Le oasi del deserto

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Da Mahdia a Tunisi - A Mahdia, località situata sulla costa meridionale della Tunisia, c’ero arrivato nella primavera del 1995. Era la prima volta che mettevo piede nel continente africano. Eravamo a circa cinquanta chilometri dall’aeroporto di Monastir. Si trattava di un soggiorno settimanale durante le mie prime esperienze lavorative nel mondo del turismo. Facevo l’accompagnatore di una quarantina di persone.

Il nostro albergo, l’Hotel Thapsus, era situato sul lungomare prima di raggiungere la cittadina. Era l’unica grande struttura alberghiera di quel litorale sabbioso. Per raggiungerlo dalla strada principale, bisognava percorrere una strada dissestata in mezzo a dune di sabbia e verdi distese di cactus. L’albergo, dal candido stile arabo, si affacciava verso l’azzurro del mare. Era disposto a ferro di cavallo, con in mezzo una grande piscina. Nonostante le acque ancora fredde non permettessero la balneazione, i giorni trascorsi furono all’insegna di un completo relax. All’interno c’era un’altra piscina, un solarium, bagni turchi e idromassaggi.

Durante quel soggiorno, sulla spiaggia dell’albergo si vedevano transitare delle persone in groppa all’asino o al cammello. Un giorno era passato un intero gregge di pecore, preceduto e seguito da pastori. La parte vecchia di Mahdia era completamente araba. Anche alcune casette di nuova costruzione rispecchiavano quello stile, in sintonia con l’ambiente.

Era la Tunisia degli anni Novanta. Ma Tunisi, la capitale che avevamo visitato durante un’escursione giornaliera, si presentava con una doppia veste: la città moderna e la medina. La prima, attraversata da lunghi viali, offriva nuovi negozi, grandi alberghi e lussuosi edifici; la seconda, chiusa dalle antiche mura delle fortificazioni, permetteva al turista d’incamminarsi nelle strette e labirintiche viuzze alla scoperta di piccole botteghe. Anche l’abbigliamento dei passanti si differenziava tra il tradizionale e il moderno.

Nei pressi della capitale, transitando sulla strada in riva al mare, Sidi Bou Said era appollaiata sopra un promontorio: un grumo di case imbiancate a calce, con porte, inferriate e minareti azzurri.

Con la visita dei resti della vicina Cartagine, ci siamo immersi in antiche storie come “La rivolta dei mercenari” e “La terza guerra punica”, quando la città fu distrutta dall’esercito dell’impero romano.

Poi, sulla via del ritorno verso Mahdia, abbiamo visto i nuovi insediamenti industriali del settore tessile con le acque tinte di rosso, giallo, blu e verde che scorrevano sul terreno dove sorgevano le fabbriche e raggiungevano la campagna, bagnando palme e uliveti. Eravamo nei primi anni del dislocamento delle industrie tessili europee. La mano d’opera tunisina costava pochissimo e non esistevano vincoli ambientali.

Marocco, Grande AtlanteOltre l’Atlante

Io e mia moglie eravamo arrivati a Marrakech, una città del Sud del Marocco, con un volo charter partito dall’aeroporto di Bologna in un pomeriggio dell’ultimo lunedì di settembre del 1998. La città era punto di partenza d’interessanti escursioni nell’Alto Atlante e nelle zone desertiche del Sud. Era la scelta ideale degli appassionati dell’esotismo, dei romantici irriducibili, meta di un turismo anticonformista. Marrakech era la più famosa fra le città imperiali, adagiata ai piedi della catena montuosa dell’Atlante, tra il verde di palmeti e giardini traboccanti di fiori. I suoi palazzi, le moschee e i minareti evocavano atmosfere d’altri tempi.

