misure punitive, come la Legge Parlamentare del 1932, impedirono ai cittadini turchi d'origine greca l'accesso a una serie di 30 mestieri e professioni, da quelli di sarto e falegname a quelle di medico, avvocato e immobiliarista. La tassa sulle rendite, la Varlik Vergisi, imposta nel 1942, servì a ridurre ulteriormente il potenziale economico dell'imprenditoria greca in Turchia.

A partire dal 1954 un certo numero di studenti nazionalisti e di organizzazioni irredentiste, quali la Federazione Nazionale degli Studenti Turchi, l'Unione Nazionale degli Studenti Turchi, insieme agli editori dei maggiori quotidiani della Turchia, fra cui Hürriyet di Hikmet Bilâ, iniziarono a manifestare contro la minoranza greca e il Patriarcato Ecumenico di Istanbul.

Nel 1955 una campagna propagandistica promossa dallo Stato turco e che coinvolse la stampa turca, galvanizzò l'opinione pubblica turca contro la minoranza greca.

Nelle settimane che precedettero il 6 settembre 1955, esponenti politici turchi, strumentalmente, pronunciarono una serie di discorsi anti-greci. Il 28 agosto, il Primo ministro Menderes affermò che i Greco-ciprioti stavano progettando un massacro di Turco-ciprioti. Il piano turco di far detonare una carica esplosiva il 5-6 settembre 1955 nel consolato turco di Tessalonica, seconda città della Grecia, e città natale di Atatürk, innescò il pogrom.”

(Leggi l’articolo completo in: wikipedia.org)

Immagini:

  • Adieu Istanbul | A Film by Dieter Sauter [ Turkish & English Subtitles ]
    Produced, Written, Directed, Shot & Edited by DIETER SAUTER. Produced & Production Design by ISMAIL NECMI. English & Turkish with Turkish & English Subtitles | 91 minutes | Turkey | 2013

 

Una frase al giorno

“Gli uomini confusamente sentono che c'è un canto dietro la scena della loro vita stessa... perché ci sono momenti in cui effettivamente par che alle nostre parole, alle nostre azioni un'eco si risvegli nel grembo dell'invisibile mondo. E la via a quell'invisibile mondo? Si potrebbe rispondere con Mefistofele: Kein Weg! Ins Unbetretene (Non c’è modo! Nell'inaccessibile) … Nessuna via all'incorporea solitudine che è la matrice di tutte le immagini e di tutti i destini degli uomini. Inaccessibili sono le formidabili madri, quali le immagina Goethe, ma talora con una casuale parola messa in bocca a qualcuno presso di noi, con la frase di un libro che cade sotto i nostri occhi, esse ci attestano la loro presenza; e appunto perché carica di tutto il peso di tale presenza, quella parola, frase, frammento del nostro archetipo, falsariga del nostro destino, ci fa trasalire.”

(Mario Praz, da “Voce dietro la scena”, Adelphi, Milano, 1980, p. 396.)

 

Mario PRAZ nacque a Roma il 6 settembre 1896 e trascorse i primi anni in Svizzera, a Winterthur e a Vevey, dove suo padre Luciano, la cui famiglia era di origine valdostana, era impiegato di banca. In seguito alla morte del padre, nell’estate del 1900, Praz si trasferì a Firenze, in via San Zanobi, con la madre, Giulia Testa di Marsciano, che poi si risposò nel 1912.
Poco incline alle attività fisiche (era nato con una malformazione a una gamba che lo costrinse a portare una calzatura speciale e a zoppicare per il resto della vita), fu uno studente particolarmente diligente. Diplomatosi nel 1914 al ginnasio-liceo Galileo, studiò legge all’Università di Bologna e poi in quella di Roma, dove trascorse gli anni di guerra. Alla Sapienza ascoltò anche lezioni di letteratura come quelle del filologo e critico Cesare De Lollis, dove andava con il coetaneo e futuro linguista Bruno Migliorini, poi rimasto suo grande amico. In quegli anni cominciò a studiare privatamente la lingua inglese e a cimentarsi in traduzioni di poeti romantici dell’Ottocento. Si laureò con lode nel 1918, ma ben presto capì che la legge non faceva per lui e ottenne dal padrino di passare altri due anni all’Istituto di studi superiori dell’Università di Firenze, dove studiò lettere e filologia con Giorgio Pasquali ed Ernesto Giacomo Parodi; con quest’ultimo discusse una tesi sulla lingua di Gabriele D’Annunzio. Laureatosi sempre a pieni voti, nel 1920 inviò un contributo alla Critica di Benedetto Croce, il quale lo approvò e lo pubblicò, sia pure con ritardo.

