L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
IL TETTO (Italia, 1956), regia di Vittorio De Sica. Prodotto da Vittorio De Sica. Sceneggiatura: Cesare Zavattini. Musiche: Alessandro Cicognini. Fotografia: Carlo Montuori. Montaggio: Eraldo Da Roma. Cast: Gabriella Pallotti - Luisa. Giorgio Listuzzi - Natale, marito di Luisa. Luisa Alessandri - Signora Baj. Maria Di Fiori - Giovanna, sorella di Natale. Maria Di Rollo - Gina. Emilia Martini - madre di Luisa. Giuseppe Martini - padre di Luisa. Gastone Renzelli - Cesare, marito di Giovanna. Maria Sittoro - madre di Natale. Angelo Visentin - padre di Natale.
Luisa e Natale si sposano. Lui, muratore, fa parte di una numerosa famiglia veneta trasferita a Roma; lei viene da un paese di pescatori e fino al matrimonio ha lavorato nella capitale come donna di servizio. L'armonia degli sposi è subito turbata da problemi economici: il padre di Luisa, offeso perché la figlia non ha chiesto il suo consenso alle nozze, rifiuta di aiutarli, e i due giovani sono costretti a vivere nella casa di lui, il che comporta mancanza di intimità e rapporti tesi con Cesare, il marito della sorella di Natale, uomo onesto e lavoratore (è muratore come il cognato) ma dal pessimo carattere. Dopo aver lasciato la casa paterna e cercato inutilmente un altro alloggio per sé e la moglie, Natale decide di fabbricare abusivamente una baracca ai margini di una borgata. La legge prevede che un edificio abitato, anche se costruito senza alcun permesso, non possa essere distrutto se è provvisto di tetto: del resto nella stessa zona la costruzione di baracche abusive è la prassi per molti poveracci, e l'unico problema è che la costruzione dev'essere completata in una sola notte, per evitare i controlli di polizia molto frequenti durante il giorno. Natale, d'accordo con i suoi colleghi muratori, si procura il materiale e inizia i lavori. A notte alta però la baracca è ancora lontana dall'essere terminata. L'intervento decisivo di Cesare, chiamato in extremis, permette di portare l'opera a compimento: o meglio, non del tutto, perché all'alba il tetto non è ancora terminato. All'arrivo della polizia, Luisa si fa trovare a letto con un bambino, offerto da una vicina impietosita, per cercare di scongiurare lo sgombero; il poliziotto, benché si renda conto che il tetto non è completato, decide di chiudere un occhio, e la coppia può affrontare il futuro contando se non altro su questo modesto alloggio.
Gianni Rondolino nel Catalogo Bolaffi del cinema italiano 1956/1966 «Con questo film De Sica è tornato ai temi e allo stile dei suoi primi film neorealisti, cercando di ricreare attraverso il racconto di una storia semplicissima, condotto con mezzi espressivi elementari, la calda atmosfera di comprensione umana per i fatti narrati non disgiunta da un vigile spirito critico. La trama è esile: la cameriera Luisa e il muratore Natale si amano e vorrebbero sposarsi ma non avendo una casa sono costretti a vivere in famiglia, allora decidono di costruirsi abusivamente una casa da soli. Ad una visione superficiale, il film pare possedere quel vigore espressivo che erano la caratteristica dei primi film di De Sica e Zavattini. Ma a uno sguardo più attento e nella prospettiva storica odierna risaltano evidenti gli artifici di un soggetto e di una narrazione che del primo neorealismo mantengono spesso gli elementi esteriori più facili e superficiali...»
“Il tetto, rivisto a distanza di qualche mese dal Festival di Cannes, e in una edizione riveduta dagli autori, acquista nei suoi pregi e nella sua bellezza complessiva: d'altra parte la nuova lettura riconferma come questo film sia il prodotto di una cinematografia i cui slanci e le cui illuminazioni, così calde e vive e promettenti, sono andate a mano a mano spegnendosi di fronte a tutto un complesso di fattori storici e morali, interni ed esterni, che si possono largamente riassumere in quella che il Calamandrei chiamò la Costituzione inattuata.”
(Guido Aristarco in www.mymovies.it)
“Tra tutti i film di De Sica e Zavattini Il tetto è quello che ha una storia più lineare e più semplice [...]. A proposito de Il tetto converrà forse ripetere quello che è stato già detto circa il neorealismo, anche perché in questo film i limiti della formula sono più scoperti. Il neorealismo, nel dopoguerra, si affermò come la corrente più viva del cinema italiano soprattutto perché aveva la grande qualità di rappresentare particolari aspetti di una realtà tuttora in corso e problematica. Il neorealismo era sempre attuale; si usciva dal cinema e si ritrovavano per la strada personaggi e situazioni che il film poco prima aveva presentato sullo schermo. Documentario e lirico, il neorealismo però aveva limiti angusti, per forza di cose; risoluto a non illustrare che elementari situazioni di necessità come la fame, la disoccupazione, la miseria, l'insicurezza materiale e così via, rifiutava la psicologia, le idee, i personaggi, l'intreccio e, insomma, la cultura. Altra limitazione del neorealismo era la sua inclinazione al sentimentalismo e, nei momenti più deboli, al qualunquismo. Erano questi, in sostanza, i caratteri in un'arte dialettale. E infatti il neorealismo costituì una ripresa del mondo dialettale italiano in un momento in cui, in seguito ai disastri della guerra, il mondo della cultura nazionale era caduto in una crisi profonda. Fu una riaffermazione della vitalità istintiva del popolo italiano; o meglio la rappresentazione artistica più convincete di questa vitalità. Oggi la crisi della cultura italiana non si è sanata, tutt' altro; ma anche il neorealismo sembra essere in crisi. Non che i problemi del dopoguerra siano stati risolti; ma non sono più i soli né i più urgenti, altri premono, di un genere che il neorealismo per sua natura non può né affrontare né rappresentare. Naturalmente la formula è ancora buona e lo dimostrano film come Il tetto; ma le cose di questo mondo non stanno mai ferme e quello che appunto è mancato al neorealismo è un'evoluzione; esso ripete se stesso o, peggio, cade nella maniera nei vari film seguiti al fortunato Due soldi di speranza.
Il tetto è un film lineare, come abbiano accennato; idealmente esso si riallaccia a Ladri di biciclette di cui ripete la struttura semplicissima. Nel suo genere Il tetto è un'opera riuscita, ossia senza incertezza né sbavature; anzi, tra i film di De Sica e Zavattini, è uno dei più omogenei e coerenti. Semmai, l'appunto che si potrebbe muovere a questo film, soprattutto se paragonato a quelli che l'hanno preceduto, è di essere un po' troppo omogeneo e coerente. Di mancare cioè di quell'estro, di quelle invenzioni, di quel mordente che negli altri film riscattavano con la loro varietà e plasticità la fondamentale esilità della formula neorealistica. In Ladri di biciclette, per esempio, la linea del racconto si arricchiva e complicava continuamente di episodi ben definiti ed evidenti: la ricerca della bicicletta finiva per essere un pretesto e la rappresentazione di tutto il mondo passava in primo piano. Ne Il tetto avviene il contrario: la ricerca della casa è sempre mantenuta in primo piano e il mondo in cui avviene questa ricerca, situazioni, personaggi, luoghi, è appena accennato. Ne segue un'impressione di gracilità e di grigiore che alla fine lascia vagamente insoddisfatti; come per una dimostrazione un po' schematica che soddisfi la mente piuttosto che l'immaginazione. Fatte queste riserve, occorre aggiungere che De Sica ha intessuto la trama de Il tetto con grande finezza. Non ha delineato che i due personaggi principali, è vero, ma ha saputo disegnare questi due caratteri con intuito assai felice, facendone veramente una coppia con tutti i suoi contrasti e i suoi accordi e non due figure separate e isolate. La sua personalissima visione di certi aspetti della Roma moderna e proletaria si conferma inoltre ne Il tetto con una naturalezza e una sobrietà che molti hanno cercato di imitare ma nessuno finora ha eguagliato.
Dopo un avvio un po' lento e frammentario, in cui però, vanno notate, le sequenze molto belle del viaggio al paese della sposina, il film prende consistenza drammatica con la costruzione della baracca mantenuta fino alla fine in un clima di incertezza patetica che certamente avvince e commuove lo spettatore. Dei due interpreti, ci piace soprattutto Gabriella Pallotti nella sua parte della sposina, un carattere forte e ostinata pur nella sua rustica semplicità. Giorgio Listruzzi in quella dello sposo è un po' immobile e freddo; il suo personaggio è più povero.”
