La lunga notte del ‘43

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Il cinegiornale dell’Istituto Luce aveva preceduto il film. È con una inquadratura sul Castello Estense, avvolto da una fitta nebbia di una spettrale giornata di novembre, che inizia la storia. I ricordi mi ritornano in mente, non riesco a trattenerli. Quei luoghi, percorsi tante volte a piedi, luoghi reali della mia giovinezza, si confondono con la finzione della pellicola.

Allora, intrecciando la vita vera con la fantasia, calata nel ruolo di protagonista e al contempo spettatrice, con fotogrammi in bianco e nero che mi colpiscono le palpebre fino a farmi lacrimare gli occhi, penso, consapevole dell’assurdità del mio pensiero…

 - Qualcuno avrebbe potuto gridare, avvisare di quello che stava accadendo poco oltre, in quella parte di strada, in quella triste notte del 15 novembre, che tutto avvolgeva in una coltre ovattata, che attutiva gli spari provenienti dalle mura cittadine oltre che dalle parti del Castello. Undici cittadini innocenti rastrellati e fucilati perché considerati traditori per non aver voluto iscriversi alla Repubblica Sociale, alcuni dichiaratamente oppositori del regime, altri scelti a caso solo perché il Fato li aveva portati a transitare da quelle parti, passati per le armi in segno di rappresaglia, lasciati a ridosso del muretto che guida al Castello, a monito dei Ferraresi, come stracci vecchi inzuppati di sangue e inumiditi da una fitta e gelida nebbia. Corpi presidiati fino al mattino da uomini armati fino ai denti, affinché nessuno potesse avvicinarsi ai cadaveri nel tentativo di riconoscerli.

Sarebbe potuta toccare la stessa sorte anche a quel giovane appena diciottenne, che, alle prime luci dell’alba stava rientrando dal lavoro, fischiettando, sul suo pesante e cigolante ferrovecchio. Garzone di fornaio, ancora accaldato per aver sfornato la croccante “ciupeta”, pedalava ignaro. Sarebbe bastata una voce - Ehi, giovane, fermati, lascia la bicicletta e nasconditi sotto il portico! - Niente, silenzio. Troppo tardi. Apostrofato da uno squadrista, fu strattonato contro il muro, in attesa di accertamenti. Confusione, urla strazianti, pianto di donne, imprecazioni militaresche, camionette per il trasporto dei cadaveri. Fu proprio su una di queste che venne spinto a forza il giovane, frastornato e confuso e condotto alla Caserma della Milizia per ulteriori verifiche - dicevano - per poi essere trasferito al carcere di Via Piangipane. In quel carcere erano detenuti solo personaggi eccellenti. Che preoccupazione avrebbe mai potuto destare un ragazzino, con poca istruzione ed alcun interesse per la politica? Nessuna e considerando, da uno sguardo sommario, che era in buona salute e sarebbe servito alla causa, venne caricato, senza spiegazioni o giustificazioni, sopra un camion, assieme ad altri ragazzi più o meno della stessa età. Destinazione Brennero. Da lì verso l’Austria e la Germania, dove li attendeva un faticoso lavoro di rifacimento delle strade, sconnesse dal ripetuto transito di pesanti automezzi militari delle truppe tedesche. Ma all’interno della Caserma qualcuno lo aveva riconosciuto. Il rischio era enorme. Nulla sarebbe dovuto trapelare da quelle mura, però il pensiero di quella povera donna della madre, vedova ed in angoscia per non aver visto rientrare il figlio, fece sì che un’anima buona valicasse ogni controllo ed ostacolo, portandole notizie.