Nel 1920 ebbe due incontri fondamentali, con la scrittrice inglese residente a Firenze Vernon Lee, che lo introdusse in un giro di intellettuali britannici e lo segnalò al London Mercury, al quale Praz inviò corrispondenze (Letters from Italy) fino al 1932; e con Giovanni Papini, che lo incaricò di tradurre una scelta di poeti inglesi dell’Ottocento e gli Essays of Elia di Charles Lamb. Questi furono per lui una scoperta e un modello cui rifarsi. Nel 1921 inviò in lettura sue versioni di testi poetici a Emilio Cecchi per ottenerne un giudizio, iniziando con il grande critico un’amicizia durata fino alla morte di quest’ultimo (1966). Nel 1923 ottenne una borsa di studio e di perfezionamento in filologia moderna e passò alcuni mesi a Londra, dove entrò in contatto con parecchi letterati noti e illustri. Al rimpatrio trovò un’Italia scossa da fermenti e frequentò un circolo fiorentino di antifascisti tra cui i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Pietro Calamandrei, Gaetano Salvemini, ma se ne allontanò presto, riconoscendo la propria natura indifferente alle lotte e agli schieramenti. Alla fine del 1923 si trasferì a Liverpool come senior lecturer di italiano e vi rimase otto anni, fondamentali per la sua formazione definitiva e per la genesi delle opere.

A I saggi di Elia di Charles Lamb (Lanciano 1924), da lui tradotti e curati, seguirono nel 1925 Poeti inglesi dell’Ottocento (Firenze), di cui venne lodata l’ampiezza della scelta, ma meno l’iniziativa di tentare versioni in versi, e nello stesso anno Secentismo e Marinismo in Inghilterra (Firenze), vera riscoperta e nuova analisi di un gruppo di poeti tra cui John Donne, George Herbert e altri. Thomas Stearns Eliot, il quale stava esplorando quel campo, lo salutò sul Times Literary Supplement come una rivelazione.

L’insegnamento a Liverpool non era gravoso, solo nove ore settimanali; in compenso Praz trovò sempre la città torpida e inospitale, il che lo incoraggiò a gettarsi negli studi. Durante le vacanze viaggiò spesso per l’Europa, fu in Spagna nel 1926, spedizione di cui avrebbe dato conto in Penisola pentagonale (Milano 1928); nel 1927 fu nei Paesi Bassi. Trascorreva le vacanze a Firenze, dove frequentò particolarmente Eugenio Montale, della cui poesia divenne un fervido ammiratore. Nel 1929 iniziò una collaborazione con La Stampa che si protrasse fino al 1940.

È del 1930 il suo libro destinato a diventare il più famoso, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Milano-Roma), tradotto in inglese nel 1933 come The romantic agony, raccolta di saggi il cui tema comune, fino allora trascurato dalla critica, è l’analisi dell’erotismo decadente presso alcuni grandi scrittori del diciannovesimo secolo. Nel 1934 uscì un altro libro ricco di spunti per gli studiosi futuri, Studi sul concettismo (Milano), con il pionieristico recupero di imprese e altri enigmi dell’iconografia rinascimentale; il Warburg Institute di Londra ne pubblicò la traduzione inglese - Studies in seventeenth-century imagery - nel 1939.