(Alberto Moravia, L'Espresso, 1956)
- Il film: Il Tetto (The Roof \ El Techo) Vittorio de Sica, Film Completo by Film&Clips
7 luglio 1901 nasce Vittorio De Sica, attore e regista italiano (morto nel 1974)
Un mito: Vittorio De Sica “Regista e attore teatrale e cinematografico, nato a Sora il 7 luglio 1901 e morto a Neuilly-sur-Seine (Île-de-France) il 13 novembre 1974. Grande autore del cinema italiano fu anche interprete di spiccata personalità e presenza scenica. Dotato di una capacità istintiva nel cogliere il lato amabile e ironico, come quello malinconico e a volte tragico, della realtà quotidiana, D. S. possedette la rara capacità di sdoppiarsi dapprima tra il teatro e il cinema, e poi tra una carriera di attore, versatile e adattabile, e di regista cinematografico; nei suoi film emerge una sensibilità straordinaria nel saper trasferire l'osservazione minuta della realtà nelle maglie di racconti strutturati su un sentimento di forte solidarietà umana.
Apparso come attore in quasi duecento film, seppe realizzare, anche in quelli di minore qualità, una perfetta combinazione tra eleganza gestuale e vocale e un suo personale tratto istrionico. Valorizzato da Mario Camerini, a partire da Gli uomini, che mascalzoni… (1932), nella cosiddetta pentalogia piccolo-borghese, da questo regista D. S. acquisì i fondamenti dell'arte e della tecnica cinematografica che seppe fare suoi raffinandoli con profonda sensibilità e spessore umano. Si inserì autorevolmente nella storia del cinema con Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), entrambi premiati con l'Oscar come migliori film stranieri rispettivamente nel 1948 e nel 1950, rivelando con lucida partecipazione l'amara realtà postbellica di un Paese materialmente e moralmente dilaniato. Grazie anche al contributo determinante dello scrittore e sceneggiatore Cesare Zavattini, che lavorò con lui in quasi tutti i suoi film, D. S. raggiunse la massima maturità artistica ed espressiva negli anni Quaranta, quando contribuì in maniera determinante alla nascita di una nuova cultura cinematografica, il Neorealismo.
Figlio di un assicuratore napoletano, dopo un'infanzia trascorsa a Napoli D. S. si diplomò in ragioneria, ma già nel 1917 aveva ricoperto il piccolo ruolo di G. Clemenceau ragazzo nel film Il processo Clemenceau di Alfredo De Antoni. Con l'attrice-regista T. Pavlova, ricca dell'esperienza della scena russa, D. S. tra il 1924 e il 1926 passò al professionismo teatrale, recitando poi da attore giovane nella compagnia Almirante-Rissone-Tofano (1927-1929). In questo periodo si cimentò saltuariamente anche sullo schermo in due film di Mario Almirante, La bellezza del mondo (1927) e La compagnia dei matti (1928). Deviò quindi verso il teatro popolare, entrando nel 1931 nella compagnia di teatro leggero e di rivista diretta da Mario Mattoli, in cui riportò grande successo anche per le canzoni interpretate; fu in quel periodo che D. S. definì il suo profilo di attore brillante e di fine dicitore e chansonnier.
Dal 1932 intraprese in maniera costante anche la carriera d'attore cinematografico, interpretando da protagonista due film che confermarono la sua versatilità. In primo luogo Due cuori felici, di Baldassarre Negroni, film brillante con couplets cantati e una struttura da operetta, che non si allontanava di molto dagli spettacoli di rivista. Ma fu in Gli uomini, che mascalzoni… di Camerini, sceneggiato da quest'ultimo con Aldo De Benedetti e Mario Soldati, in cui D. S. canta la celebre canzone di C.A. Bixio Parlami d'amore Mariù, che espresse al meglio il suo stile, qui pienamente valorizzato, e rivelò il suo talento recitativo, trovando il giusto equilibrio nel disegnare un personaggio (l'autista Bruno) dall'animo semplice e il comportamento scanzonato, sullo sfondo di una Milano già industrializzata. Il film venne presentato alla prima Mostra del cinema di Venezia, consolidando il successo dell'attore.
Dopo Un cattivo soggetto (1933), per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, e alcuni film di scarso rilievo, D. S. diede vita alla compagnia Tofano-Rissone-De Sica. In questo periodo avvenne anche l'incontro con due autori italiani, Aldo De Benedetti e Gherardo Gherardi, che segnò l'inizio di un felice e lungo sodalizio artistico. Nel 1935 fu di nuovo insieme a Camerini in Darò un milione, cui aveva collaborato, per il soggetto e la sceneggiatura, anche Zavattini. D. S. vi interpreta Gold, un milionario che, annoiato della sua vita abituale, decide di vivere una giornata diversa travestendosi da poveraccio ed entrando in contatto con un mondo molto lontano dal suo.
Nella seconda metà degli anni Trenta continuò a intercalare cinema e teatro. Ma due film ancora di Camerini precisarono la sua figura di attore dal tratto amabilmente ironico: Il signor Max (1937) e Grandi magazzini (1939). In Il signor Max D. S. impersona il giornalaio Gianni, aspirante a un ruolo mondano, che durante un viaggio viene scambiato per un conte da un gruppo di nobili, e di conseguenza si trova a vivere due vite parallele. A questo film, da lui reinterpretato venti anni dopo nell'adattamento di Giorgio Bianchi (1957; Il conte Max) con Alberto Sordi nel suo ruolo del 1937, è stato dedicato un altro remake (Il conte Max, 1991) realizzato dal figlio Christian (n. Roma 1951), anch'egli regista e attore. In Grandi magazzini D. S. riveste il ruolo di un personaggio molto vicino al protagonista di Gli uomini, che mascalzoni… ancora un autista, anch'egli di nome Bruno, che ha premura di difendere la povera commessa di un grande magazzino, ingiustamente accusata di furto. In questo stesso anno avvenne il primo incontro diretto tra D. S. e Zavattini, durante il quale il regista acquistò dallo scrittore il soggetto intitolato Diamo a tutti un cavallo a dondolo, da cui, dopo diversi rimaneggiamenti dello stesso Zavattini, sarebbe nata la sceneggiatura di Miracolo a Milano (1951).
Non soddisfatto dei traguardi raggiunti e di essere definito lo 'Chevalier italiano', D. S. fu quasi sul punto di tornare in via definitiva al teatro quando, nel 1940, gli si aprì inaspettatamente la porta della regia cinematografica. L'esordio avvenne senza troppo clamore, con la trasposizione cinematografica del suo maggior successo teatrale, Due dozzine di rose scarlatte di A. De Benedetti, portato sulle scene dalla formazione De Sica-Rissone-Melnati al Teatro Argentina di Roma nel 1936. Il film, dal titolo Rose scarlatte, ebbe come coregista Giuseppe Amato; D. S. si limitò a dirigere con dedizione gli attori, tralasciando ancora i movimenti di macchina e la fotografia. A Maddalena zero in condotta (1940), che molto deve al brio dello stile cameriniano, seguì nel 1941 Teresa Venerdì, alla cui sceneggiatura collaborò, non accreditato, anche Zavattini. Il film, seppure ancora molto vicino allo stile di Camerini, evidenzia cambiamenti che si rintracciano nella particolare cura del montaggio, nell'elaborare un'atmosfera brillante non priva di riflessioni a sfondo sociale e in una propensione a evadere dalle convenzioni del cinema italiano di quel periodo.
Durante la guerra D. S. riprese il teatro fino al 1942, nella nuova compagnia Tofano-Rissone-De Sica, portando sulle scene prevalentemente drammi di U. Betti (I nostri sogni, Il paese delle vacanze) e testi pirandelliani (Ma non è una cosa seria, Liolà). Dopo Un garibaldino al convento (1942), una divertita rievocazione storica, D. S. diresse I bambini ci guardano (1944) che segnò il passaggio deciso all'osservazione acuta dei sentimenti umani e della loro radice sociale. Il film, tratto dal romanzo Pricò di C.G. Viola e alla cui sceneggiatura Zavattini partecipò per la prima volta ufficialmente, rappresenta un'anticipazione di quella poetica che di lì a poco D. S. avrebbe progressivamente sviluppato e ampliato. Nel dramma interiore e nello sguardo del piccolo Pricò si legge la crudeltà e la durezza di quello stesso mondo piccolo-borghese che fino ad allora il regista si era limitato solo a rappresentare in maniera frivola e superficiale. D. S., così, cambiò radicalmente e definitivamente la prospettiva del proprio cinema, precorrendo Sciuscià nello studio della condizione del bambino, vittima dell'egoismo e dell'incomprensione degli adulti. Il suo stile si fece più essenziale rintracciando negli esterni, nelle strade, nelle piazze, nel paesaggio urbano, una verità lontana dalle convenzioni dei teatri di posa. Durante uno dei suoi ritorni teatrali diresse la compagnia Isa Miranda, di cui (1944) va ricordata la messinscena di Tovarich di J. Deval; recitò quindi (1945), diretto da Alessandro Blasetti, nel dramma Il tempo e la famiglia Conway di J.B. Priestley. Nel 1946 formò la compagnia Effe De Sica-Gioi-Besozzi, l'ultima di cui fu capocomico.