Mentre il viaggio del figlio proseguiva verso il confine, la madre cercò di farsi forza, continuando la sua umile attività di sarta. Il lavoro era poco, i tempi molto duri. Al massimo ci si ingegnava a rammendare abiti usati e spesso non c’era nemmeno il denaro per pagare quelle riparazioni. La tessera annonaria era insufficiente perché i generi alimentari venivano razionati. Aveva realizzato immediatamente che il suo amato corredo, ricamato a mano fin dalla tenera età, invece che dimenticato ad ingiallire nei cassetti, sarebbe diventato una fondamentale risorsa. Non rimaneva che il mercato nero. Una federa in cambio di una scodella di zucchero. Un asciugamano di lino valeva un panetto di burro. Il caffè, unica sua debolezza, era introvabile. Si dovette accontentare della cicoria, barattandola con un paio di mutande.

E mentre la vita in città continuava, tra tensioni e paure, quel manipolo di giovani, rastrellato in modo così brutale, rendendosi conto, dopo qualche settimana, di non avere futuro, decise di optare per la fuga. Così facendo avrebbero avuto almeno una opportunità di salvezza. Solamente in due non furono riacciuffati, il nostro fornaio e il suo amico Annio, ritrovato dopo anni, in quel drammatico frangente. Una provvidenziale macchia boschiva aveva mascherato le furtive figure, un fienile accogliente e caldo aveva permesso loro di asciugare gli abiti inzuppati di pioggia, un gruppo di contadini, impietositi dalla sofferenza dei ragazzi, li aveva sfamati lungo la strada del ritorno e curato, come meglio potevano, febbre e tosse insistente che non lasciava tregua e respiro. Qualche partigiano offrì loro due pastrani pesanti e scarponi militari recuperati dai cadaveri dei propri compagni. Non importava se quello destro fosse del numero 46 e il sinistro numero 43: sempre meglio di ciò che avevano ai piedi, usurato dal fango e macerato dall’umidità. Le mura di Ferrara già si riconoscevano nella nebbia. Era arrivato il momento più difficile. Dovevano separarsi. Due ragazzi così giovani avrebbero potuto dare nell’occhio. Un abbraccio fraterno, non c’era tempo per la commozione, ed Annio si era già dileguato nel buio.

Ancora pochi passi e dietro l’angolo si intravedeva la sua abitazione, uno stabile vetusto, scrostato dai bombardamenti, ma ancora in piedi. Era sicuro di trovare sua madre, all’ultimo piano, con un abito da rammendare in mano, vestita in maniera dignitosa, i capelli raccolti in un composto ed elegante chignon, trattenuto da una retina e da qualche forcina. E sulle spalle l’immancabile scialle per proteggersi dal freddo. Quattro tocchi furtivi e ritmati al battente, secondo un codice che solo loro conoscevano, la porta che si apre ed un grido rimasto soffocato in gola. - Mamma, sei sempre la solita freddolosa! - disse scherzando, alludendo allo scialle ed abbracciandola con tutta la forza che gli era rimasta in corpo. - Presto, entra, ti stanno cercando! - bisbigliò la madre ripresasi dall’emozione, aggrottando le sopracciglia ed indirizzando lo sguardo verso l’appartamento sottostante. Sotto di loro abitava un Commissario della Federazione Fascista. Era sempre molto gentile e riservato, ma il suo incarico nel partito lo rendeva uomo oltremodo pericoloso.

La botola che conduceva al sottotetto, accedendo dallo sgabuzzino, si rivelò provvidenziale come nascondiglio e quello che ancora rimaneva dello stupendo corredo, servì a sfamare una persona in più. Le voci correvano nel mercato rionale e lo spione del piano sottostante non riusciva a spiegarsi come una donnina così esile e minuta potesse mangiare così tanto. A nulla valsero le visite di circostanza, le improvvisate con le scuse più banali. La signora, sempre impegnata nel suo lavoro di cucito, non dava confidenza e non lasciava trapelare alcuna emozione.

La guerra finalmente finì. Anche il film nel frattempo era terminato. Un ultimo guizzo di memoria mi era balenato nella testa, facendomi sorridere con un pizzico di amarezza. Quello scarpone destro, numero 46, che avevo ritrovato rovistando tra i ricordi di guerra di mio padre… chissà dove sarà poi finito!

 

 

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Marisa Aneghini e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.