Abbiamo trascorso il primo pernottamento al Safir Siaha, una lussuosa e moderna struttura alberghiera in stile arabo con un’invitante piscina all’aperto circondata dalle palme. Così io e Nives, prima della cena, ci siamo rigenerati dalla fatica del viaggio con una salubre nuotatina. Verso le cinque del mattino, ero stato svegliato da una voce strana che proveniva da fuori. Mi sono affacciato al terrazzo: era il richiamo cantilenante del muezzin che, dall’alto del minareto, invitava i fedeli a recitare le cinque preghiere giornaliere canoniche della religione islamica. Fuori, il clima era gradevole. Faceva ancora buio, mentre la città si stava svegliando. Le luci brillavano fioche, ma sempre più numerose, in un’atmosfera mistica e affascinante. A oriente, un’aurora infuocata iniziava lentamente a cedere il passo alla prima luce del giorno.

Quando sono partito in bus col gruppo, il sole era già alto. Sulle strade del centro, il caos era indescrivibile: tante piccole automobili procedevano lentamente e suonavano di contino il clacson in mezzo alla strada invasa dai pedoni, molti dei quali turisti. Alcuni marocchini in bicicletta, che indossavano ampie tuniche di seta, suonavano continuamente il campanello. C’erano dappertutto venditori ambulanti che offrivano ai passanti cianfrusaglie e souvenir, gridando frasi arabe incomprensibili.

Strada facendo, la nostra guida Said ci dava spiegazioni sul patrimonio storico, umano e artistico di questo paese che aveva saputo mantenersi intatto nel tempo. Ci aveva dato anche delle utili informazioni sulle opportunità d’acquisto di alcuni prodotti artigianali locali. Stavamo procedendo la corsa attraverso una delle più affascinanti vallate del Sud marocchino. La prima sosta era avvenuta nei pressi della kasbah di Ait Benhaddou che si trovava sul fianco di una collina, lungo il corso del fiume Ouarzazate. Composta da un gruppo di edifici, era stata costruita alcune centinaia d’anni prima, adoperando un fango rossiccio misto a materiali organici. La kasbah era stata racchiusa all’interno di alte mura dove vivevano ancora alcune famiglie. Ait Benhaddou, nel passato, era stata scenario di celebri film, quali “Sodoma e Gomorra”, “Lawrence d’Arabia” e “Il tè nel deserto”.

L’arrivo della nostra tappa giornaliera di circa duecento chilometri, era previsto a Ouarzazate, nella valle del Dadès, ai margini del deserto sabbioso del Sahara. Dopo aver superato il passo Tizin ’Tichka, a oltre duemila metri d’altitudine, il nostro autista Ahmed si era guadagnato un lungo applauso. Il bus aveva percorso una strada da brivido che s’inerpicava sulle montagne rocciose dell’Alto Atlante. Il paesaggio si faceva sempre più arido e spoglio, dove la montagna si apriva in vertiginosi canaloni. A seconda del tipo di minerale, alla luce del sole, le rocce si coloravano di rosa, rosso o arancione. Le rocce viola del Dadès si trovavano alle nostre spalle. Dopo il passo, il paesaggio era completamente cambiato con la freschezza dei monti coperti di vegetazione spontanea, e poi una nuda pianura punteggiata di kasbah che conduceva fino a Ouarzazate.

Marocco, OuarzazateLa sosta per il pranzo era prevista in periferia, dove si trovava l’antica kasbah di Taourirt con le sue mura merlate color ocra e le case d’argilla. Un interessante complesso che era stato abitato dal pascià sino al 1956, anno in cui il Marocco ottenne l’indipendenza. Alle spalle del monumentale edificio c’era un piccolo villaggio con trattoria, dove eravamo attesi per il pranzo. Il menù prevedeva il cous cous, il piatto tipico nazionale a base di semola macinata finemente e cotta, servita con uno stufato di agnello e verdura condita con una salsa molto piccante. Prima di mangiare, a scopo preventivo, mi ero premurato a raccomandare a mia moglie di evitare le bevande non sigillate e le verdure crude che potevano essere state a contatto con l’acqua.

