“VAIA”, che ha distrutto la foresta delle Dolomiti

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Milioni di alberi a terra e un formicaio di lavoratori che li segano, li raccolgono e li rivendono per farne mobili o bancali. Così il disastro causato dal ciclone nell’ottobre 2018 nell'area montana delle Dolomiti e delle Prealpi Venete ha cambiato in peggio l’economia della zona.

Il lamento rauco delle motoseghe arriva dal fondovalle fin dentro le pieghe della montagna. Da un anno, tutti i giorni dall’alba al tramonto, è il suono tipico delle Alpi tra Friuli, Veneto e Trentino. Quassù, dove si arrampicano le mulattiere della Val Visdende, il calendario arretra nel tempo a mano a mano che si sale. Superati i due cantieri che stanno tagliando e rimuovendo i grovigli di tronchi, ogni tornante ti porta alla mattina del 30 ottobre 2018: migliaia e migliaia di abeti rossi sono ancora qui, rovesciati sul pendio, proprio dove quella notte il respiro di Vaia li ha posati. Al primo anniversario dal disastro, metà dei boschi abbattuti sono ancora così, le radici al cielo, i rami a terra, immobili e ormai grigi come la roccia. Ma davanti alla fatica acrobatica con cui i camion a rimorchio scendono questi passaggi a strapiombo, carichi di cadaveri vegetali, è evidente perché non si riesca a fare più in fretta.

Vaia, la più potente tempesta extratropicale che si è abbattuta sull’Italia negli ultimi cinquant’anni, soffiava raffiche tra i duecento e i duecentodiciassette chilometri orari. E non molte cose avvengono nel mondo a più di duecento all’ora: decollano gli aerei di linea, Charles Leclerc cerca di superare Sebastian Vettel in Ferrari, gli uragani devastano le coste americane. Ma mai da queste parti il vento era precipitato al suolo con un impeto così distruttivo. Nemmeno durante la storica alluvione del 1966, quando anche Firenze e Venezia finirono sott’acqua e le raffiche sfiorarono i duecento orari, ci furono danni tanto estesi: 700 mila metri cubi di alberi schiantati allora, contro gli otto milioni e seicentomila metri cubi di un anno fa. «Calcolando circa due metri cubi e mezzo di legno per ogni abete, sono milioni gli alberi caduti», spiega Giambattista De Mattia, 46 anni, esperto forestale di Santo Stefano di Cadore, impegnato con la sua impresa nel difficile lavoro di rimozione dei tronchi. Tradotto in tavoli per sei persone, come se ne trovano ovunque nelle case di queste valli, Vaia ha spazzato via l’equivalente di quarantatré milioni di tavoli in abete con tanto di cassapanca e sedie.

Nelle classifiche europee non è un record. Nel 1990 una serie di otto tempeste, tra cui il ciclone Vivian con venti fino a 280 chilometri orari, ha demolito 120 milioni di metri cubi di foreste dal Regno Unito alla Svizzera attraversando Francia e Germania. E Lothar e Martin, esattamente vent’anni fa, ne hanno buttate giù per altri 240 milioni.

Dalla furia che a volte l’Oceano Atlantico ci spedisce siamo sempre stati protetti dalle Alpi, essendo l’Italia sottovento rispetto allo spartiacque. Le cose però cambiano se sono le temperature più calde del Mediterraneo a innescare venti forti, come è accaduto un anno fa: con scirocco e libeccio la catena alpina, per gli effetti di sbarramento sulle precipitazioni e l’accelerazione delle correnti d’aria lungo le valli, non ci salva più. Anzi, peggiora le condizioni.