Nominato alla cattedra di letteratura inglese all’Università La Sapienza, lasciò definitivamente Liverpool nel 1934 e si trasferì nella capitale; da poco aveva sposato Vivien, inglese e ventiquattrenne, che era stata sua lettrice durante l’ultimo anno in Inghilterra. La coppia si stabilì in un vasto appartamento di palazzo Ricci in Via Giulia, che Praz cominciò ad arredare con una raccolta in continuo aumento di oggetti stile impero, dei quali fu inesausto collezionista e che allora gli antiquari non prendevano in considerazione. Nel 1936 uscì la sua Antologia della letteratura inglese (Messina), e nel 1937 quella Storia della letteratura inglese (Firenze) rimasta strumento indispensabile per generazioni di studenti. Nel 1938 nacque la sua unica figlia, Lucia. Nel 1941 avvenne la separazione dalla moglie.

Frattanto, nel 1940, uscì a Firenze Gusto neoclassico, primo di alcuni importanti lavori in cui le arti figurative e la letteratura si illuminano a vicenda (tradotto in inglese nel 1969, come On Neoclassicism). Negli anni successivi uscirono, tra non pochi altri libri, Machiavelli in Inghilterra e altri saggi (Roma 1942), Viaggio in Grecia (Roma 1942), Fiori freschi (Firenze 1943), il primo volume del Teatro di William Shakespeare da lui diretto (Firenze 1943), Ricerche anglo-italiane (Roma 1944), Motivi e figure (Torino 1945).

Durante l’occupazione tedesca, chiusa l’Università, sfruttò il tempo libero per imparare il russo. Nel 1946-1947 uscirono ancora, per sua cura, il secondo e il terzo volume del Teatro di Shakespeare, Il dramma elisabettiano (Roma 1946), il secondo volume di Studies in seventeenth-century imagery. Nel 1949 fondò la rivista English miscellany, pubblicata a Roma a cura del British Council, che diresse fino al 1958, quando fu affiancato dall’allievo Giorgio Melchiori. Nel 1951, per le Edizioni di storia e letteratura (Roma) uscirono i primi due volumi di Cronache letterarie anglosassoni, serie destinata a continuare a lungo, seguite da La crisi dell’eroe nel romanzo vittoriano (Firenze 1952), tradotto come The hero in eclipse in victoria fiction (1956). Sempre nel 1952 fu negli Stati Uniti per una serie di conferenze, ma l’anno dopo fu costretto a occuparsi a fondo della casa di Via Giulia, dove viveva solo con una vecchia ‘perpetua’, in seguito alla morte del suo padrino, che gli lasciò parecchi mobili stile impero.

Nel 1955 viaggiò in Austria e pubblicò Il mondo che ho visto (Firenze). Nel 1956 viaggiò in Estremo Oriente. Nel 1957 ebbe la laurea in lettere honoris causa dell’Università di Cambridge. Nel 1958 uscì nei Diamanti mondadoriani, il suo libro più personale e capriccioso, per molti il capolavoro: La casa della vita (Milano), autobiografia mascherata da storia degli oggetti del suo ormai mitico arredamento. Nel 1960 uscì a Milano Bellezza e bizzarria e nello stesso anno Praz fu insignito con il premio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei per la filologia e la critica letteraria. Nel 1962 fu nominato Knight Commander of the British Empire dalla regina d’Inghilterra. Tra il 1963 e il 1965 fu, tra l’altro, a Parigi, negli Stati Uniti e in Australia. Costretto in quel periodo a lasciare l’appartamento di Via Giulia, ne trovò un altro altrettanto vasto e più luminoso sopra il Museo Napoleonico di Corso Rinascimento, e vi ricollocò i suoi amati oggetti (oggi è la Casa-museo Mario Praz). Nel 1966 lasciò l’insegnamento per limiti d’età; ci fu una cerimonia cui parteciparono i suoi allievi più illustri, dove furono presentati i due volumi celebrativi di Friendship’s Garland.