Ouarzazate era una cittadina relativamente moderna, sorta da una settantina d’anni per opera dei francesi. Le viuzze del centro s’intersecavano in diversi punti, facendo sembrare la kasbah un vero e proprio labirinto: piccole vie, con volte bassissime, si alternavano alle stradine più lunghe, ma sempre strette. La gente che s’incontrava, era molto umile: alcuni facevano dei piccoli lavori artigianali e i bambini giocavano allegramente con un elastico, attirando la nostra attenzione. I colori delle kasbah diventavano via via più caldi, assumendo tonalità rossastre, condizioni perfetteper gli appassionati di fotografia. Il Belere, l’albergo che ci aveva ospitato per due notti di seguito, era una struttura confortevole con cucina internazionale a buffet. Dopo cena, prima di andare a letto, siamo andati a fare quattro passi nei dintorni.

Da Ouarzazate, tutte le strade conducevano alle meraviglie del sud del Marocco. Il primo giorno di ottobre siamo partiti per l’escursione, attraversando un paesaggio di impareggiabile suggestione, fra i palmeti della valle del Draa, una stretta oasi lunga più di duecento chilometri. Qua e là gli ksar e le kasbah, villaggi fortificati color ocra di argilla mista a paglia. Quella vista da lontano si poteva paragonare a un presepe, dove le statuine erano delle donne berbere che ritornavano dal pozzo consopra la testa i contenitori colmi d’acqua e gli uomini berberi che stavano seduti all’ombra del palmeto, parlottando tra loro. Ai lati della strada, c’erano degli spiazzi dove alcune donne vendevano per pochi dirham dei piccoli cestini di datteri. Dopo aver fatto una sosta nella località di Agdz, abbiamo seguito il corso del fiume Draa in uno slalom tra grandi e lussureggianti palmeti, poco prima di vederlo dissolversi misteriosamente nel deserto a sud di Zagora, punto d’arrivo delle carovane del deserto.

“Porta del deserto”Il nostro pullman si era fermato nei pressi della “Porta del deserto”, una costruzione in pietra marrone chiaro con tre volte e alcune torri merlate dai contorni bianchi. All’inizio del deserto sabbioso, c’era un cartello a colori che raffigurava un cavaliere berbero, col suo cammello, nei pressi di un’oasi con, sullo sfondo, le dune sabbiose; c’era scritto: “Tombouctou 52 jours”. Quando siamo scesi dal bus era mezzogiorno e fuori il sole scottava. Il marciapiede era affollato da giovani che uscivano dall’università. Le ragazze, che portavano tutte pantaloni jeans e un corto camice bianco, quando passavano vicino a noi, per non farsi fotografare si coprivano la testa con un libro.

Dopo il pranzo in ristorante, sulla via del rientro, ci siamo fermati a visitare il villaggio di Tamagrout dove c’era un negozietto di prodotti artigianali: tappeti e tessuti lavorati a mano,ceramiche, vasellame, collane e lavori in rame, ottone e ferro battuto. Abbiamo ripreso la corsa e, attraverso il roccioso passo di Tinfifft, siamo ritornati a Ouarzazate per la visita dell’imponente kasbah Taourirt. Da qui si controllavano le carovane che dal profondo Sahara risalivano la valle del Draa, imponendo dazi e tributi sulle mercanzie trasportate.

Quando siamo rientrati al nostro albergo di Ouarzarate, non mi sentivo bene e avevo preferito mettermi a letto. Avevo la febbre alta e mia moglie pensò bene di rivolgersi a Said per chiamare un medico. Si trattava della classica malattia del viaggiatore: infezione intestinale. Dopo aver passato una notte in bianco, facendo la spola tra il letto e il bagno, l’indomani fu dura ripartire.

Passata Boumalne, abbiamo preso la strada che conduceva alle impressionanti gole del Todra: altissime pareti verticali di roccia gialla, levigate dall’erosione millenaria. Dopo aver guadato il fiume, ci siamo rifocillati nel ristorante-rifugio, in uno scenario particolarmente suggestivo. Poi abbiamo ripreso il nostro itinerario giornaliero di oltre trecento chilometri fino a Erfoud, sulla strada che attraversava le sue oasi rigogliose. L’oasi che mi aveva colpito di più era molto piccola. Si trovava in fondo ai declivi di due aride montagne, dove un breve corso d’acqua scorreva alla luce del sole. Dove c’era l’acqua c’era la vita: tre o quattro palme, due campicelli coltivati, una casetta di fango e paglia con fuori una capra.