Schianti sulla piana di Marcesina, Altopiano dei Sette Comuni

Il 29 ottobre, il lunedì, pioveva forte da ore quando chiamarono Giambattista nell’alta valle, racconta la moglie Giulia Fasano, 43 anni, operaia in una fabbrica di occhiali: «Doveva mettere al sicuro i tronchi che una ditta aveva accatastato lungo il Piave per la spedizione. La piena rischiava di portarseli via. Era pericoloso, non volevo che andasse. I pompieri stavano già rinforzando gli argini in paese con blocchi di cemento. Qui in basso non era il vento a preoccuparci, ma l’acqua. Dal pomeriggio le raffiche buttavano secchiate di pioggia contro le finestre. E a mezzanotte gli scrosci sono addirittura aumentati. Chiusi in casa con nostra figlia sentivamo il rimbombo del Piave: erano i massi che sbattevano, trasportati dalla corrente».

In quelle ore il centro del ciclone si sposta dal Mar Ligure al Piemonte: il suo valore di 978 millibar (o hPa) è il quarto minimo assoluto mai registrato in Italia da quando si misura la pressione atmosferica. E un’area di bassa pressione è come un buco: più è profonda, più i venti intorno soffiano per riempirla. Già da sabato 27 ottobre Vaia sta portando distruzione da Nord a Sud: la mareggiata devasta la costa ligure con onde misurate di 10,3 metri, le raffiche fanno la prima strage di alberi dalla Lombardia alla Campania. Sedici i morti nei quattro giorni di bufera. E quel lunedì sera Giambattista De Mattia non riesce nemmeno a uscire dal paese. «Qualunque rio stava scaricando sassi e fango sulle strade», racconta, «Santo Stefano e gli altri comuni del Comelico, del Cadore, dell’Agordino, di tutta la provincia di Belluno erano isolati. E all’improvviso siamo sprofondati nel buio. Resteremo giorni senza elettricità. L’unica luce veniva dalle fotoelettriche dei pompieri piazzate lungo il fiume per controllare la piena».

Adesso De Mattia guida il suo fuoristrada nel cuore della Val Visdende. Si arriva risalendo il Piave, la svolta a sinistra, prima degli ultimi chilometri verso Sappada e il Friuli, porta all’epicentro della distruzione. Il fondovalle lungo il torrente è già stato ripulito dai tronchi. Al posto del bosco secolare rimane una spianata di ceppi e radici rovesciate. Una distesa di terra e rocce, smosse a ondate dagli abeti che facevano leva sul loro legame con la vita prima di crollare.

Risuonano le motoseghe. I due cantieri sono poche decine di metri più in alto. Una teleferica di fortuna trascina un tronco senza più fronde verso la piazzola di fango dove una catasta di prima qualità, segnata con la lettera A, attende di essere caricata sui camion. Le macerie di un terremoto si rimuovono con le ruspe. Ma qui, su pendenze superiori ai quarantacinque gradi, ogni intervento va fatto a mano. E per quasi ogni albero, bisogna smontare e rimontare la teleferica. È per questo che non si può accelerare il lavoro. Alzando lo sguardo appena sopra il cantiere, l’anfiteatro tra i più belli delle Alpi è ancora dopo un anno un cimitero. Migliaia di abeti sono esattamente lì, dove sono caduti. È la fotografia a centottanta gradi del respiro di Vaia. Mentre alle nostre spalle, sul fianco protetto, la foresta è incredibilmente intatta.

Metà degli alberi raccolti e da raccogliere è stata comprata da imprese austriache. L’altra metà da una ditta di trasporti locale, che venderà il legname sempre in Austria o in Germania. I tronchi di buona qualità diventeranno assi per i mobilifici. La maggior parte sarà invece trasformata in imballaggi e bancali per il commercio mondiale.

Era venuta anche una multinazionale italiana, dice De Mattia, mentre su una mulattiera militare della Prima guerra mondiale ci arrampichiamo oltre la Malga Chivion, in questa stagione già deserta: «Ci promettevano di far lavorare ditte locali. Ma poi il prezzo che ci offrivano non copriva i costi del lavoro e gli oneri fiscali delle imprese italiane. Per questo gli austriaci hanno ingaggiato boscaioli polacchi, croati, romeni e bulgari».

