Eastern Wonders 4: "Dal Québec alle cascate del Niagara"

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Il quarto dei cinque racconti di Sergio Virginio: Eastern Wonders 4 - Nonostante la lussuosa camera dell’hotel, col letto dal materasso soffice molto alto e largo, quella notte dormii poco. Probabilmente mi ero coricato troppo presto, e avevo stentato a digerire i tagliolini al sugo di salmone che avevo mangiato per cena in un ristorante lì vicino. Ma la partenza alle otto e mezza del mattino mi aveva permesso di recuperare un po’ di sonno.

Il pullman ci lasciò ai margini della città vecchia per seguire la nostra preziosa guida che, per farsi riconoscere, alzava verso l’alto il suo ombrellino rosso. Il sole appariva ogni tanto tra le nuvole grigie e soffiava un venticello dispettoso quando ci addentrammo sul ciottolato delle viuzze, tra palazzotti lapidei, negozietti di souvenir affollati da turisti, e le taverne della rocca. Poi scendemmo presso il fiume a esplorare l’ancora più antica basse ville, alla ricerca di un tavolo libero in un ristorante affollato per mangiare delle penne in bianco con petto di pollo al forno e una birra per tirarmi su.

Quando salii sul pullman il nostro simpatico Jeff si stava ancora abbuffando di patatine o qualcosa del genere. Alle 12.30 partimmo puntuali per ripercorrere fino al bivio per Montreal la stessa autostrada dell’andata. La maggior parte dei componenti del nostro gruppo erano persone dai cinquanta in su. Avevo socializzato con alcuni single italiani e una giovane coppia milanese in viaggio di nozze. I tedeschi erano molto riservati e gli spagnoli stavano per conto loro: un’unione europea difficile da amalgamare.

Dopo una breve sosta di servizio, arrivammo a Montreal verso le sedici, dopo 250 chilometri di autostrada. Ma il pullman restò ancora a nostra disposizione per fare un giro nell’area metropolitana, sotto un sole splendente. La città, coi suoi due milioni e mezzo di abitanti, si estende su un’isola lunga 50 chilometri e larga 17, circondata dalle acque del fiume San Lorenzo nel tratto in cui termina la sua navigabilità naturale.

Percorrendo le vie del centro, si notò subito l’aspetto di una grande metropoli, pulita, ordinata e silenziosa, dal traffico molto scorrevole. Jeff parcheggiò nei pressi di Place du Canada che alcuni di noi raggiungemmo subito a piedi per sederci ai bordi della fontana a chiacchierare, guardando l’imponente facciata della basilica cattolica che avevamo di fronte e l’altissimo grattacielo che dominava la piazza. Poi ci ritrovammo tutti al pullman per raggiungere l’Hotel Lord Berri che ci ospitava.

La sera uscii in compagnia per una pizza tutta italiana in un locale che si trovava poco distante dell’albergo. La pizzeria dava sul piazzale gremito di coppie di tutte le età che facevano scuola di ballo all’aperto. Dopo aver fatto da spettatori, prima di andare a letto, preferimmo passeggiare lungo il boulevard del nostro hotel dove la biblioteca nazionale era in orario di chiusura. Ci accontentammo di visitare un paio di librerie moderne con un vasto assortimento di cose utili e souvenir, oltre a notevoli quantità di libri in lingua francese e inglese.

Montréal era il simbolo di una travagliata incertezza fra le origini francesi e l’appartenenza per quasi più di un secolo e mezzo all’impero britannico, anni in cui avvenne lo sviluppo di una solida imprenditorialità.
L’indomani partimmo in bus coi bagagli al seguito, dedicando qualche ora alla visita guidata della città. Attraversando il ponte del fiume San Lorenzo, la vista di uno scorcio panoramico del nucleo centrale della metropoli con sullo sfondo un cielo terso, faceva presagire una bella giornata. Dalla Riverside il pullman s’inoltrò nel Park Olympique passando nei pressi dello stadio olimpico coronato dall’altissima torre inclinata e del vicino Biosphère, già padiglione statunitense dell’Expo, che accoglieva entro la struttura sferica a maglie d’acciaio esposizioni sui temi ecologici. Dopo aver proseguito lentamente, Jeff si fermò sulla linea di partenza della pista automobilistica di Formula 1 dove c’era scritto “Salut Gilles”. Quel circuito era stato intitolato a Gilles Villeneuve, il famoso pilota della Ferrari idolo dei tifosi canadesi e italiani, tragicamente scomparso. Jeff proseguì lentamente lungo tutto il percorso, facendoci provare l’emozione di passare tra chicane, cordoli e box. Poi proseguì la corsa per raggiungere i 233 metri di Mont Royal, che ispirò il nome della città, per ammirare dall’alto il suo affascinante panorama che metteva in mostra il pluralismo architettonico dove i moderni grattacieli si sposavano con i palazzi d’epoca, e col verde di alberi e giardini sparsi qua e là. Quella visita guidata terminò nella ville souterraine, dove cinque vaste aree residenziali e degli affari formano un’autentica città sotterranea perfettamente autosufficiente: la più grande al mondo. Quando d’inverno fuori si gela, basta scendere di un piano e si entra in una città supertecnologica, in cui circolano solo pedoni e una metropolitana silenziosa, grazie ai treni con le ruote di gomma.