Erfoud si trovava proprio alle porte del deserto e, spesso, era avvolta da forti tempeste di sabbia. Gli ultimi chilometri di strada erano protetti da barriere di paglia dalla forma quadrata, alte circa mezzo metro. Eravamo nell’estremo sud del Marocco, ai confini con l’Algeria. La sera, al Club Salam, nell’albergo che ci ospitava, avevo ripreso a mangiare qualcosa. Mia moglie, invece, aveva assaggiato un piatto tradizionale chiamato Kalia: uno stufato di montone cucinato con quaranta spezie differenti e servito con uova, verdure e prezzemolo.

Venerdì 2 ottobre siamo partiti da Erfoud verso nord. Attraverso un piatto altopiano desertico, abbiamo raggiunto il Medio Atlante con una sosta a Midelt, un villaggio di montagna a 1.500 metri d’altitudine. Poi abbiamo proseguito fino a Kenifra, capoluogo della tribù degli zaaiani, sulla riva destra dell’Oum er Rebia. Ormai il Sud era lontano. Un paesaggio verdeggiante e ricco di piante scivolava velocemente dal finestrino del pullman. Quel giorno, siamo arrivati ad Afourer dopo quasi 500 chilometri di strada. Tra uno scorcio panoramico e un sonnellino, tra una sosta e una lezione di Said sull’esoterismo islamico, il tempo era passato velocemente. L’albergo ChemsTazerkaount era situato sulla strada per Marrakech, in un’ampia vallata piena di uliveti.

L’indomani, partiti di buon mattino in direzione di Azilal, siamo andati a vedere le cascate d’Ouzoud, una delle principali attrazioni turistiche della zona. Le cascate più alte del Marocco precipitavano da un’altezza di 110 metri, offrendo uno spettacolo naturale di grande bellezza.

Marocco, Medina a MarrakechScendendo in basso e seguendo il corso del fiume, ci si immergeva in un vero e proprio paradiso naturale, fatto di rigogliosa vegetazione, cascatelle e piscine naturali dove si poteva fare il bagno in pieno contatto con la natura. A Marrakech, capolinea del tour, siamo arrivati nel pomeriggio, giusto in tempo per andare a fare un po’ di shopping. Il mattino seguente ci aspettava la visita guidata della “Perla del Sud”: la medina, città vecchia, i souk, mercati, e i palazzi imperiali. Marrakech aveva il fascino delle città orientali con le sue mura che racchiudevano la città vecchia. Poi c’era una ragnatela di viuzze che portavano tutte nella piazza di Djemaa el Fna. Nelle viuzze i mercati erano coloratissimi, pieni di gente che brulicava e di negozietti dove acquistare prodotti locali, souvenir e cibi vari. Sopra le mura della medina, due cicogne, incuranti della confusione sottostante, stavano covando i propri nidi. La visita dei palazzi imperiali, minuziosamente rifiniti nei particolari, fu molto interessante e piacevole.

Nel pomeriggio ci siamo addentrati nei souk fino a raggiungere la piazza principale trasformata in un formicaio di bancarelle che vendevano di tutto fra saltimbanchi, suonatori e incantatori di serpenti. Poi siamo saliti a godere lo spettacolo sul terrazzo di uno dei tanti caffè che circondavano la piazza, sorseggiando un bollente tè alla menta. Dall’alto si vedevano gli appuntiti minareti chebucavano il cielo terso. All’ora del tramonto, si animavano le voci dei muezzin che chiamavano i fedeli musulmani alla preghiera con un canto. L’atmosfera intorno alla piazza, per qualche minuto, diventava ancora più mistica e affascinante. Questa, fu l’ultima bellissima sensazione provata, dopo i 1600 chilometri attraverso il “Gran Sud”.

La sera abbiamo festeggiato la chiusura del nostro tour, con una cena tipica sotto un ampio tendone decorato, immersi in una suggestiva atmosfera al ritmo folcloristico della musica marocchina.

INFORMAZIONI

Sergio Virginio

Associazione DLF Udine
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Internet iviaggidisergio.wordpress.com