Della sua attività teatrale di quegli anni va ricordata soprattutto la partecipazione, proprio nel 1946, a Il matrimonio di Figaro di P. A. de Beaumarchais, per la regia di Luchino Visconti. Mentre, al cinema, offrì interpretazioni misurate, talvolta drammatiche, in tre film: il primo di Gennaro Righelli, Abbasso la ricchezza! (1946), accanto ad Anna Magnani; il secondo, Natale al campo 119 (1947) di Pietro Francisci, dove è un nobile napoletano; il terzo, Cuore (1948) di Duilio Coletti, che gli valse il Nastro d'argento come miglior attore per l'intensa interpretazione del maestro Perboni. In La porta del cielo (1945), sceneggiato con Zavattini, l'allontanamento del regista dai canoni precedenti appare irreversibile. Girato, con un'avventurosa lavorazione, nel periodo dell'occupazione tedesca a Roma, il film segue, con una minuzia di osservazione che valorizza espressivamente il dato patetico, le storie di un gruppo di malati in viaggio verso il santuario di Loreto per chiedere il miracolo della guarigione, che però non avverrà.
Ma fu con Sciuscià che D. S. consegnò alla storia del cinema un capolavoro del Neorealismo, ispirandosi alla storia di due giovanissimi lustrascarpe da lui realmente incontrati. Il film, sceneggiato da Zavattini, Adolfo Franci, Giulio Cesare Viola e Sergio Amidei, alterna la crudeltà delle situazioni a squarci e fughe nel sogno, e segue la vita dei due ragazzi (Franco Interlenghi e Rinaldo Smordoni) fino al drammatico tentativo di fuga dal carcere minorile, che conduce alla morte di uno dei due. Con semplicità e sotto tono D. S. svela una realtà dilaniata dalla guerra, utilizzando il senso tragico dell'azione per un atto d'accusa contro il sistema giudiziario e carcerario minorile. A partire da questo film e nella sua fase neorealista, D. S. adottò la pratica di ricorrere a interpreti presi dalla strada, dimostrando un'attitudine particolare nel renderli aderenti alla resa di verità del film.
Nel 1948 uscì la sua opera più famosa e più premiata, Ladri di biciclette, dal romanzo di L. Bartolini, sceneggiata ancora una volta da Zavattini (con Oreste Biancoli, Suso Cecchi d'Amico, A. Franci, G. Gherardi, Gerardo Guerrieri) e interpretata da attori non professionisti. È un racconto immerso nella realtà delle strade e dei quartieri della Roma segnata dalla guerra, in cui campeggia la disperazione di un disoccupato al quale, trovato finalmente un posto di attacchino, rubano la bicicletta, strumento essenziale per il lavoro. Dall'affannoso deambulare del protagonista (Lamberto Maggiorani) accompagnato dal figlioletto (Enzo Stajola), spaurito e partecipe del dolore del padre, dalla ostile indifferenza e dalla desolazione che li circondano emerge il quadro di una condizione umana e sociale filmato con accorta pietas. Il film riscosse un enorme successo in tutto il mondo.
Con Miracolo a Milano, premiato nel 1951 con la Palma d'oro al Festival di Cannes, D. S. non ottenne invece il successo commerciale sperato. Con la sceneggiatura che Zavattini aveva ricavato dal suo romanzo Totò il buono (rimaneggiamento del suo vecchio soggetto Diamo a tutti un cavallo a dondolo), D. S. modellò la sua poesia del quotidiano sull'affettuosa descrizione delle miserie di una baraccopoli, mediante uno stile trasognato e funambolico.
L'anno successivo, con Umberto D. il regista pervenne a un'asciuttezza livida e rigorosa, a uno stile scarno, ma accorato che penetra nelle pieghe della solitudine della desolata e umiliata vecchiaia del protagonista, un modesto pensionato (Carlo Battisti). Queste prove restano le più alte della sua opera registica, anche se per le polemiche sullo 'sciorinamento dei panni sporchi' di un'Italia piegata dalla guerra, D. S. fu osteggiato dagli ambienti politici di una certa Italia benpensante.
Nel frattempo continuava le sue interpretazioni, disegnando caratteri e ruoli in cui il mestiere consumato si mescolava a dosi di garbata ironia. Lasciarono una traccia durevole, fra gli altri: Buongiorno, elefante! (1952) di Gianni Franciolini, in cui impersona il maestro Garetti, imbarazzato dall'ingombrante regalo di un elefante; di Blasetti, nel 1952, Altri tempi (Zibaldone n. 1), in cui è un tronfio ed esilarante avvocato napoletano nel processo a una moderna Frine (Gina Lollobrigida), e, nel 1954, Tempi nostri (Zibaldone n. 2), dove rappresenta la crepuscolare figura di un conte decaduto costretto a lavorare come comparsa cinematografica.
Il ritorno alla regia avvenne con Stazione Termini (1953), irrisolta coproduzione con gli Stati Uniti, incerta tra sentimentalismo e ambizioni spettacolari. Con L'oro di Napoli (1954), dai racconti di G. Marotta, soprattutto negli episodi Il funeralino e I giocatori, D. S. raggiunse un notevole risultato espressivo grazie alla sua tipica sensibilità nel racconto dell'infanzia e mediante il ritratto icastico delle miserie e dell'umanità dei napoletani. Dopo aver interpretato il galante maresciallo in un classico del neorealismo rosa che avrà seguiti e imitazioni, Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, nel 1956 D. S. ritornò alla regia con Il tetto, opera dotata di una certa sottigliezza descrittiva, sul problema della casa e della coabitazione.
Con La ciociara (1960), tratto dal romanzo di A. Moravia, realizzò un film che possiede un ampio respiro narrativo quando descrive lo strazio di una madre umiliata dagli oltraggi della guerra (interpretazione che valse un Oscar a Sophia Loren), e accenna pudicamente alla malinconica vocazione alla morte di un intellettuale antifascista. Da attore D. S. aveva ricoperto nel 1959 la parte più importante del suo ultimo scorcio di carriera, diretto da Roberto Rossellini in Il generale Della Rovere, in cui è il doppiogiochista Giovanni Bertone prima povero imbroglione, via via coinvolto dalla tragedia della guerra, infine travolto dalla volontà di tener fede, paradossalmente sino alla morte, al ruolo interpretato. Nella regia di Il giudizio universale (1961) D. S. seppe incastonare in un surreale mosaico ambientato a Napoli una coralità che riprendeva la sua vena descrittiva migliore. I film successivi rientrano in schemi più convenzionali, quelli della commedia sentimentale o della satira sociale (Il boom, 1963; Matrimonio all'italiana, 1964, da Filumena Marturano di Eduardo De Filippo), ma alcuni contengono icastiche notazioni di costume, come La riffa, episodio di Boccaccio '70 (1962; film a più mani diretto anche da Federico Fellini, Luchino Visconti e Mario Monicelli) o Ieri oggi domani (1963, Oscar per il miglior film straniero nel 1965) che consacrò il sodalizio di D. S. con la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni, e in cui l'episodio di Adelina, dovuto al soggetto di E. De Filippo, è un sapido apologo sull'arte di arrangiarsi, o come Un mondo nuovo, noto anche come Un monde nouveau (1966), che si regge su una delicatezza di tocco che tratteggia bene le atmosfere psicologiche.
Nel suo ultimo periodo registico D. S. si piegò per lo più alle ragioni industriali, anche con coproduzioni interpretate da famosi attori stranieri, da Peter Sellers a Shirley MacLaine (Caccia alla volpe, 1966; Sette volte donna, 1967; Amanti, 1968; I girasoli, 1970; Lo chiameremo Andrea, 1972 furono melodrammi e commedie sentimentali di gusto convenzionale e ambizioni spettacolari). Accanto alle apparizioni televisiva nel Pinocchio (1972) di Comencini nel ruolo del giudice, e cinematografica in Il delitto Matteotti (1973) di Florestano Vancini, due regie furono rilevanti. In primo luogo quella di Il giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di G. Bassani (1970, Orso d'oro al Festival di Berlino nel 1971; Oscar per il miglior film straniero nel 1972), per il quale il figlio Manuel (n. Roma 1949) compose la colonna sonora, e in cui è evidente tutta l'abilità di D. S. nella direzione degli attori e nel dare colore e psicologia ad ambienti sociali, sentimenti umani, dissidi sentimentali. L'altra opera, Una breve vacanza (1973), è la storia di un'operaia calabrese, divisa tra la malattia e la voglia di vivere ed evadere dalle ossessioni familiari. In essa D. S. accentuò una vena intimista e ritrovò l'afflato, il concreto senso della solidarietà, il racconto umano delle cose, propri dei suoi primi capolavori. Nel 1967 aveva ottenuto la cittadinanza francese, anche per poter divorziare da Giuditta Rissone (da cui aveva avuto la figlia Emi) e sposare l'attrice spagnola Maria Mercader, conosciuta sul set di Un garibaldino al convento e sua compagna per la vita. Il viaggio (1974), ultimo film diretto da D. S., ancora interpretato da Sophia Loren, è un racconto, di derivazione pirandelliana, dove il percorso malinconico di una donna, tra amore e morte, suggella, quasi come un presagio, la fine dell'itinerario artistico e umano del regista.”