Erano le undici quando partimmo col nostro bus. Jeff prese l’autostrada a tre corsie per percorrere i 200 chilometri che ci separavano da Ottawa, la capitale del Canada. Dopo qualche chilometro fra centri commerciali, capannoni industriali e attività varie, cominciarono a sfilare coltivazioni agricole, prati verdi e gialli, per poi trovarci di nuovo in mezzo a interminabili boschi colorati. A circa metà strada apparve il cartello che indicava la vasta provincia dell’Ontario.

Simona iniziò a parlare della capitale della confederazione canadese, svelando che era stata scelta perché sorgeva al confine tra le due aree linguistiche. A preferirla ad altre candidate di maggior peso economico e strategico come Montreal e Toronto, fu l’allora regina Vittoria.
Britannica nell’Ottocento e americana nel Novecento, riassumeva bene luci e ombre dello stereotipo canadese. Ma la soluzione adottata dalla regina per non scontentare i francocanadesi lasciò aperta la contraddizione storica dell’identità nazionale. Il ruolo di Ottawa di mantenere unita la confederazione, era stato assimilato al paziente lavoro di un ragno che tesse la tela. L’enorme ragno in bronzo che incontrammo sul piazzale antistante la National Gallery, all’inizio della città, aveva questa chiave di lettura.
Sull’altro lato della strada c’era la cattedrale cattolica Notre Dame dalla facciata neogotica, racchiusa tra due campanili dalla guglia in acciaio inossidabile. Con l’interno in legno, preziose vetrate policrome e il soffitto tempestato di stelle, era la chiesa più antica della capitale.

Poi all’ora di pranzo, dopo le indicazioni avute dalla guida, Jeff ci lasciò vicino al Bywuard Market, lo storico centro commerciale di Ottawa. Nell’edificio centrale, contornato da botteghe, banchi di fiori e di generi alimentari, fra le varie proposte di cucina internazionale, preferii dedicarmi alle invitanti pietanze della cucina giapponese: riso con pollo, pesce e verdure. Nei paraggi del mercato c’era “La bottega”, un negozio di alimentari dove un ragazzo siciliano mi preparò la cena che misi nello zaino: un panino imbottito di mortadella con acciughe, pomodoro e insalata.

Nel pomeriggio, dalla Wellington Street c’incamminammo sulla collina del Parlamento federale. Davanti alla gradinata si stava svolgendo una pacifica manifestazione popolare curda: uomini e donne in costume tradizionale ballavano musiche tradizionali, sventolando bandiere curde e mostrando cartelli che chiedevano il rispetto delle minoranze etniche.
I palazzi in arenaria ricoperti dai tetti appuntiti rivestiti in rame, davano l’impressione di essere più importanti per le loro funzioni politiche che per i valori architettonici. Per ricordare i caduti della prima guerra mondiale, era stata aggiunta la Peace Tower, alta 92 metri. La parte più spettacolare del complesso si trovava sul retro: la Library a pianta circolare che s’affacciava all’Ottawa River. Bella anche la veduta dell’imponente castello Laurier, situato al di là del Rideau Canal.

Poi la visita proseguì dall’altra parte del fiume con la fermata al Musée Canadien de la Civilisations, uno dei 22 musei della città. Ma, a quell’ora, il museo stava per chiudere e mi rimase solo il tempo di passare in rassegna i totem poles e altre opere di popolazioni indiane.
Dotati di un’organizzazione tribale, ma con precise distinzioni etniche al loro interno, gli indiani del Nord America avevano uno stretto rapporto col territorio. Quando sbarcarono gli esploratori francesi e britannici, una buona parte degli indiani erano nomadi, ma c’erano anche tribù che si erano insediate stabilmente. La loro economia era basata sulla caccia, la pesca e l’agricoltura. Ma il rapporto inizialmente pacifico instaurato con gli indiani, degenerò col tempo in una sistematica espropriazione dei diritti sulle terre dei nativi, fino a diventare modeste riserve dove abitavano circa settecentomila indiani. Nel corso degli ultimi cinquant’anni la legislazione canadese aveva adottato provvedimenti tesi a migliorare le condizioni di vita delle comunità indiane e a tutelarne l’autonomia.