Nel 1967 uscì Panopticon romano (Milano-Napoli), cui seguirono Caleidoscopio shakespeariano (Bari 1969) e, nel 1970, negli Stati Uniti Mnemosyne. The parallel between literature and the visual arts, la cui edizione italiana, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive uscì poco dopo (Milano 1971). Nel 1972 a Milano uscì Il patto col serpente, integrazione ideale de La carne, la morte e il diavolo. Nel 1975, sempre a Milano, uscì Il giardino dei sensi. Studi sul manierismo e il barocco. I festeggiamenti per gli ottant’anni (1976) non ne rallentarono la produttività, ché in due anni uscirono in rapida successione Panopticon romano secondo (Roma 1977), Perseo e la Medusa. Dal Romanticismo all’Avanguardia (Milano 1979) e Voce dietro la scena. Un’antologia personale (Milano 1980).
Morì a Roma il 23 marzo 1982.

Roma, Museo Mario Praz

«Potrei dire di me che il mio guardaroba intellettuale contiene pochi capi interi», scrisse di sé lo stesso Praz nella spiritosa introduzione alla sua ultima opera pubblicata da vivo, che è una raccolta di pezzi singoli come la maggior parte dei libri sopra menzionati, rivendicando in ciò la propria discendenza dall’inglese Charles Lamb: «Appartengo anch’io alla categoria delle persone dotate d’intelligenza imperfetta […]. Non troverete in questo libro un sistema filosofico, o, per adoperare il linguaggio del guardaroba, un cappotto o un vestito che possa servirvi di protezione contro l’inclemenza del cielo. No, il mio guardaroba abbonda d’indumenti inutili, seppure indumenti possan chiamarsi: abbonda di cose poco servibili e poco ordinarie, magari più d’un tantino bizzarre e malinconiche; è un documento di poche idee ma di molte manie; è, insomma, piuttosto che un guardaroba, uno di quegli armadi dove si custodiscono, o si custodivano in epoche in cui non c’era da fare economia di spazio, oggetti fuori di moda, lustrini e penne di struzzo e qualche bambola mutilata, relitti buttati su quella riva del gran mare dell’essere; è, insomma, un armadio delle calìe, come si dice in Toscana». Dunque un erudito capriccioso, un cultore di bizzarrie, un curioso di arti minori: tale Praz, ignorando con civetteria i manuali di studio e gli altri contributi accademici prodotti, ostentava di continuare a considerarsi alla fine della sua lunga parabola intellettuale. Ma lo faceva ridacchiando tra sé, con una malcelata punta di orgoglio. Perché a lui come a pochi altri era stato concesso di vedere, con il tempo, le sue predilezioni più personali, le ‘eccentricità’ di una volta, prima accettate dai pochi, e infine condivise dalle masse.

Non aveva mai fatto della propaganda ai propri gusti: li aveva semplicemente formulati perché era un artista, incapace di fingersi diverso. Sull’album del figlioletto di amici disegnò una volta un termometro, e accanto scrisse: «perché non trovi freddo lo stile Impero». All’epoca il fatto che il suo raccogliere cimeli di quel periodo fosse considerato dai critici d’arte non più di una innocente mania lo lasciava indifferente; rendersi conto che la sua collezione valesse miliardi di lire gli fu negli ultimi anni solo fonte di fastidi e di preoccupazioni. Erudito capriccioso, cultore di bizzarrie, curioso di arti minori era stato naturalmente anche considerato dalla cultura ufficiale, quando tali attributi non avevano il carattere elogiativo che avrebbero assunto in seguito, subentrati tempi di diffidenza nei valori cosiddetti positivi. Praz lasciò dire e andò avanti per la sua strada, con tranquilla coerenza e continuità. Il genio ‘sa’: non ha bisogno di conferme, né sul momento né dopo. Quando si immergeva nella poesia barocca, anticipando per quanto riguarda i secentisti inglesi la stessa clamorosa rivalutazione che ne avrebbe fatto Eliot, Praz non investiva in azioni che sperava sarebbero salite; seguiva solo il suo gusto, la sua sensibilità. Così avrebbe anticipato e quindi guidato la moderna rivalutazione dei decadenti; quella dello stile neoclassico; quella del Biedermeier. Così avrebbe segnalato l’importanza per la storia sociale della ‘lettura’ degli ambienti dove la gente viveva nel passato, ovvero dell’arredamento, non soltanto delle dimore più sfarzose. E così sarebbe diventato il principale mediatore tra la cultura anglosassone e quella italiana, che se ne scopriva sempre più attratta.