(Bruno Roberti, Nicoletta Ballati - Enciclopedia del Cinema (2003) in www.treccani.it)
Una poesia al giorno
La bellezza del mondo, di Janka Kupala (tradotta da Paolo Statuti in musashop.wordpress.com)
O primavera! Tu hai donato
La gioia e una festa giuliva,
Hai illuminato la mia anima
E mi hai dissetato con acqua viva.
Sotto l’ardente azzurra volta
Hai dipinto il tuo verde affresco,
E sulla terra ridestata
Hai tessuto il tuo rabesco.
Guarda l’opera delle tue mani!
Benediscono il tuo operato
La terra, il cielo e il venticello,
Ti rendo omaggio e ti sono grato.
Torna a vivere il focolare!
Rifioriscono le campanelle,
Brilla il fiume, fischiano gli uccelli,
La loro voce sale alle stelle.
E il pensiero vola nell’azzurro
Per confidare a tutti - anche a Dio -
Con quali luminosi doni
La primavera è apparsa al cuore mio.
Vola, o pensiero, sempre più alto,
Fin dove lo sguardo arriverà,
Dammi un canto di acciaio tonante,
Portami una ferrea volontà.
Col canto esalterò l’amore
Nelle terre altrui, tra la mia gente,
Perché esso fiorisca nel mondo
Quando dormiremo eternamente.
La ferrea volontà tanto più
Serve all’amore per ripagare
Il pianto, la fame, la sventura,
Il peso che ha dovuto portare.
Janka Kupala (Я́нка Купа́ла; Vjazynka, 7 luglio 1882 - Mosca, 28 giugno 1942) è lo pseudonimo di Ivan Daminikavič Lucėvič (Іван Дамінікавіч Луцэвіч). Poeta, drammaturgo, pubblicista, traduttore, è considerato il principale creatore della moderna letteratura bielorussa. E’ uno dei simboli spirituali del suo Paese. Come tutti i classici, Janka Kupala è perennemente attuale e sarà sempre incluso nel novero delle figure più eminenti della Bielorussia. All’inizio del XX secolo, quando la lingua bielorussa viveva un momento difficile, ed era perfino in dubbio la sopravvivenza stessa della nazione, egli fece molto, affinché i bielorussi sentissero la propria individualità nazionale e lottassero per essa.
Nel 1898 terminò la scuola bielorussa popolare. Scrisse le sue prime poesie in polacco. Pubblicò la prima raccolta poetica Rimpianto nel 1908 a San Pietroburgo. In essa sono ritratte le aspirazioni e le lotte del contadino bielorusso in un tono fondamentalmente pessimistico, che si accentuò nelle raccolte seguenti Il suonatore di gusli (1910) e Sulle orme della vita (1913), pervase da tendenze nazionalistiche. In quest’ultima, a differenza delle due precedenti, si sente l’influenza dell’estetica modernista e simbolista. Tra le sue opere drammatiche ricordiamo soprattutto Paulinka e Il nido distrutto, in cui la difesa dei contadini ha già un colorito liberale-rivoluzionario, dal quale tuttavia il poeta prenderà le distanze, per avvicinarsi, dopo la rivoluzione, alle idee bolsceviche. Il dramma Il nido distrutto, apparso nel settembre del 1913, è l’opera più importante del periodo prerivoluzionario. Nell’esempio di una famiglia di contadini che perde tutti i suoi averi, egli vede la tragedia del suo popolo. Il dramma fu rappresentato solo dopo la rivoluzione nel 1917 e stampato a Vilno nel 1919.
Alla fine di settembre 1915 si trasferì a Mosca dove iniziò gli studi presso l’Università “A. L. Szaniavskij”. Qui sposò Vladislava Stankevič, che gli fu fedele compagna. Dopo la morte di Kupala trascorse la vita a collezionare il patrimonio letterario del consorte, e creò a Minsk il museo a lui dedicato all’ombra degli alberi dell’omonimo parco.
A Minsk nel 1919 uscì il primo numero del giornale da lui redatto La campana. Per esso scrisse nuovi versi e pubblicò numerosi articoli sul tema del movimento nazionale bielorusso e della lotta per la libertà. Al tempo stesso tradusse Il canto della schiera di Igor. Nel 1922 contribuì alla creazione dell’Istituto di Cultura Bielorusso. Gli anni successivi videro la repressione dell’intelligentzia e Kupala fu costretto a scrivere poesie elogianti i risultati del socialismo. Subiva spesso interrogatori in merito all’organizzazione controrivoluzionaria “Unione per la Liberazione della Bielorussia”, che in realtà non esisteva. Avvilito dalla persecuzione, il 20 novembre 1930 tentò di suicidarsi. In preda alla disperazione firmò la cosiddetta “Lettera aperta di Janka Kupala”, nella quale rinnegava i suoi ideali nazionali. La sua creazione degli anni ’30, tranne poche eccezioni come un poema dedicato alla memoria di Taras Ševčenko, è priva di valori artistici, eppure (o direi proprio per questo) nel 1941 ottenne il premio Lenin. Queste poesie furono pubblicate nella raccolta L’annuncio del cuore.
Nel 1941, in seguito all’occupazione tedesca della Bielorussia, Kupala si recò prima a Mosca e poi nel Tatarstan, da dove scriveva poesie-appelli alla nazione, spronandola alla lotta contro gli invasori. Il 28 giugno 1942 morì tragicamente a Mosca, cadendo nella tromba delle scale dell’albergo Mosca, dopo un volo di più di 10 metri. La versione ufficiale è quella del suicidio, ma ci sono particolari e considerazioni che suggeriscono in modo convincente la versione di un ennesimo omicidio del famigerato NKVD. Molti ritengono che negli archivi del Servizio Federale per la Sicurezza esistano documenti che potrebbero fare piena luce sulla morte del poeta.
Scrisse di lui Ettore Lo Gatto: «Strettamente legato alla tradizione popolare, Janka Kupala ha tuttavia introdotto nella poesia bielorussa perfezione di tecnica, varietà di stile, ricchezza di motivi. Nell’opera drammatica è da rilevare anche la tendenza a far proprie le forme più moderne, quali per esempio il grottesco. Di grandissima importanza è stata l’opera del Kupala per la formazione dell’attuale lingua letteraria bielorussa, nella quale egli ha introdotto numerosi neologismi. A Kupala si richiama l’odierna generazione di poeti bielorussi».
Le sue ceneri riposano nel cimitero militare di Minsk, accanto alla tomba dell’altro illustre poeta e scrittore bielorusso, suo coetaneo, Jakub Kolas.”
7 luglio 1882 nasce Yanka Kupala, poeta e scrittore bielorusso (morto nel 1941).
Un fatto al giorno
7 luglio 1937: L'incidente del Ponte Marco Polo fornisce all'esercito imperiale giapponese un pretesto per iniziare la seconda guerra sino-giapponese.
“L'incidente del ponte di Marco Polo avvenne il giorno 7 luglio 1937 e coinvolse truppe giapponesi in addestramento presso il ponte e la guarnigione della Cina Repubblicana che lo presidiava. Con il termine incidente, che ricorre spesso nel linguaggio ufficiale della diplomazia giapponese del tempo, si intendeva però definire l'inizio di uno stato di guerra non dichiarata. Secondo la storiografia cinese l'incidente venne inscenato dalle truppe giapponesi dell'Armata del Kwantung allo scopo di legittimare l'invasione della Cina; un gruppo di militari giapponesi travestiti da cinesi ed un gruppo di militari giapponesi in divisa si sarebbero quindi sparati tra di loro, cosicché il Giappone potesse accusare i militari cinesi di aver attaccato per primi. Secondo la storiografia giapponese, invece, i soldati aggressori erano effettivamente cinesi, e l'invasione era giustificabile come reazione all'attacco subito. Tale evento fece precipitare le relazioni tra i due paesi, dando il via alla seconda guerra sino-giapponese.”
(In wikipedia.org)
“Il 7 luglio del 1937, noto anche come Incidente del Ponte di Marco Polo, ha segnato l'inizio su vasta scala dell’invasione giapponese in Cina, così come l'inizio della guerra di resistenza del popolo cinese contro l'aggressione giapponese in tutto il paese.
Nel 1937, Beiping (l’attuale Pechino) fu circondata dalle truppe giapponesi in tre direzioni, lasciando solo la parte sud-occidentale della città Wanping presidiata dalla 29 armata dell'Esercito Rivoluzionario Nazionale cinese. Il Ponte di Marco Polo e la cittadina di Wanping città funsero da rifugio per Beiping e per la Cina centrale. Se la città fosse stata catturata dalle truppe giapponesi, le ferrovie Beiping - Hankou sarebbero state bloccate e Beiping non sarebbe stata più protetta.
