Eastern Wonders 5: "Sulle orme della storia americana"

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L'ultimo dei cinque racconti di Sergio Virginio: Eastern Wonders 5 - Col primo sole del mattino di domenica 24 settembre partimmo dall’Hotel Doubletree di Buffalo, una cittadina poco distante dal confine canadese. Quel giorno dovevamo percorrere 659 chilometri: il trasferimento più lungo del tour.

Dopo un tratto autostradale, la Route 36 era tutta un saliscendi, in mezzo a paesi e zone di campagna, con ai lati della strada le tipiche villette di legno dai colori tenui e col tetto scosceso.

Tutto in giro c’era molta vegetazione e, tra le varie coltivazioni, prevaleva il mais. Di tanto in tanto si vedeva scorrere anche una ferrovia senza filo a semplice binario. Più tardi, dopo la fermata di servizio, procedemmo lungo la linea di confine degli stati di New York e della Pennsylvania. Ad un certo punto, quando la strada diventò autostrada col limite dei 65 miglia orari, entrammo in mezzo a una fitta foresta che non finiva mai. Poi, a ora di pranzo, ci fermammo a mangiare in un centro commerciale. Di fuori faceva caldo, il termometro Fahrenheit segnava valori corrispondenti ai nostri 32 gradi. All’interno di un grande supermercato c’era un ristorante buffet dove mangiai del riso, pesce al forno e insalata verde. Prima di ripartire feci la foto a una coppia di camion americani dalla tinta metallizzata e dal muso lungo, che luccicavano parcheggiati al sole.

Nel cuore della verde Pennsylvania, mentre Simona parlava al microfono, Jeff deviò sulla strada che attraversava la Contea di Lancaster, dove viveva una delle più grandi comunità religiose Amish degli Stati Uniti. Con le sue tradizioni e la sua storia, quella comunità religiosa coltivava ancora la terra manualmente e abitava in semplici case di legno, senza ricorrere all’uso della luce elettrica e alle nuove tecnologie dell’epoca moderna.

Poi la guida, prima di arrivare nella capitale statunitense, volle illustrarci alcune fasi importanti della storia di quel Paese. Iniziò dalla metà del Settecento, da quando le tredici colonie fondate dagli inglesi erano guidate da un governatore scelto dal re d’Inghilterra. Il successivo scontro di interessi che era scoppiato tra coloni e Madrepatria, sfociò nello scontro armato da cui nacque la dichiarazione d’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti d’America, ratificata dalla convenzione del 1776. Ma l’indipendenza venne riconosciuta solo dopo cinque anni con la definitiva sconfitta inglese, grazie all’aiuto dell’esercito francese. Qualche anno dopo, George Washington diventò il primo presidente.
Negli anni successivi si manifestarono insanabili divergenze di interessi tra gli stati agricoli del Sud e quelli più industriali del Nord. Uno dei principali motivi del disaccordo era il mantenimento della schiavitù, che nel Sud era molto diffusa. Nel 1861, a seguito dell’elezione del primo presidente repubblicano Abramo Lincoln, favorevole a una graduale abolizione della schiavitù, scoppiò la guerra di secessione con l’attacco dei sudisti a Fort Sumter. La guerra civile cessò solo dopo quattro anni di sanguinosi scontri armati, con la sconfitta degli stati del Sud. La vittoria dei nordisti e la scomparsa della schiavitù avevano posto le premesse di una rifondazione della nazione americana sulla base della supremazia industriale del Nord e del rafforzamento del governo federale.

Verso le 17, il sole splendeva ancora quando entrammo nello stato del Maryland. Dopo circa un’ora ci trovammo sulla Connecticut Ave, un larghissimo viale alberato dal traffico scorrevole che portava all’Hilton di Washington e proseguiva fino alla Casa Bianca. La sera uscii in compagnia a fare una passeggiata fra le luci dei lampioni, passando in rassegna locali e ristoranti affollati anche all’aperto. Ci fermammo un’ora nei tavoli all’aperto del Darlington House a scambiarci le prime impressioni della giornata, sorseggiando una birra artigianale locale, e a goderci in santa pace la prima serata nella tranquilla capitale americana.