Persino per quanto riguarda il suo stile letterario, Praz, per tanto tempo non considerato ‘scrittore’ (non fu mai invitato a collaborare al Corriere della sera!) alla fine divenne di moda. Negli ultimi tempi egli stesso rievocò a origine della propria vocazione di saggista l’incontro, affatto fortuito, con i Saggi di Lamb, ricordando come la sua versione apparisse a Emilio Cecchi, che la recensì, formalmente insufficiente, priva di «pulimento, ritmo, frizzo verbale», difettosa «di brio e di mordente». Rinunciando a difendersi da tali censure - quello era stato, dopotutto, quasi il suo esordio -, Praz si limitò a insinuare, fermi restando l’affetto e il rispetto dovuti a uno dei suoi maestri dichiarati, il sospetto che il critico lo giudicasse secondo i criteri della prosa d’arte allora in voga, ma poi screditata. E a ribadire la propria impenitenza, ristampò il volume quasi senza aggiornamenti. Con quale effetto su chi legge? Non tutta la prosa di Praz convince in pieno; certe sue traduzioni, come quelle dal teatro elisabettiano, con il tentativo di ispirarsi alla prosa secentesca italiana, possono sembrare un po’ forzate. Ma per un autore limpido, pacato e sornione, e tutto allusioni sotterranee e vibrazioni segrete come Lamb, sarebbe difficile immaginare una soluzione diversa da quella da lui adottata allora, e in seguito rimasta il suo principale strumento espressivo. Vale a dire una lingua colloquiale, senza preziosità, ma senza cadute nel pedestre, ravvivata qua e là dall’arguzia, dall’estro. In Praz come in Lamb il disordine è solo apparente, le associazioni non sono mai gratuite; una disciplina sorvegliata trasmette un senso di fuoco ardente sotto le ceneri, di passione celata dietro l’autocontrollo e la mediazione di una sapienza esibita obliquamente, quasi come occasione di scherzo. Così durante sessant’anni, affettando di coltivare i suoi hobby, Praz esplorò le letterature e le arti figurative di più Paesi e di più epoche, lasciando un’opera critica imponente per mole e per erudizione, e allo stesso tempo impareggiabile per verve, umorismo, vivacità. Ugualmente essendo solo se stesso, ossia con il suo esempio, senza tentare di fare proseliti, vide formarsi davanti alla sua cattedra di insegnante una scuola di studiosi per varietà di interessi e profondità di preparazione non seconda a nessun’altra nel suo campo, e in tutto il mondo.
Anche come uomo Praz lasciò una lezione di indipendenza. Indifferente alle fazioni nell’Università, fu al di sopra delle parti anche in politica, dove il suo conservatorismo era salvaguardia di valori elementari della civiltà - chi lo conosceva lo sapeva bene, e il suo dev’essere stato il solo caso di collaborazione contemporanea, durante un lungo periodo, a due quotidiani romani come Il Tempo e Paese sera, quando questi giornali erano rispettivamente molto più a destra e molto più a sinistra di quanto avvenga oggi.

La sua obiettività e il suo aspetto insolito - lo strabismo, i favoriti, il piede zoppo, uniti alla solitudine - gli diedero fama di shadenfreude, e persino, ma scherzosamente, di menagramo; e la sua avidità di collezionista, alla quale sacrificava ogni ostentazione di lusso personale, di avaro. Laddove in realtà fu sempre generosissimo dove più conta, ossia intellettualmente, disponibile a tutti, aperto alla curiosità nei confronti del prossimo. Fu uno degli ultimi umanisti, membro di un’accademia ideale che trascendeva i confini delle nazioni, corrispondente di molti tra i letterati più prestigiosi di ogni Paese; e la visita delle sue leggendarie dimore fece parte, per moltissimo tempo, del Gran Tour dei moderni emuli di Goethe.”

(Masolino d'Amico - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 85, 2016).