La mattina del 7 luglio 1937, le forze giapponesi fecero delle esercitazioni nei pressi del Ponte di Marco Polo. Quel pomeriggio, un gruppo di truppe giapponesi lasciò le barricate di Fengtai, per dirigersi al Tempio Re Drago, situato a circa 1 km dalla cittadina di Wanping circondata da cinta murarie, con il pretesto di svolgere esercitazioni notturne.
Alle 07:30, ebbero inizio le manovre militari giapponesi. Alle 10:40, si sentirono spari a nord-est di Wanping e più tardi, alcuni soldati giapponesi giunsero fuori dalle mura di Wanping, chiedendo il permesso di entrare in città per cercare un soldato che non riuscivano a trovare. L’ armata 29 respinse la richiesta e allora le forze armate giapponesi attaccarono Wanping.
A mezzanotte, il Giappone inviò una rappresentanza del- Comitato politico Chahar Hebei per discutere la questione del "soldato giapponese non ritrovato" e chiedere ancora una volta di accedere alla città per poterlo cercare. La richiesta fu rifiutata da Qin Dechun, vice comandante dell’armata 29, unitamente al sindaco di Beiping, che rispose ai giapponesi che avrebbero "chiesto alla polizia locale di cercare il soldato giapponese all'alba e restituirlo se fosse stato ritrovato”.
Secondo le sue Memorie sull'incidente del Ponte di Marco Polo, scritte da Wang Lengzhai, l’allora magistrato della contea di Wanping, Qin Dechun ordinò alle truppe cinesi stanziate a Wanping di rimanere in allerta, e chiese a Wang di “capire non appena possibile quale fosse realmente la situazione, per poter gestire correttamente la questione". L'inchiesta rivelò che nessuna delle truppe cinesi avesse sparato con una pistola e ha prodotto alcuna prova relativa al soldato giapponese mancante.
In realtà, il "mancante" soldato giapponese, Shimura Kikujiro, tornò presto alla sua unità. Intervistato da quotidiano giapponese Asahi Shimbun, il 30 giugno, 1938, Kiyonao Ichiki, comandante dell'8° Battaglione dell'esercito giapponese durante il 7 luglio incidente del 1937, ha ammesso di essere stato informato del ritorno del soldato mancante prima dello scoppio della l'incidente.
Dopo che la loro richiesta fu rifiutata, le truppe giapponesi accesero il fuoco contro le truppe cinesi di difesa e bombardarono Wanping. E l’armata cinese fu costretta a rispondere all’attacco.
Alle 2 del mattino dell’8 luglio, giunsero I rinforzi giapponesi nell’area a sud-ovest della Stazione ferroviaria del Ponte di Marco Polo. Tre minuti dopo le forze giapponesi occuparono Shagang, l’unico punto elevato fuori da Wanping.
Alle 3 i rappresentanti cinesi giunti al palazzo dell’ufficio dell’agenzia speciale giapponese per le negoziazioni a Beiping. Intorno alle 4 i rappresentanti di entrambe le parti negoziarono a Wanping. E allo stesso tempo Kanichiro Tashiro, il comandante dell’armata della guarnigione giapponese in Cina, tenne un incontro a Tianjin, in occasione della quale ordinò l’attacco su Wanping.
Alle 5 del mattino le forze giapponesi attaccarono Wanping e le negoziazioni furono sospese. Le truppe cinesi di difesa combatterono per difendere la città e dopo un’ora di dura lotta, le truppe giapponesi furono scacciate all’esterno della città. I rappresentanti giapponesi quindi levarono bandiera bianca e salirono sulle mura di cinta di Wanping, chiedendo di riaprire le negoziazioni.
Alle 7:30 il quartier generale dell’Armata giapponese di Guarnigione in Cina ordinò il trasferimento delle sue truppe presenti a Tianjin e a Qinhuangdao a Beiping.
Alle 9:30 l’esercito giapponese attaccò ancora una volta Wanping e il Ponte di Marco Polo. Jin Zhenzhong, comandante del 3zo battaglione della 29esima Armata della Strada condusse due compagnie nella battaglia contro le truppe giapponesi nella parte più orientale del ponte della ferrovia che dopo due ore di battaglie, portò le truppe cinesi a riprendere in mano la parte orientale finale del ponte, obbligando i soldati giapponesi a ritirarsi di un chilometro.
Alle 4 del pomeriggio la parte giapponese richiese la ripresa delle negoziazioni che furono rifiutate da parte cinese. Alle 5 della sera i giapponesi lanciarono un ultimatum che imponeva il ritiro delle truppe cinesi da Wanping. Al rifiuto dell’ultimatum le truppe giapponesi iniziarono a bombardare Wanping alle 6:05 della sera: lo fecero per oltre tre ore, durante le quali numerose residenze civili furono distrutte.
Le truppe cinesi difesero tenacemente Wanping. La squadra della Spada Larga della 29esima armata della Strada attaccò le truppe giapponesi nel Tempio del Re Drago e se ne riappropriarono dopo due ore di feroce battaglia.
L’8 luglio il Comitato Centrale del Partito comunista cinese rilasciò una dichiarazione pubblica che chiedeva una "guerra nazionale di resistenza contro l’aggressione Giapponese", di cui diede l’annuncio dell'inizio di una guerra nazionale che sarebbe durata otto anni.”
(In www.chinapictorial.com.cn)
Immagini:
- History cannot be forgotten: July 7 Lugou Bridge Incident
- The Marco Polo Bridge Incident
- Archive newsreel about the Marco Polo Bridge incident
Una frase al giorno
“L'inferno inizia il giorno in cui Dio ci concede una visione chiara di tutto ciò che avremmo potuto raggiungere, di tutti i doni che avremmo potuto sprecare, di tutto ciò che avremmo potuto fare che non abbiamo fatto.”
(Gian Carlo Menotti, compositore italo-americano, 1911-2007)
“MENOTTI, Gian Carlo nacque a Cadegliano, vicino Varese, il 7 luglio 1911 da Alfonso, ricco imprenditore, e Ines Pellini, pianista dilettante. Sesto di dieci fratelli, crebbe in un ambiente familiare dove si coltivavano quotidianamente la musica, il teatro e altre forme d’arte. Cominciò a studiare il pianoforte sotto la guida della madre, scrisse le sue prime liriche a 7 anni e a 11 anni compose due opere, The death of Pierrot e The little mermaid, tratte da H.C. Andersen. Nel 1923 entrò al conservatorio G. Verdi di Milano. Dopo la morte del padre, nel 1927 si trasferì con la madre negli Stati Uniti e grazie all’intercessione di A. Toscanini fu iscritto al Curtis Institute of music di Filadelfia, dove studiò con R. Scalero, che lo sottopose a un severo training di tecnica compositiva, basato soprattutto sul contrappunto, le forme classiche e la polifonia antica. Al Curtis Institute conobbe Samuel Barber, che dopo il diploma, conseguito («with honour») nel 1933, lo accompagnò nel classico grand tour in Europa, e con lui il M. condivise poi gran parte della vita.
Nel 1936, a Vienna, iniziò a scrivere l’opera buffa Amelia al ballo, che completò negli Stati Uniti e che andò in scena a Filadelfia nel 1937 e l’anno dopo al Metropolitan di New York. Il successo convinse la NBC (National Broadcasting Company) a commissionare al M. un’opera per la radio, The old maid and the thief, che fu trasmessa per la prima volta nel 1939 (prima in teatro: Filadelfia 1941). Stabilitosi nel 1943 a Mount Kisco, nello Stato di New York, insieme con Barber, il M. divenne in breve un operista di fama, insignito di numerosi premi (nel 1945 il premio dell’American Academy of arts, nel 1946 quello della Guggenheim Fellowship). Nel 1946, su commissione dell’Alice M. Ditson Fund, compose The medium, tragedia in due atti che debuttò a New York al Brander Matthews theater (Columbia University) e che subito dopo fu rappresentata 211 volte a Broadway. Nel 1947, su invito della Ballet Society di New York, scrisse, come atto unico da abbinare all’opera precedente, The telephone or L’amour à trois, che andò in scena allo Heckscher theater di New York. Nel 1950 si rivolse nuovamente al genere drammatico con The consul, che debuttò allo Schubert theater di Filadelfia e fu ripreso all’Ethel Barrymore theater di New York, dove ebbe 269 repliche.
L’opera ricevette il premio Pulitzer per la musica e il New York Critics Award (quattro anni dopo gli stessi premi furono assegnati anche all’opera The saint of Bleecker street), fu tradotta in 12 lingue, allestita in 20 paesi diversi, con un successo tale che spinse il produttore Jean Dalrymple a trarne un film per la televisione nel 1960. Agli schermi fu anche espressamente destinata l’opera per la televisione Amahl and the night visitors, commissionata nel 1951 al M. ancora dalla NBC e trasmessa per anni nel periodo natalizio (prima in teatro: Bloomington, Indiana, 1952).