Se penso alla città di Washington, la prima immagine che si presenta davanti ai miei occhi è la lunga discesa erbosa del National Mall, delimitato alle due estremità dal tempio neoclassico dedicato a Lincoln e dal candido Campidoglio col tetto a cupola che si erge sulla sommità della collina prima dello specchio d’acqua della Reflectig Pool, con la vista più lontana dell’obelisco di 170 metri. E’ qui che arrivammo l’indomani mattina, dopo aver attraversato il Potomac River sconfinando nel vicino stato della Virginia, dove si trova la verde distesa del cimitero di Arlington, e dove raccolsi una ghianda nei pressi della tomba di John Fitzgerald Kennedy. Durante quella mattinata avevamo fatto delle foto anche davanti alla famosa Casa Bianca, la residenza ufficiale e il principale ufficio del presidente degli Stati Uniti.

Erano già le due del pomeriggio quando il pullman iniziò a percorrere il National Mall, il grande viale diritto in mezzo al verde, dove si trovavano allineati i musei più importanti. Jeff si accostò al marciapiede della gradinata d’ingresso del museo nazionale dello spazio, per far scendere coloro che erano interessati alla visita dei musei. Nella capitale, l’ingresso ai musei era gratuito, un ulteriore stimolo per approfittare del pomeriggio libero ed inoltrarmi nel mondo della cultura americana assieme ad Anna, una compagna di viaggio che, grazie alla conoscenza del suo inglese, in quella circostanza mi fece da guida. Dopo aver consumato un panino sulla panchina del museo, passammo in rassegna i due piani dell’esposizione dove la gente si accalcava per vedere il famoso velivolo dei fratelli Wright, le linee raffinate del rosso aeroplano di Amelia Earhart e il modulo lunare dell’Apollo.

Dopo aver scattato molte foto, uscimmo sulla gradinata per prendere una stradina laterale che portava al museo degli indiani d’America. E’ ormai noto che l’appellativo di “indiani” si deve all’erronea supposizione dei primi esploratori europei di essere arrivati nelle famose Indie, invece che in un nuovo continente. L’edificio in arenaria color miele dalle linee curve, era decisamente di grande impatto architettonico e somigliava molto al museo che avevo visto nella capitale canadese.
All’interno, nelle gallerie dei suoi quattro piani, erano esposti manufatti di rilievo culturale, costumi delle diverse tribù, capanne, ponti di corda, video e registrazioni audio relativi alla storia delle popolazioni native delle Americhe. Durante la rassegna, mi soffermai di più sulle esposizioni dell’epoca Incas, che avevo avuto modo di approfondire le conoscenze in occasione del mio viaggio peruviano.

Infine la visita al National Gallery of Art, l’edificio bianco in stile neoclassico che ospitava una straordinaria collezione di quadri dal Medioevo fino ai nostri giorni. Siccome mancava poco più di un’ora alla chiusura della pinacoteca, ci limitammo a passare in rassegna le pitture più interessanti: opere d’arte francesi, italiane e americane, tra cui Monet e Leonardo, oltre a una serie d’opere di artisti impressionisti.

Poi, con l’aiuto della guida cartacea e dell’inglese, raggiungemmo la stazione della metropolitana per scendere sulla Connecticut Ave, dove c’era un ristorante spagnolo. Passando di lì la sera precedente ero stato attirato dalla paella valenciana che appariva sul menù esposto. Dopo una lunga attesa, nonostante il locale fosse semideserto, ci arrivarono due piatti di riso rosso condito con la paprika anziché lo zafferano, e con pezzetti di carne che non era né pollo, né coniglio, senza molluschi, crostacei e verdure. Dulcis in fundo, il conto ci sembrò salato. Avevo letto sulla guida locale che purtroppo i prezzi nella capitale erano aumentati quando iniziarono ad arrivare i visitatori newyorkesi, portando con loro anche l’alto costo della vita della Grande Mela.

Martedì 26 settembre partimmo dal Washington Hilton alle 7.30 in punto. Simona, dandoci il buongiorno al microfono, si complimentò coi partecipanti per la puntualità. Un gruppo europeo in cui, durante quelle giornate di viaggio in comune, si era diffusa la puntualità tedesca.
Lasciammo la capitale statunitense per percorrere i 379 chilometri che ci dividevano da New York, dirigendoci verso nord sull’autostrada a dossi che scorreva fra i boschi colorati dell’autunno.
Dopo alcuni chilometri, si vedevano le sagome scure dei grattacieli di Baltimore, prima di prendere l’autostrada 40 in direzione di Philadelphia. Dopo la sosta in un’area di servizio, lasciamo lo stato del Maryland per ritornare nella verde Pennsylvania coi suoi scenari bucolici, intervallati da sporadici centri abitati con zone commerciali, industriali e linee ferroviarie elettrificate.