6 settembre 1896 nasce Mario Praz, saggista, critico letterario e scrittore italiano (morto nel 1982)

 

Un brano musicale al giorno

Isabella Leonarda, 'Sonata duodecima' in Re minore per violino solo e continuo

da "Sonate a 1,2,3,4 istromenti Op. decima sesta" Bologna 1693

- Adagio 0:00 -
- Allegro e presto 01:51 -
- Vivace e largo 03:05 -
- Aria Allegro 07:53 -
- Veloce 09:21 -

Elena Russo - direttore, violoncello
Roberta Invernizzi - soprano

LEONARDI (Leonarda), Isabella - Figlia del conte Giannantonio e di Apollonia Sala, nacque a Novara il 6 settembre 1620 e lo stesso giorno fu battezzata nella cattedrale della città.
Questa data, desunta dagli atti di battesimo dell'Archivio storico diocesano di Novara, smentisce definitivamente l'ipotesi che posticipava la nascita della L. al 1641; quest'ultima data, d'altra parte, risulta incompatibile con la pubblicazione di due composizioni sacre della stessa L. - i dialoghi Ah domine Iesu e Sic ergo anima - nella raccolta Il terzo libro de sacri concenti a 2, 3 e 4 voci (Venezia 1640), dove, per il resto, figurano lavori di Gasparo Casati, maestro di cappella presso la cattedrale di Novara dal 1635 al 1641 e, molto probabilmente, maestro di composizione della stessa Leonardi.

Entrata nel 1636 nel nobile collegio delle vergini orsoline a Novara, fu consacrata ufficialmente nel 1639 con l'approvazione del vescovo di Novara Antonio Tornielli. Le tappe successive della sua carriera monastica, proseguita sempre nello stesso convento fino alla morte (avvenuta nel 1704), possono essere ricostruite sulle indicazioni tratte dai frontespizi delle raccolte esistenti (Monticelli, pp. 290 ss.). La L. si definisce "madre nel collegio di S. Orsola di Novara" tra il 1676 e il 1684 (op. 6, 7, 8, 10, 11); dal 1686 al 1690 è "superiora" (op. 12, 13, 14, 15); "madre vicaria" nel 1693 (op. 16). È di nuovo "superiora" nell'op. 17, stampata nel 1695, ma ritorna a "madre vicaria" nell'anno successivo (op. 18). All'età avanzata di 78 anni la L. non risulta più avere cariche all'interno della Congregazione; all'uso dell'appellativo nobiliare nella raccolta del 1698 (op. 19), "donna Isabella Leonardi", fa seguito quello di "consigliera" nel 1700 (op. 20). Non si conosce l'esatto significato di questo titolo, probabilmente onorario, conferito in vecchiaia in riconoscimento dei decenni di fedele servizio.

L'appartenenza a una nobile e illustre famiglia rappresentò senza dubbio un importante vantaggio per la L.: le frequenti donazioni al convento potrebbero avere favorito il suo avanzamento nella gerarchia conventuale.

L'alta rappresentatività sociale dei Leonardi è confermata dai frequenti incarichi amministrativi ed ecclesiastici ricoperti dai membri della famiglia. Il conte Giannantonio (1584-1640), laureatosi secondo la tradizione familiare in diritto canonico e civile all'Università di Pavia, fu ammesso al Collegio dei dottori di Novara nel 1603; il primo figlio, Gianpietro (1613-36), divenne canonico coadiutore presso la cattedrale di Novara; dopo la morte di Gianpietro, il titolo nobiliare paterno fu ereditato da Gianfrancesco (nato nel 1622), che diventò decurione della città di Novara; Gianbattista (nato nel 1625) divenne canonico alla cattedrale di Novara. Nicolò (1578 circa - 1644), zio della L. (Dahnk Baroffio, p. 78), doctor utriusque iuris, console di Giustizia, penitenziere della cattedrale, più volte vicario generale vescovile e capitolare, fu canonico protettore della Congregazione dopo la morte del suo fondatore Giovanni Battista Boniperti (1552-1610). Lorenzo, cugino della L. a cui è dedicata la raccolta di mottetti op. 6, viene qui definito "canonico archidiacono nella Cattedrale di Novara".

