Il quotidiano online di Bolzano “Alto Adige” del 25 aprile 2018, alle pagine 20 e 21, ricorda la storia vissuta durante la seconda guerra mondiale da Bruno Zito e Antonio Brigo, pensionati delle Ferrovie dello Stato che, prima come dipendenti FS, poi come pensionati, sono da tempo immemorabile iscritti al Dopolavoro Ferroviario di Bolzano ed anche nel DLF sono stati parte del gruppo dirigente a livello provinciale ed hanno profuso molte energie nelle varie attività della nostra associazione.
Bruno Zito e Antonio Brigo ancora oggi sono membri attivi dell’Associazione Combattenti e Reduci nella provincia di Bolzano e sono tantissime le attività che hanno contribuito ad organizzare in tutti questi anni per promuovere il valori della Resistenza, del 25 aprile 1945, soprattutto fra le giovani generazioni. (Milena Parisi, Presidente DLF Bolzano)
Il 25 aprile 1945
«Noi, fuggiti dal treno che ci portava al lager». Quattro bolzanini presi dai tedeschi e salvati da un martello
(Articolo di Luca Fregona)
Bruno Zito lo tiene in mano con infinito rispetto. La copertina nera, le pagine giallo canarino. La scrittura fitta, vergata in bella calligrafia con la penna stilografica. È un quaderno prezioso. Sulla prima pagina si legge: «DIARIO. FRANCIA - 8 settembre 1943. Zona di occupazione». È il diario di Gino Vecchi, storico gestore del “bar Sociale” di Piazza Walther (oggi bar Domino).
Racconta la storia di amicizia e di guerra di quattro giovani bolzanini, alpini del «Battaglione Bolzano», 11esimo Reggimento, divisione Pusteria, mandati in Francia da Mussolini, catturati dai tedeschi dopo l’armistizio, e poi fuggiti dal carro bestiame che li portava al lager. Bruno Zito era uno di loro.
Il quaderno glielo ha dato qualche anno fa la figlia di Gino. Ma a Bruno Zito non serve rileggerla per raccontarla. Se la ricorda bene. Scolpita nella memoria di un ragazzo che all’epoca aveva appena compiuto 21 anni.
«Eravamo a Gap, in Provenza, come truppa d’occupazione, alleati di Hitler. L’8 settembre, all’annuncio di Badoglio, abbiamo capito al volo che la guerra per noi non era finita. Discutevamo su cosa fare, ma senza illusioni. Il 9 settembre, alle 3 di mattina, la nostra caserma era già circondata dai tedeschi. Abbiamo combattuto. Il nostro corpo di guardia è stato spazzato via. Tutti uccisi». Sette morti e 12 feriti. I tedeschi minacciano di farli radere al suolo dall’aviazione. «Eravamo con le spalle al muro, senza contare che temevamo per i civili che vivevano accanto alla caserma». Il comandante degli alpini tratta la resa. «Eravamo prigionieri. Dopo alcuni giorni, ci hanno portati all’Ente Fiera di Grenoble, un spazio immenso. Eravamo centinaia. Ricordo solo botte, minacce, pane e acqua. Dormivamo per terra. Ci contavano e ricontavano, perché alcuni erano riusciti a scappare. E questo li faceva infuriare».
LA FUGA. Zito e i suoi compagni ci rimangono 10 giorni. Il 5 ottobre, all’imbrunire, vengono inquadrati in colonna e portati - attraverso al città - in stazione. «Ci hanno caricati sui carri bestiame, quelli che si chiudono da fuori col chiavistello. Che hanno solo le feritoie per far passare un po’ d’aria. Eravamo 40 per vagone». Qui succede una cosa che, forse, salverà loro la vita. «Il nostro vagone era ancora aperto. Pioveva... Passano due ferrovieri, quelli che battono col ferro l’asse dei vagoni. Uno guarda dentro e urla “Buratti, Buratti”». Oswald Buratti, calzolaio, fratello di Josef, che nel dopoguerra fonderà a Bolzano un impero sulle calzature. «Oswald, gli dico, ti chiamano». Oswald si affaccia. Uno dei due uomini gli getta il suo mantello e sparisce. Buratti lo indossa, scende e si allontana nella notte insieme al secondo ferroviere. Buratti però lascia sul vagone il suo zaino, pieno di attrezzi da calzolaio che i tedeschi - in quanto sudtirolese - gli avevano permesso di tenere.