Dopo il successo dell’opera in tre atti The saint of Bleecker street (92 repliche tra il 1954 e il 1955) sulle scene del Broadway theater di New York, il M. compose nel 1956 The unicorn, the Gorgon and the manticore, commedia madrigalesca commissionata dalla Elizabeth Sprague Coolidge Foundation e rappresentata alla Library of Congress di Washington. Il feeling del M. con il pubblico americano e con la critica cominciò ad affievolirsi con Maria Golovin, dramma musicale in tre atti commissionato dalla NBC e rappresentato (dopo la prima mondiale a Bruxelles) al Martin Beck theater di New York nel 1958, dove rimase in scena solo per 5 serate.
Il M. affiancò all’attività di compositore anche quella di didatta proprio al Curtis Institute, dove insegnò dal 1948, ricoprendo (tra il 1952 e il 1955) anche la carica di preside del dipartimento di composizione. Nel 1958 fondò a Spoleto il celebre Festival dei due mondi, con il quale intendeva creare un terreno di contatto fra il mondo culturale europeo e quello americano, nell’ambito della musica e di tutte le altre espressioni artistiche. L’attività di organizzatore, che lo impegnò per tutta la vita, segnò anche un rallentamento di quella compositiva, benché le sue opere cominciassero a essere messe in scena anche in Europa. Nel 1963 compose Le dernier sauvage su commissione dell’Opéra-Comique di Parigi (era la prima volta per un compositore non francese dopo Giuseppe Verdi con il Don Carlo); poi fu la Staatsoper di Amburgo a commissionargli Help, help, the Globolinks!, opera in un atto per bambini che andò in scena nel 1968.
Nel 1973 il M. si trasferì a Yester, in Scozia, insieme con il figlio adottivo Francis.
Nel 1977 ampliò le attività del festival spoletino, fondando un festival gemello a Charleston, nella Carolina del Sud, che diresse fino al 1993, quando fu nominato direttore dell’Opera di Roma. Nel 1979 compose l’opera in tre atti Juana la Loca per il soprano Beverly Sills (San Diego 1979) e nel 1986 Goya, su richiesta di P. Domingo (Washington 1986). Il M. ricevette numerose onorificenze anche nell’ultimo periodo della sua lunga vita: nel 1981 fu nominato cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana, nel 1984 fu premiato con il Kennedy Award per la sua attività di compositore e regista.
Morì a Montecarlo il 1° febbraio 2007.
Compositore distante dall’avanguardia, spesso in rovente polemica con alcuni suoi esponenti come L. Nono e P. Boulez, il M. si dichiarò sempre orgogliosamente un compositore conservatore. Il suo linguaggio musicale, eclettico, manierista, influenzato da G. Puccini, ma anche da M.P. Musorgskij, da C. Debussy, da I.F. Stravinskij, si caratterizza per un uso disinvolto di stili e materiali diversi, ma sempre tenuti insieme da una scrittura fluida ed eloquente, immediatamente comunicativa. Una scrittura sostanzialmente tonale e diatonica, punteggiata da marcati patterns ritmici, con una orchestrazione agile, ricca di colori, ma sempre trasparente, e una netta predilezione per i piccoli organici. Il grande successo delle sue opere, che ebbero un ruolo fondamentale nel cambiare il rapporto degli Americani con l’opera, deriva innanzitutto dalla sua familiarità con il mondo del teatro: il M. fu anche attore, commediografo, autore di tutti i libretti delle sue opere e di alcune pièces teatrali - di cui fu spesso regista -, come A copy of madame Aupic (1953) e The leper (1970); scrisse inoltre tre libretti per altri compositori: uno per L. Foss, Introductions and good-byes (1961), e due per Barber, A hand of bridge (1960) e Vanessa (1964).
Il M. sempre concepì l’opera come un insieme indivisibile di testo, musica e azione, dimostrandosi un compositore attentissimo ai tempi teatrali, capace di creare una drammaturgia musicale incalzante, coinvolgente, piena di effetti descrittivi e di colpi di scena, talvolta con un taglio quasi cinematografico, e dominata dal canto (fu sempre critico nei confronti dei suoi colleghi che trattavano la voce in maniera strumentale), da linee vocali intimamente legate allo svolgimento drammatico, che prendono la forma del grande arioso, del declamato, dell’aria di coloratura, o del veloce «parlar cantando» alla Puccini. Nei suoi libretti emergono l’interesse per il mondo dei bambini, ma anche per i personaggi menomati (ci sono personaggi muti in The medium, in Help, help, the Globolinks!, in The singing child, un cieco in Maria Golovin, uno storpio in Amahl, un sordo in Goya), il gusto per la dimensione del gioco, dell’enigma, per le parabole che illustrano precetti morali, per la satira di costume.
La sua carriera di operista si aprì con tre opere buffe, tre atti unici pieni di verve e di ironia, che ricorrono alla struttura a numeri chiusi, tipica dell’opera buffa italiana, per descrivere i vizi della società moderna, attraverso personaggi femminili molto caratterizzati: in Amelia al ballo è una giovane donna, ricca e annoiata, desiderosa solo di partecipare a un ballo importante, del tutto indifferente di fronte ai conflitti tra il marito e l’amante, una figura che si impone per la vocalità esuberante, cui fanno solo da sfondo le figure caricaturali degli uomini; in The old maid and the thief - opera composta di 14 brevi scenette, con una vena musicale in stile Broadway, e con alcune arie divenute celeberrime (What curse for a woman, is a timid man; Bob’s bedroom aria) - la protagonista è una puritana zitella che, innamoratasi di un ladro evaso di prigione, comincia anche lei a compiere furti; in The telephone ritorna il prototipo della donna ricca, alla moda, che passa tutto il suo tempo al telefono (le telefonate sono costruite come pezzi chiusi, che permettono alla cantante di esibirsi in diversi stili vocali, passando dal canto elegiaco alla coloratura).
Alla dimensione comica fa esplicito riferimento anche The unicorn, the Gorgon and the manticore, elegante lavoro per coro, 9 strumenti e 10 danzatori, costruito come un vero e proprio calco dell’antica commedia madrigalesca, composta da un’introduzione, 12 madrigali (alcuni a cappella) e sei interludi strumentali: un’allegoria che descrive, attraverso animali fantastici, le tre fasi della vita di un artista, lanciando anche qualche frecciata contro i critici musicali.
La satira contro la società moderna viene enfatizzata dal confronto con altre culture in due opere composte a distanza di dieci anni: Le dernier sauvage, opera che il M. ha sempre considerato una delle migliori, fu originariamente composta su un libretto in italiano (L’ultimo superuomo), con una trama (una giovane antropologa che parte per le Indie alla ricerca dell’uomo primitivo, insieme con il padre miliardario) che offre lo spunto per numerosi concertati, in stile rossiniano, arie virtuosistiche e anche una pagina dodecafonica, che suona come una parodia della musica contemporanea; Tamu-Tamu (Chicago 1973), opera da camera comica e surrealista, racconta la storia di una famiglia indonesiana che prende vita da un’immagine ed entra nella vita di una coppia americana. Il M. ha sempre mostrato anche un grande interesse per i nuovi media: dopo l’opera radiofonica The old maid and the thief ha creato, con Amahl and the night visitors, la prima opera espressamente scritta per la televisione (immersa in un’atmosfera da presepe, pervasa di buoni sentimenti e di melodie orecchiabili), e nel 1963 The labyrinth, ancora un’opera televisiva, ma dal carattere sperimentale che sfrutta sofisticate tecniche della telecamera per rappresentare immagini ossessionanti e surreali di un hotel, dove giunge una coppia di sposi che perde la chiave della stanza. Amahl and the night visitors è anche un’opera giocata su un registro favolistico e pensata per i bambini, come lo furono anche Help, help, the Globolinks! (storia di fantascienza che racconta di un’invasione di extraterresti, sempre accompagnati dal nastro magnetico), Chip and his dog (Guelph 1979), The boy who grew too fast (Wilmington 1982), A bride from Pluto (Washington 1982), The singing child (Charleston 1993) e le «church operas» come Martin’s lie (Bristol 1964) e The egg: an operatic riddle (Washington 1976).
Il M. collauda il registro drammatico nell’opera The medium: l’angoscia di una sensitiva sconvolta per essere entrata davvero in contatto con il mondo sovrannaturale, al punto di uccidere il ragazzo suo complice, si trasforma in una musica misteriosa e inquietante, basata su una struttura a specchio (il secondo atto è la ripetizione in negativo del primo), su una costruzione armonica dissonante che sottolinea lo sconfinamento dal reale al fantastico, su alcuni tratti impressionistici, affidati alla piccola orchestra di 14 elementi, su alcune melodie orecchiabili (come la cullante O, black swan) alternate ad ampie zone di declamato (come il vaneggiamento della protagonista nel soliloquio finale).