Erano da poco passate le undici quando Jeff si fermò nei pressi del Philadelphia Museum of Art, il museo che ospitava oltre duecentomila opere di epoche diverse provenienti da ogni parte del mondo. Dopo aver percorso la grande gradinata che portava sul vasto piazzale d’ingresso, fotografai lo splendido edificio in stile neoclassico illuminato dal sole e, in controluce, le silhouette dei pochi grattacieli che si stagliavano contro il cielo. Verso mezzogiorno arrivammo in centro a Philadelphia, principale città della Pennsylvania, dove si erano mossi i primi passi verso l’indipendenza americana. Nel periodo dell’impero britannico fu una delle città più grandi, poi, insieme a Boston, divenne un centro di opposizione politica coloniale inglese. Percorrendo la Market St, la lunga via diritta che taglia a metà la città, arrivammo sulla Indipendence Hall, la piazza dove nacque il primo governo americano.

A pochi passi si trovava il Liberty Bell Center, dov’era esposta “la campana della libertà”. Quella campana, forgiata in occasione del cinquantenario di fondazione della Pennsylvania, suonò in occasione della dichiarazione d’indipendenza, diventando l’icona di quella città. Dopo la visita della campana, esposta in una struttura dalle pareti in vetro, andai a sedermi sopra una panchina del parco per dividere il mio pranzo al sacco con scoiattoli e passerotti.
Verso le 16 arrivammo all’Hotel Doubletree, punto di partenza e arrivo del tour dell’Est americano, dopo circa un’ora di corsa a passo d’uomo nell’ingorgo del traffico di Manhattan.

All’arrivo dell’Eastern Wonders, avevamo percorso complessivamente, 3081 chilometri di strade asfaltate. Un lungo viaggio sulle autostrade americane e canadesi, organizzato alla perfezione con un pullman confortevole pilotato da un bravo e simpatico Jeff di colore, guidati da un’eccellente Simona, un’italiana poliglotta, esperta di storia americana. Alberghi confortevoli che avevano contribuito al riposo durante i pernottamenti, con prime colazioni abbondanti che avevano sopperito spesso alle differenze della cucina americana. Un viaggio culturale, adatto alle persone come me, che amano vedere le bellezze del mondo coi propri occhi e scavare sempre di più nella storia dei popoli con la speranza che vengano superati gli errori del passato, per guardare a quel futuro che sarà dei nostri figli e nipoti, di un mondo cosmopolita e sinergico: quel mondo unito che il cantante compositore John Lennon sognava.

L’ultima sera a New York non poteva che trascorrere con una passeggiata lungo la Lexington Ave, tra vetrine scintillanti, luci di grattacieli che si disperdevano verso l’alto e automobili con sirene spiegate e lampeggianti che passavano ogni cinque minuti. Avendo già superato il budget a disposizione per le spese varie, anziché chiudere in bellezza con una cenetta in un localino che non c’era, mi accontentai di un sandwich bello spesso e di una verdura mista. Il tutto accompagnato rigorosamente con acqua minerale, poiché negli Stati Uniti non tutti i locali possiedono la licenza per gli alcolici.

Mercoledì 27 settembre 2017 era il giorno della partenza per l’Europa. Mi svegliai con la luce del sole che entrava prepotentemente fra le fessure del tendone e i rumori del traffico che salivano fino all’ottavo piano, nonostante i doppi vetri e le pareti insonorizzate. Guardando verso l’alto, riuscii a vedere un fazzoletto di cielo azzurro, e capii che il sole mi avrebbe fatto compagnia anche durante l’ultimo giorno di avventura americana.

Dopo aver riordinato la mia valigia appesantita dai souvenir, che conteneva inutilmente anche indumenti invernali, scesi nel ristorante dell’hotel per la prima colazione. Poi, senza nessuna fretta, lasciai la camera e consegnai la valigia al deposito dei facchini. L’appuntamento con l’autista incaricato dall’agenzia di accompagnarmi all’aeroporto di Newark, era stato fissato alle cinque del pomeriggio. Alle undici uscii dall’hotel con zainetto in spalla e berretto in testa per ripararmi dal sole, incamminandomi sulla Lexington Ave. Ad un certo punto svoltai a destra per raggiungere, subito dopo la stazione ferroviaria di Grand Central Terminal, un grandioso edificio in stile Belle Arti, con passerelle in vetro e un soffitto a volta, decorato con una mappa stellare. Scesi al piano inferiore dove c’erano diversi ristoranti, fermandomi al bar per un caffè espresso. Scendendo ancora nel sotterraneo c’erano le partenze dei treni.