Ottawa non era una città molto grande, contava poco più di un milione di residenti. I suoi abitanti dedicavano molto tempo libero a sport e cultura. Avevano spazio per vivere e verde per respirare, un convinto senso civico e una composta vivacità. Dall’inconfondibile very english style, la capitale green metteva in mostra estese superfici di parchi verdi attraversate dalle acque del fiume e di canali che si specchiavano nell’azzurro del cielo.
Quel giorno ebbi l’impressione di trovarmi in una delle città più belle che avevo visto sinora, durante quel viaggio. Quartieri tranquilli ed eleganti, con piste ciclabili e un nucleo di grattacieli alquanto ridotto, minimo indispensabile per non sfigurare di fronte ai giganti delle vicine metropoli.

Venerdì partimmo alle otto per raggiungere Rockport, da dove partì un battello che ci portò a vedere le “mille isole”, che in realtà erano 1768, sparse lungo i primi 80 chilometri sul fiume San Lorenzo. Gli indiani le chiamavano Minitouana che significava Giardino del Grande Spirito.
Ritornammo a riva dopo un’ora di navigazione in mezzo a una ressa di turisti asiatici con la digitale in mano pronti a immortalare tutti gli isolotti, scogli e qualche suggestivo castello.

Dopo una pausa pranzo all’autogrill dell’autostrada, arrivammo a Toronto verso le tre del pomeriggio. Quel giorno avevamo percorso 450 chilometri. Quando scesi dal bus al parcheggio nei pressi della CN Tower, il sole scottava. Prima di salire con l’ascensore sulla torre di 533 metri, seconda al mondo, mi coprii il capo col berretto.
Feci quel volo verticale piacevolissimo in un istante. La piattaforma di osservazione, situata a 360 metri, era protetta dal vetro. Dall’alto fu possibile constatare la vastità della più grande metropoli del Canada, che contava circa 4.700.000 abitanti, delimitata a sud-est dall’esteso lago Ontario, simile a un mare calmo. Verso l’entroterra, l’esteso brulicare dei quartieri d’abitazione inframmezzati dal verde, sembrava gravitare attorno al grappolo di grattacieli che svettavano numerosi fin sulla riva del lago. Più in alto c’era un ristorante rotante e, più in alto ancora, panorami vertiginosi come dall’aereo. Ma il tempo a disposizione stava per scadere e preferii riprendere l’ascensore per scendere.
Il nostro albergo di turno, il Sheraton Centre, era un grattacielo centrale e contava una quarantina di piani. La sera uscii per unirmi al gruppetto che si recava a cena al ristorante buffet nella modernissima galleria progettata dall’architetto Santiago Calatrava. Poi ci fermammo ai bordi della pista di pattinaggio a fotografare i suggestivi grattacieli illuminati con sotto la scritta colorata “I am Toronto”.

Anche sabato mattina, quando aprii la tenda della finestra del settimo piano dello Sheraton, il cielo era sereno. Dopo un’abbondante colazione buffet, il nostro pullman partì alle otto. Poi si fermò nella tranquilla zona del Queen’s Park dove sorgeva il palazzo in stile neoromanico del Parlamento dell’Ontario, per poi proseguire sulla larga arteria battuta da automobili fino alla città universitaria.
Così seppi dalle spiegazioni della guida che quell’istituzione, per il suo carattere laico, era stata a lungo osteggiata dagli atenei confessionali cittadini. L’enorme palazzo eclettico della sede universitaria, preceduto da un enorme prato verde, si discostava leggermente da alcuni grattacieli residenziali.

Verso le nove lasciammo la grande metropoli per percorrere l’arteria autostradale affiancata da zone commerciali e industriali fino a raggiungere una delle principali zone vinicole canadesi. Grazie al microclima del lago abbastanza mite e al suolo ricco di minerali, fino allo sbocco del fiume Niagara, si producevano ottimi vini.