Quasi un thriller è anche The consul, opera in tre atti su una vicenda all’epoca di grande attualità, perché evocava il clima della guerra fredda, raccontando del potere e della burocrazia in uno Stato di polizia: il declamato sempre carico di tensione, qualche interessante concertato (come il quintetto In endless waiting rooms), l’ampio uso di dissonanze contribuiscono a dare a quest’opera una netta impronta cinematografica (le prime tracce si possono trovare in alcuni copioni che il M. scrisse per la Metro Goldwyn Mayer). La Little Italy newyorkese fa da cornice a The saint of Bleecker street, che narra le strane vicende di una ragazza, detta «la santa», che ha visioni mistiche, fa miracoli, riceve le stimmate ed è legata da un affetto incestuoso al fratello. Il M. mescola la dimensione mistica con vividi tratti popolareggianti (che ricordano Stravinskij di Petrouchka e P. Mascagni della Cavalleria rusticana), affidando un ruolo fondamentale al coro e ricercando soluzioni timbriche di effetto. Forti tinte melodrammatiche, insieme con grandi slanci lirici, dominano in Maria Golovin, imperniata sul tema classico della passione e della gelosia, e nelle grandi opere storiche come Juana la Loca e Goya, caratterizzata quest’ultima da un’orchestrazione brillante, piena di venature spagnoleggianti, e da stridenti dissonanze che accompagnano l’improvvisa sordità dell’artista.
Per il teatro il M. compose anche alcuni balletti (Sebastian, New York 1944; Errand into the maze, ibid. 1947) e musiche di scena (Le poète et sa muse, di J. Cocteau, Spoleto 1959; Médée di J. Anouilh, Roma 1966; Romeo and Juliet di W. Shakespeare, Parigi 1968). Nella sua produzione non operistica spiccano soprattutto i grandi affreschi sinfonico-corali, da The death of the bishop of Brindisi per soli, coro e orchestra (1963) alla misticheggiante cantata Muero porque no muero per soprano, coro e orchestra (1982); la brillantezza di alcune pagine sinfoniche, come il respighiano Apocalypse (1951), e la sinfonia The halcyon (1976); l’afflato lirico dello scarlattiano concerto per pianoforte (1945), del romantico concerto per violino (1952), del sofisticato Triplo concerto a tre (1970) - con i nove solisti suddivisi in tre «concertini» - della Fantasia per violoncello e orchestra (1975), del concerto per contrabbasso (1983), trasformato in uno strumento cantabile, dalle volute delicatamente fiorite.
Oltre ai lavori citati si segnalano le seguenti composizioni per il teatro (su libretto proprio): The island God (New York, Metropolitan, 1942); The most important man, opera in tre atti (ibid., Lincon Center 1971); The wedding (Seoul 1988); musica vocale e corale: Canti della lontananza, per voce e pianoforte (1967); Landscapes and remembrances, per soli, coro e orchestra (1976); The trial of the gypsy, cantata drammatica in un atto per voci bianche e pianoforte (1978); Miracles, per coro di voci bianche e orchestra (1979); Missa «O Pulchritudo» in honorem Sacratissimi Cordis Iesus, per soli, coro e orchestra (1979); A song of hope (An old man’s soliloquy), per baritono, coro e orchestra (1980); Moans, groans, cries, and sighs, madrigale per sei voci a cappella (1981); Five songs, per tenore e pianoforte (1981); Nocturne, per soprano, arpa e quartetto d’archi (1982); Mass for the contemporary English liturgy, per coro (1985); My Christmas, per coro maschile e sei strumenti (1987); For the death of Orpheus, per tenore, coro e orchestra (1990); Oh llama de amor viva, per baritono, coro e orchestra (1991); Gloria, per tenore, coro e orchestra (1995); Jacob’s prayer, per coro e orchestra (1997); Regina Coeli, per coro a cappella (1998); composizioni per orchestra: Pastorale and dance, per pianoforte e orchestra d’archi (1933); musica da camera: Variation and fugue, per quartetto d’archi (1932); Poemetti, 12 pezzi pianistici per bambini (1937); suite per due violoncelli e pianoforte (1973); Cantilena and scherzo, per arpa e quartetto d’archi (1977); Lullaby for Alexander, per pianoforte (1978); Ricercare, per organo (1984); trio per violino, clarinetto e pianoforte (1996); scritti: The bridge, sceneggiatura per un film (1947); A chance for Aleko, sceneggiatura per la televisione (1961).”
(Gianluigi Mattietti - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 73 (2009) in www.treccani.it)
Ascoltarlo:
- Gian Carlo Menotti, Concerto in Fa per pianoforte e orchestra, 1945.
1. Allegro
2. Lento
3. Allegro
Earl Wild, piano
The Symphony of the Air. Jorge Mester, direttore.
7 luglio 1911 nasce Gian Carlo Menotti, compositore italo-americano (morto nel 2007)
Un brano musicale al giorno
Gustav Mahler, "Das klagende Lied".
1. Waldmärchen (Fiaba della foresta) - Langsam und träumerisch
2. Der Spielmann (Il menestrello) - Mit sehr geheimnisvollem Ausdruck
3. Hochzeitsstück(Scena di nozze) - Mit höllischer Wildheit
Helena Döse, soprano
Alfreda Hodgson, mezzosoprano
Robert Tear, tenore
Sean Rea, baritono
CBSO Chorus
Simon Halsey, Chorus Master
City of Birmingham Symphony Orchestra
Simon Rattle, Direttore
La storia
Waldmärchen ("Fiaba della foresta")
Una regina orgogliosa, d'incomparabile bellezza, decide di accettare in matrimonio soltanto il cavaliere capace di trovare nella foresta un certo fiore rosso bello quanto lei. Due fratelli cercano di conquistare i suoi favori. Il più giovane è dolce e gentile; l'altro sa solo imprecare! Vicino a un vecchio salice verde, il primo cavaliere trova il fiore e si stende per riposare. Ma il crudele fratello maggiore, con gioia selvaggia, lo sorprende nel sonno e lo trafigge con la spada.
Der Spielmann ("Il menestrello")
Accanto al salice, in mezzo alla foresta, il biondo cavaliere giace coperto da un manto di foglie e fiori. Tutto è soave e profumato, e un pianto sembra diffondersi nell'aria. Un menestrello errante, trovandosi a passare, vede risplendere un ossicino bianco e ne ricava un flauto. Quando comincia a suonarlo ne esce, così strano e triste, eppure così bello, il canto del lamento del giovane cavaliere che accusa il suo assassino. Facendo riecheggiare ovunque questo canto, il menestrello s'incammina verso il castello dove la regina sta festeggiando il suo matrimonio.
Hochzeitsstück ("Scena di nozze")
Per la celebrazione risuonano cornette e tamburi; sull'alta rupe risplende il castello. Ma in tanta gioia, lo sposo è stranamente pallido e taciturno. Appare il menestrello col suo flauto. Comincia a far sentire il canto lamentoso del giovane cavaliere assassinato. Il re balza dal trono, afferra lo strumento e lo accosta alle labbra. Dall'osso emerge la terribile storia: la voce di suo fratello lo accusa di averlo assassinato. La regina sviene; i tamburi e le cornette tacciono; gli ospiti fuggono terrorizzati; le antiche mura crollano.
Il titolo
Di solito viene tradotto come Il canto del lamento, ma la migliore traduzione italiana di Das klagende Lied ci sembra essere quella di Quirino Principe, Il canto del lamento e dell'accusa. Il verbo klagen infatti, come segnalano sia Principe che Edward R. Reilly, in tedesco ha due significati diversi: lamentarsi, ma anche accusare, citare in giudizio, e sono entrambi fondamentali per capire il senso della storia. Il termine Lied inoltre, qui non si riferisce al genere musicale, bensì al canto che funge da tema centrale del la vicenda: quello che esce dall'osso del cavaliere ucciso.
Il genere
Das klagende Lied è una Cantata fiabesca in tre parti, dai toni epico-drammatici. Nella forma ricorda le Ballate dell'ultimo Schumann (Der Königsohn, op. 116, oppure Des Sängers Fluch, op. 139), composte per soli, coro e orchestra, in cui si narra una serie di eventi leggendari. È scritta nello stile Durchkomponiert wagneriano, cioè in sviluppo continuo, senza Recitativi, Arie o numeri chiusi. Le voci soliste non equivalgono mai a personaggi, ma hanno un ruolo puramente musicale e narrativo, mentre il coro, come nella tragedia greca, commenta l'azione. L'obiettivo dei solisti non è quello di interpretare dei personaggi, bensì di raccontare una storia. Si tratta di un dramma il cui vero protagonista non è il fratello malvagio, e neppure l'orgogliosa regina, bensì l'osso che canta: l'unico che si esprime in prima persona, attraverso la voce bianca di un bambino. Questa voce non va concepita in senso naturalistico. Il fratello ucciso era un giovane in lotta per la conquista della mano di una regina. La voce del bambino dovrebbe quindi suggerire una sfera metafisica, quella della vita dopo la morte: come una di quelle sculture che possono trovarsi nelle cattedrali romaniche e gotiche, dove l'anima del defunto viene raffigurata da un bambino.