«Per farla breve - continua Zito -: abbiamo capito subito che quello zaino poteva salvarci la vita. Dentro c’erano martelli, forbici, cacciavite. Nessuno di noi voleva finire in Germania. Sapevamo che sarebbe stata la fine». Zito con altri tre commilitoni, tutti bolzanini (Gino Vecchi, Carlo Delugan e Bruno Filippi), stringe un patto di ferro: scappare ad ogni costo, nessuno resta indietro. «I soldati della Wehrmacht erano brutali. Quando ci facevano scendere per fare i bisogni, colpivano col calcio del fucile chi si attardava, sparavano a chi cercava di scappare. Dopo due giorni di viaggio verso nord, appena abbiamo visto i cartelli in tedesco, abbiamo capito che non c’era più tempo. Ora o mai più. Quando è stato buio, abbiamo tirato fuori il martello dal sacco di Oswald...». A martellate riescono a fare un buco sotto il chiavistello. «Poi, usando il manico come leva, l’abbiamo sganciato, e - tac - la porta si è aperta». Una porta sulla libertà, ma con il treno in corsa. Gino Vecchi non ci pensa e salta. Salta Bruno Filippi. Salta Carlo Delugan. I tedeschi se ne accorgono. Raffiche di mitra dai tetti dei vagoni. «Toccava a me, ma gli altri mi fermano: “Ti ammazzano, ti ammazzano. Così fai da bersaglio”». Bruno Zito non ascolta. Si libera dalla morsa dei compagni. Punta la gamba sullo stipite e si lascia cadere sul fianco. «Sono rotolato lungo la scarpata. Non ho sentito male. L'adrenalina mi aveva anestetizzato. Mi sono trovato al buio, zuppo d’acqua, e SOLO». Solo perché il treno intanto era andato avanti. «Ho ragionato: “Se torni indietro, trovi gli altri”. E così è stato. Mi stavano venendo incontro, mi cercavano. Ho sentito Gino che mi chiamava. È stato uno dei momenti più belli della mia vita». Patto mantenuto: nessun o resta indietro. «Io ero il più vecchio, mi sentivo responsabile. Non volevo commettere errori». Zito fa uno più uno. Il sole sorge a est, Germania. E tramonta a ovest, Francia. «Quindi: andiamo a ovest. Camminavamo solo di notte, di giorno stavamo nascosti nei boschi».
LA PAURA. I quattro arrivano in Alsazia, la regione riannessa al Reich ma abitata da francesi. «Troviamo una fattoria dove parlano francese». Il contadino ha cinque figlie femmine e bisogno di una mano nei campi. Per diversi giorni li protegge e li sfama. Loro ricambiano con i lavori di fatica. Poi riprendono il cammino. Con un unico obiettivo: tornare a casa, in Italia. «Non avevamo notizie da mesi, non sapevamo se i nostri cari fossero vivi o morti. Siamo passati per tre dipartimenti, siamo scesi verso le Alpi. Siamo arrivati nella Jura francese vicino alla Svizzera». I quattro vengono nascosti da una contadina. La zona è piena di collaborazionisti e spie. Arrivano i tedeschi. La donna dice di rifugiarsi nel fienile. «L’istinto mi ha detto di non salire al primo piano. Ci siamo nascosti in una fessura tra il fieno di primo e secondo taglio». I tedeschi entrano. Salgono le scale, sparano una raffica nel fieno. La donna urla convinta che li abbiano ammazzati. «Ho pensato “è finita” - ricorda Bruno -. Contavo i passi. I tacchi in ferro sbattevano scendendo le scale. Invece, si sono allontanati. La donna ci ha fatto subito uscire, indicandoci il bosco. E siamo tornati alla macchia».