A pochi passi dalla stazione, fiancheggiata da due giganteschi leoni in marmo, c’era l’edificio d’epoca che ospitava la principale biblioteca pubblica dell’intera rete di biblioteche cittadine. La The New York Public Library testimoniava in modo concreto il valore che quella città attribuiva alla cultura e allo studio. Salii fino al terzo piano per entrare in una magnifica sala di lettura con soffitto affrescato, dove giovani studenti e altre persone lavoravano al computer.

Quando ripresi la strada del ritorno, notai che sul largo marciapiede c’era una pedana di legno con sopra delle poltroncine; una di queste era occupata da un signore, mentre un uomo di colore gli stava lucidando le scarpe. Prima di arrivare all’albergo dove avevo lasciato la valigia, mi fermai a mangiare qualcosa in una specie di McDonald’s.

L’autista arrivò puntuale. Dopo aver caricato sull’automezzo la mia pesante valigia, c’inoltrammo nell’ingorgo del rumoroso traffico di Manhattan. Quando arrivammo all’ingresso del terminal del mio volo con la Swiss Air, volsi lo sguardo verso il sole che mi aveva accompagnato durante tutte le giornate del mio grande viaggio americano. Come nel giorno del mio arrivo, il sole volgeva al tramonto. Era posizionato sempre là, davanti all’ingresso dell’aeroporto e stava per scomparire infuocando lentamente il cielo verso l’orizzonte.

 


Il tour organizzato Eastern Wonders è un giro di 3.077 chilometri che mette in mostra il meglio del paesaggio naturale di quelle terre, e di città molto belle con caratteristiche diverse che fanno entrare nel vivo dei cinque secoli di storia del nuovo continente. Dalla bellissima costa atlantica si va verso il Nord, attraversando gli stati americani del Connecticut, Massachusetts e Vermont per raggiungere il Canada del Québec. Poi si scende costeggiando il fiume San Lorenzo e si attraversa il territorio dell’Ontario dell’omonimo lago e delle famose cascate del Niagara. Il ritorno avviene attraversando lo stato di New York e il verde bucolico della Pensilvania per poi entrare nel Maryland, dove c’è la pausa di due giornate nella verde e ricca capitale statunitense. Infine, durante l’ultima tappa, una visita alla città da dove si erano mossi i primi passi verso l’indipendenza americana. Storie di esploratori inglesi e francesi che invadevano le terre dei nativi indiani, e di coloni inglesi che combattevano per l’indipendenza americana. Storie di pensatori progressisti che realizzavano i loro ideali, e di una sanguinosa guerra civile per eliminare la schiavitù. Un lungo viaggio di quasi due settimane piene di sole. Un viaggio impegnativo ma molto rilassante, in mezzo a territori ondulati rivestiti da foreste interminabili, che all’inizio dell’autunno offrono una piacevole varietà di colori.

Il viaggio:
L’avventura americana iniziò coi voli da Venezia a Monaco di Baviera e poi fino a New Work, dove mi fermai per due giorni a Manhattan, nel cuore della metropoli americana, partecipando a una visita guidata. Da lì iniziò l’Eastern Wonders, il tour in pullman con la prima tappa a Boston, la città americana più antica dalle origini anglosassoni. Il viaggio proseguì durante il giorno successivo fino a Québec, di marca francese, dopo aver varcato i confini del Canada. Poi raggiunsi Montreal, una grande e moderna metropoli, pulita, ordinata e silenziosa, dal traffico molto scorrevole. L’indomani arrivai a Ottawa, dall’inconfondibile very english style, dove la capitale green metteva in mostra estese superfici di parchi verdi attraversate dalle acque del fiume e di canali che si specchiavano nell’azzurro del cielo. Poi fu la volta di Toronto, dove salii sulla torre seconda al mondo per ammirare l’esteso brulicare delle case inframmezzate dal verde, che sembravano gravitare attorno al grappolo dei numerosi grattacieli raggruppati fin sulla riva del lago. Poi arrivò il giorno più rilassante con il pranzo nell’altissimo ristorante della Skylon Tower e la suggestiva vista delle famose cascate del Niagara. Nel ritorno, per approfondire la storia americana, mi fermai due giorni a Washington a visitare monumenti e musei, e in quel di Philadephia, che vantava il primato storico di opposizione politica coloniale inglese. Infine, prima del volo intercontinentale, ancora un giorno nella città della Grande Mela.
Un incantevole scenario di bellezze naturali e di grattacieli. Una storia che fa riflettere!"

EASTERN WONDERS

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INFORMAZIONI

Sergio Virginio
web iviaggidisergio.wordpress.com