Diverso fu il destino della discendenza femminile che, secondo un'abitudine particolarmente diffusa presso le famiglie nobiliari minori, veniva indirizzata alla vita monacale per non assottigliare il patrimonio familiare. Al pari della L., la sorella Orsola Margherita (1626-99) entrò al collegio di S. Orsola andando ad affiancare una terza sorella, Anna, figlia di primo letto del conte Giannantonio. Pur non comparendo nell'albero genealogico dell'archivio Leonardi, l'esistenza di quest'ultima è testimoniata in due documenti citati da E. Dahnk Baroffio (p. 75 n. 6): nel primo risulta essere novizia al collegio di S. Orsola nel 1625; nel secondo, un documento privato datato 1665, è indicata come "madre" della Congregazione di S. Orsola, oltre che come sorella della L. e di Orsola Margherita. Era quindi più vecchia delle altre sorelle e morì forse prima del 1676, dal momento che la L. si definisce per la prima volta "madre" di S. Orsola nel frontespizio dei Motetti a voce sola, op. 6.

Il cognome di suor Isabella nelle pubblicazioni stampate a Bologna appare sempre nella forma "Leonarda", mentre in quelle stampate nella vicina Milano, dove la famiglia Leonardi era molto conosciuta, viene utilizzata la forma "Leonarda" nel frontespizio e nella dedica e "Leonardi" nei fogli autografi (Carter, 1997, p. 144 n. 2).

Un documento del 1638 tratto dagli atti di visita pastorale descrive la L. come abile a cantare, scrivere, computare e comporre musica (Dahnk Baroffio, p. 80). Una volta entrata nel convento di S. Orsola la L. forse beneficiò di un'istruzione musicale impartita da Elisabetta Casata (1598), attiva all'interno della Congregazione come organista e maestra di musica. La presenza di quest'ultima viene confermata da un successivo documento del 1658 che menziona la L. come "mater discreta et cancellaria" e come "magistra musicae" (ibid., pp. 78 s.) esperta, insieme ad altre religiose, in "cantum firmum seu figuratum"; la stessa L. dedica due mottetti dell'op. 13 a due sue consorelle definite "virtuosissime", lasciando prevedere la possibilità di utilizzare la piccola schola cantorum del convento per l'esecuzione dei propri brani.

Secondo un documento dell'archivio privato della famiglia Leonardi, la L. morì a Novara il 25 febbr. 1704.

Spinetta esagonale, XVIII sec.

Lo stile tecnico-compositivo della L. è dettato dall'esigenza di corrispondere alle necessità della pratica musicale nei conventi femminili. Le cronache del tempo riferiscono dell'alto grado di specializzazione vocale e strumentale degli ensemble attivi all'interno dei conventi più prestigiosi dell'Italia settentrionale, benché essi fossero utilizzati solo durante le ricorrenze più solenni dell'anno liturgico; infatti, severe disposizioni dei sinodi diocesani vietavano la pratica diffusa della polifonia, l'uso di strumenti musicali diversi dall'organo ed esecuzioni di estranei al convento. Maggiore diffusione, specie per le istituzioni minori quali quella di Novara, ebbero generi musicali che prevedevano un organico più modesto e, insieme, una certa flessibilità delle strutture formali. Non a caso nell'ambito della vasta produzione della L., interamente dedicata alle composizioni sacre, risulta prevalente il mottetto per voce solista con l'accompagnamento dell'organo e, in alcuni casi, di altri strumenti.

La L., forse violinista anch'essa, si cimentò anche nella scrittura strumentale, diventando la prima donna ad aver pubblicato sonate per 1, 2, 3 e 4 strumenti - di cui la più interessante sotto il profilo formale è appunto quella per violino solo - e, insieme, una delle figure più rappresentative, se non altro per l'alto numero di opere date alle stampe, fra le compositrici attive in Italia tra la fine del XVI e il XVII secolo.”

(Giulia Grilli - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64, 2005. In: www.treccani.it)

6 settembre 1620 nasce Isabella Leonarda, compositrice, religiosa e docente italiana (morta nel 1704)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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