Quando arrivammo a Niagara Falls, Jeff fermò il pullman un po’ prima di un locale della catena Hard Rock Café avente per insegna per insegna una grandissima chitarra. Mentre mi preparavo a scendere, provai una certa emozione. Stavo per vedere coi miei occhi le cascate più famose del mondo. Col berretto in testa per ripararmi dal sole cocente e lo zainetto in spalla, seguii la guida sul viale di un giardino fiorito. Dopo aver attraversato la strada che costeggiava il fiume, mi trovai subito di fronte alle American Falls, la cascata del versante statunitense. Una caduta di 34 metri e larga 320. Confesso che, dal ricordo che serbavo delle cascate argentine di Iguazù, provai una certa delusione. Ma poi, proseguendo a costeggiare il fiume, dovetti ricredermi quando spuntarono sulla destra le Horseshoe Falls, le spettacolari cascate del versante canadese a forma di semicerchio. Ma lo spettacolo più emozionante arrivò quando, riparato da un impermeabile rosso trasparente con su scritto Niagara Cruises, raggiunsi le due cascate a bordo di un battello, lasciandomi sfiorare dai bianchissimi spruzzi d’acqua che si alzavano e poi mi ricadevano addosso, bagnandomi un po’.

A mezzogiorno ci ritrovammo al pullman per raggiungere la Skylon Tower, una specie di fungo in cemento armato, alto 156 metri. Salimmo fino al ristorante rotante dov’era stato prenotato il pranzo con la suggestiva vista delle cascate. Nel pomeriggio non poteva mancare un giro nei negozi a caccia di souvenir, con una pausa per gustare finalmente un discreto caffè espresso.
Dopo una lenta corsa del pullman sul lungo ponte del fiume Niagara, ci fecero scendere tutti per passare la frontiera americana col passaporto in mano. Così venne il momento di salutare il Canada che avevamo percorso per circa mille chilometri da Québec a Niagara.

 


Il tour organizzato Eastern Wonders è un giro di 3.077 chilometri che mette in mostra il meglio del paesaggio naturale di quelle terre, e di città molto belle con caratteristiche diverse che fanno entrare nel vivo dei cinque secoli di storia del nuovo continente. Dalla bellissima costa atlantica si va verso il Nord, attraversando gli stati americani del Connecticut, Massachusetts e Vermont per raggiungere il Canada del Québec. Poi si scende costeggiando il fiume San Lorenzo e si attraversa il territorio dell’Ontario dell’omonimo lago e delle famose cascate del Niagara. Il ritorno avviene attraversando lo stato di New York e il verde bucolico della Pensilvania per poi entrare nel Maryland, dove c’è la pausa di due giornate nella verde e ricca capitale statunitense. Infine, durante l’ultima tappa, una visita alla città da dove si erano mossi i primi passi verso l’indipendenza americana. Storie di esploratori inglesi e francesi che invadevano le terre dei nativi indiani, e di coloni inglesi che combattevano per l’indipendenza americana. Storie di pensatori progressisti che realizzavano i loro ideali, e di una sanguinosa guerra civile per eliminare la schiavitù. Un lungo viaggio di quasi due settimane piene di sole. Un viaggio impegnativo ma molto rilassante, in mezzo a territori ondulati rivestiti da foreste interminabili, che all’inizio dell’autunno offrono una piacevole varietà di colori.

Il viaggio:
L’avventura americana iniziò coi voli da Venezia a Monaco di Baviera e poi fino a New Work, dove mi fermai per due giorni a Manhattan, nel cuore della metropoli americana, partecipando a una visita guidata. Da lì iniziò l’Eastern Wonders, il tour in pullman con la prima tappa a Boston, la città americana più antica dalle origini anglosassoni. Il viaggio proseguì durante il giorno successivo fino a Québec, di marca francese, dopo aver varcato i confini del Canada. Poi raggiunsi Montreal, una grande e moderna metropoli, pulita, ordinata e silenziosa, dal traffico molto scorrevole. L’indomani arrivai a Ottawa, dall’inconfondibile very english style, dove la capitale green metteva in mostra estese superfici di parchi verdi attraversate dalle acque del fiume e di canali che si specchiavano nell’azzurro del cielo. Poi fu la volta di Toronto, dove salii sulla torre seconda al mondo per ammirare l’esteso brulicare delle case inframmezzate dal verde, che sembravano gravitare attorno al grappolo dei numerosi grattacieli raggruppati fin sulla riva del lago. Poi arrivò il giorno più rilassante con il pranzo nell’altissimo ristorante della Skylon Tower e la suggestiva vista delle famose cascate del Niagara. Nel ritorno, per approfondire la storia americana, mi fermai due giorni a Washington a visitare monumenti e musei, e in quel di Philadephia, che vantava il primato storico di opposizione politica coloniale inglese. Infine, prima del volo intercontinentale, ancora un giorno nella città della Grande Mela.
Un incantevole scenario di bellezze naturali e di grattacieli. Una storia che fa riflettere!"

EASTERN WONDERS

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INFORMAZIONI

Sergio Virginio
web iviaggidisergio.wordpress.com