Peripezie di un Schmerzenskind ("Figlio del dolore")
Nel settembre del 1875 Mahler lascia Iglau (oggi Jihlava), in Moravia, dove ha vissuto dai sei mesi in poi, e si iscrive al Conservatorio di Vienna. Studia pianoforte e composizione, ottenendo vari primi premi in entrambe le discipline. Nel luglio 1878 si diploma. Il 18 marzo 1878 termina il libretto di Das klagende Lied, ispirato a racconti e a leggende popolari del romanticismo tedesco, che preannuncia la sua passione futura per Des Knaben Wunderhorn ("II corno magico del fanciullo"). Nonostante alcune ingenuità, il testo ha un'indubbia efficacia ed è molto adatto ad essere musicato. Nel 1879, presumibilmente nel mese di settembre, Mahler inizia a comporre la partitura, ma la necessità di guadagnarsi la vita impartendo lezioni private di pianoforte lo costringe a interrompere di continuo il suo lavoro. Nell'estate del 1880 accetta il suo primo incarico come direttore d'orchestra in un mediocre teatro di provincia, nella stazione termale di Bad Hall, nell'Austria settentrionale. A fine agosto torna a Vienna, completa la partitura di Das klagende Lied con sforzo immane, e il primo Novembre del 1880 può scrivere a un amico: «II mio Märchenspiel ("rappresentazione fiabesca") è finalmente finito, un vero Schmerzenskind ("figlio del dolore"), a cui lavoro già da più di un anno. Ma ne è valsa la pena. Il mio prossimo obiettivo: farlo eseguire a qualunque costo».
L'impresa, però, risulterà ben più ardua di quanto avesse sperato il giovane Mahler. Nel dicembre del 1881, egli presenta la partitura al concorso per il prestigioso "Beethoven Preis" (premio organizzato dalla Società degli Amici della Musica di Vienna), ma Das klagende Lied viene bocciato da un'autorevole giuria composta da direttori d'orchestra, professori del Conservatorio e compositori, tra cui Johannes Brahms. Nel 1883 propone la partitura a Franz Liszt per un'eventuale esecuzione nel suo festival, "Allgemeiner Deutscher Musikverein". Non viene accettata, e Mahler resta profondamente ferito dal rifiuto. Nel 1891 presenta la partitura all'editore B. Schott's Söhne di Mainz, ma anche stavolta viene rifiutata. In previsione di un'eventuale esecuzione, fra il dicembre 1893 e il gennaio 1894 realizza una prima revisione della partitura. Elimina i titoli di ognuna delle tre parti e taglia la prima parte, Waldmärchen. In vista della pubblicazione, nel maggio del 1898, provvede a una seconda revisione della partitura.
Nel 1899, oppure nel 1902, a seconda delle fonti, il lavoro viene finalmente pubblicato dall'editore viennese Josef Weinberger nella versione in due parti. Solo il 17 febbraio 1901, cioè più di vent'anni dopo aver terminato la partitura, Mahler dirige la prima assoluta di Das klagende Lied nella sala d'oro del Musikverein di Vienna, nella versione in due parti. Il 18 maggio 1911 muore senza aver mai ascoltato Waldmärchen.
Nel 1934 (il 28 novembre in lingua ceca e il 2 dicembre nell'originale tedesco), il nipote di Mahler Alfred Rosé, che aveva ereditato (senza farla mai vedere) la partitura manoscritta, dirige in terra morava, per Radio Brno, la prima assoluta di Waldmärchen. L'8 aprile del 1935, per Radio Vienna, Rosé dirige la prima assoluta di Das klagende Lied, completa delle tre parti, ma in una versione mista: Waldmärchen nella versione del 1880, e Der Spielmann e Hochzeitsstück nella versione riveduta del 1898*. In seguito Rosé ritira di nuovo la partitura, rifiutandosi di farla conoscere. Nel 1969, dopo molte esitazioni, spinto da problemi economici, accetta di venderla all'Università di Yale ed è così che il 13 gennaio 1970 può avere luogo la première di Waldmärchen in una sala da concerto, diretta da un tale Frank Brieff, con la New Haven Symphony Chorale and Orchestra. Nello stesso anno Pierre Boulez realizza la prima registrazione discografica della partitura integrale in tre parti. Nel 1973 Jack Diether cura la prima edizione di Waldmärchen per la Belwin-Mills di New York, nel 1997 esce l'edizione critica della partitura originale in tre parti - nella prima versione del 1880 - a cura di Reinhold Kubik. Kent Nagano ne esegue la prima assoluta e la registra per la casa discografica Erato, ed è questa la versione che presenta stasera l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
L'importanza di Das klagende Lied
In questa partitura sono evidenti gli influssi di vari compositori: Weber, Mendelssohn, ma soprattutto il Bruckner delle prime Sinfonie (in particolare la Terza, che Mahler aveva trascritto per pianoforte a quattro mani) e il Wagner dei primi drammi musicali (nel suo primo anno di Conservatorio, nel novembre del 1875, Mahler poté assistere alla rappresentazioni di Tannhäuser e di Lohengrin all'Opera di Vienna, e lo stesso Wagner era presente) e del Götterdämmerung (la cui prima viennese risale al 1879). D'altra parte l'originalità di Mahler, la sua specifica personalità di autore, emergono con chiarezza. Studiando la partitura, Henry-Louis de La Grange sottolinea come Mahler, a soli vent'anni, dimostrasse già un'incredibile padronanza delle risorse sinfoniche e un'eccezionale fantasia per gli impasti strumentali. E aggiunge che un'abilità del genere è difficilmente spiegabile in un giovane appena diplomato al Conservatorio di Vienna, con una sola esperienza pratica come direttore del teatro d'operetta di Bad Hall, nella provincia austriaca. Anche Pierre Boulez si stupisce di scoprire "in un musicista tanto giovane, una tale maestria nel trattare le masse orchestrali e corali. Questo è un dono del cielo: alcuni compositori lo possiedono fin dalle prime opere, pur non avendo ancora avuto alcun contatto con la prassi musicale quotidiana. Mahler, in questa sua opera, ha già una conoscenza ben precisa del timbro e una geniale intuizione della sua 'resa'." Fin d'ora "è possibile constatare la perfezione con cui l'idea musicale viene restituita dal materiale strumentale". In questa partitura, Mahler non solo scopre per la prima volta la sua passione per il paradiso perduto della Germania medioevale, che si sarebbe dimostrata tanto feconda nelle sue future rivisitazioni del variegato mondo del Corno magico del fanciullo, ma dimostra la sua capacità di integrare nel mondo musicale una dimensione romanzesca; i temi ricompaiono con significato drammatico, come personaggi che, sviluppando una trama, la raccontano in musica.
Non solo: qui Mahler introduce per la prima volta la sua tipica contrapposizione tra il registro gioioso e quello sinistro, l'ingenuità popolare e la colta raffinatezza; il meraviglioso si mescola al macabro, il tragico all'ironia.
Affiorano nella composizione anche tutti gli elementi più caratteristici di quello che si sarebbe definito come il tipico stile musicale mahleriano: i concitati ritmi puntati, le alternanze tonali fra maggiore e minore, la costruzione di strutture sinfoniche a partire da motivi molto brevi, spesso con funzione di leitmotiv wagneriano, le continue alterazioni della dinamica degli strumenti per ottenere effetti di contrasto tra luce e ombra, il Naturlaut ("suono della natura"), le fanfare militari, le marce, i corali. E poi ancora il principio del Durchkomponieren ("sviluppo continuo"), contrario a qualsiasi ripetizione, lo sviluppo di una composizione sinfonica a partire dalla canzone, l'articolazione trasparente del contrappunto orchestrale, l'innovativa organizzazione della musica fuori scena che espande considerevolmente il senso dello spazio sonoro, e che crea, in sede di concerto, una specie di teatro immaginario, con veri e propri effetti scenici. Non a caso Mahler, in una lettera del 1896 a un critico musicale scrive: «II primo lavoro in cui mi sono veramente affermato come "Mahler" è una fiaba per coro, solisti e orchestra: Das klagende Lied. Classifico quel lavoro come il mio Opus I»….”
(Articolo completo e dotto di Gastón Fournier-Facio. Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Roma, Auditorium Parco della Musica, 16 aprile 2005, si trova in www.flaminioonline.it)
7 luglio 1860 nasce Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra austriaco (morto nel 1911)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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