I lavoratori dell’Est si dividono compensi di circa 35 euro al metro cubo di legname rimosso. Le imprese italiane non possono scendere sotto i 45 euro. In questo momento il guadagno è dato dalla grande quantità, non dal valore del mercato.

Giù in paese, nell’ufficio per la progettazione ambientale di Marco Casanova Borca, 50 anni, dottore forestale, la dimensione dei danni è ben chiara. Racconta che il prezzo pagato alle Regole locali, le associazioni dei capifamiglia che gestiscono la manutenzione del bosco, il ripopolamento e la vendita controllata degli alberi maturi, è passato dagli 80 euro a metro cubo per le piante in piedi ai 20 euro attuali per i tronchi a terra. La Regola è un’organizzazione antica che da queste parti, attraverso l’autofinanziamento e l’autogestione, non ha mai tradito la conservazione del suolo.

La zona di Santo Stefano di Cadore ogni anno vendeva circa 30 mila metri cubi di alberi da abbattere. La tempesta Vaia ne ha schiantati, soltanto qui, trecentomila su cinquecento ettari: una quantità che, non potendo essere abbandonata sul terreno o conservata altrimenti, è finita immediatamente sul mercato facendo crollare il prezzo. Per le Regole di queste valli è un incasso potenziale di sei milioni in due anni, contro i cinque milioni circa di una vendita normale. Il vuoto però verrà dopo: un bosco a queste quote impiega un secolo e mezzo per consolidarsi ed essere sfruttabile.

Il cinquanta per cento degli alberi, secondo la stima di Casanova Borca, è stato raccolto. «Penso che ce la faremo entro il prossimo anno», rivela: «Più di due anni i tronchi non possono rimanere a terra. Decadono e diventano riparo per parassiti che attaccano le piante sane. Il problema più grave sono comunque le radici divelte o male ancorate al terreno. Sotto il peso della neve aumentano il pericolo di valanghe. Nell’Agordino molte ceppaie sono a ridosso di strade importanti e vanno rimosse».

«Dopo il disastro abbiamo incontrato la Regione», ricorda De Mattia, ci hanno detto subito: di soldi non ce ne sono. Così stiamo facendo da soli. Ma servirebbe un sostegno finanziario per aprire nuove piste temporanee nei versanti più lontani. Non tutti i boschi sono raggiungibili dai mezzi e il prezzo così basso del legname non ci permette investimenti.

Raffaele Cavalli, direttore del Tesaf, il dipartimento di Agricoltura e foreste dell’Università di Padova, propone l’uso di microcariche di esplosivo per sbriciolare i ceppi, ridurre il loro peso unitario e accelerare i processi di decomposizione che favoriranno la ricrescita. Regione e ministero dell’Ambiente da un anno stanno riflettendo. L’altro pericolo viene dalle future tempeste: la mancanza del bosco, che rallentava l’impatto della pioggia sul terreno, espone i versanti spogli a colate di fango. E l’aumento delle precipitazioni concentrate in poche ore, riguarda anche la neve.

Natalino De Candido, 79 anni, guardia forestale in pensione, racconta: la lunga storia di disastri naturali che ha colpito l’Italia non ha mai mostrato nulla di simile. È come se nel cielo qui sopra fosse scoppiata la bomba atomica. E da questo silenzio immobile anche gli animali se ne sono andati.

Vedere questi luoghi mette un senso di desolazione.

 

Agosto 2020

 

INFORMAZIONI

Sante Mazziero - DLF Milano

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La tempesta Vaia è stato un evento meteorologico estremo che ha interessato il nord-est italiano (quasi essenzialmente l'area montana delle Dolomiti e delle Prealpi Venete) a seguito di una forte perturbazione di origine atlantica, che ha portato sulla regione, a partire dal 26 ottobre 2018 fino al 30 ottobre, nel quadro di una forte ondata di maltempo sull'Italia (interessando anche le vicine regioni di Svizzera, Austria e Slovenia), vento fortissimo e piogge persistenti.