SVIZZERA. Passano settimane nascosti nella foresta. Mangiano radici e patate, dormono per terra. Incrociano decine di francesi in fuga come loro, per essersi rifiutati di lavorare per i nazisti. «Non sapevamo cosa fare, da che parte andare: ad ogni passo rischiavamo di essere presi». Incontrano un ex-ufficiale della Legione straniera. «Ci ha salvati lui. Ci ha spiegato quali erano i sentieri più pericolosi, quali le vie più sicure. Ci ha regalato una bussola-binocolo e una carta topografica della zona. Grazie alle sue indicazioni siamo arrivati finalmente al confine con la Svizzera». Un contrabbandiere indica loro il punto dove passare. «C’era una zona interdetta. Francesi collaborazionisti e tedeschi sparavano a tutto quello che si muoveva. Abbiamo aspettato la notte, e siamo andati dall’altra parte». Bruno Filippi, che da civile faceva il pompiere ed era forte come un cavallo, ha i piedi devastati dalle piaghe. «Ci siamo fermati in un’osteria e lo abbiamo curato. La gente ci dava soldi e ci pagava pane, formaggio e birra». Vengono fermati dalla gendarmeria svizzera e messi in custodia. «Una prigione a 4 stelle. Finalmente si mangiava», ricorda con un sorriso. Dopo qualche settimana tentano di rientrare in Italia dalla Valtellina. Ma l’Italia è nel caos. Subito dopo il confine, li ferma un sacerdote. «Ma cosa fate? Fermatevi, che qui ci sono solo tedeschi e fascisti». Sono costretti a tornare indietro.
PARTIGIANO. Nell’agosto del 1944 il gruppo si divide. Filippi e Delugan restano in Svizzera. Bruno Zito e Gino Vecchi rientrano in Italia dal passo del Tonale. «Nevicava, abbiamo avvicinato dei pastori. Ci hanno detto di nasconderci tra le pecore, che il gregge percorreva un sentiero che repubblichini e tedeschi non controllavano. Ci siamo tolti le giacche e abbiamo strisciato in mezzo alle bestie per 300-400 metri. Così abbiamo varcato il confine».
Gino Vecchi si ferma a Bolzano. Zito raggiunge la famiglia in Valsugana. «Dopo qualche giorno, il podestà mi chiama. “I tedeschi sanno che sei qui - mi dice - devi consegnarti”. Sono scappato in montagna coi partigiani». Brigata Garibaldi. Bruno fa parte delle formazioni che attaccano i convogli di rifornimento tedeschi. «Il mio primo 25 aprile? Eravamo ancora in armi, qui la guerra non era ancora finita. Noi eravamo l’unico argine, l’unica parvenza di Stato di fronte a migliaia di soldati tedeschi in rotta e ai fascisti sbandati...».
Bruno Zito è stato insignito della medaglia della Liberazione della Repubblica italiana.
LA NOSTRA STORIA
ANTONIO BRIGO, FERROVIERE E SOLDATO. «Io, sotto le bombe ai Piani, seppellito dalle macerie».
Antonio Brigo aveva solo 17 anni. «Una donna mi diede il suo bambino da portare in salvo. I quattro davanti a me sono morti sul colpo. Una paura che non ti lascia più»
«Corri! Corri! Corri! Pensavo solo a correre». La guerra per Antonio Brigo, 92 anni portati da dio, sono le bombe su Bolzano. E una montagna di terra, polvere e mattoni che ti piomba addosso, ti tira giù, ti toglie l’aria. «E vedi solo nero. E pensi di essere morto. Che la tua vita è finita lì, mangiando sabbia...». E hai solo 17 anni. Antonio Brigo racconta la sua storia come se tutto fosse accaduto ieri.
«Nel maggio del 1943 - dice - ho vinto un concorso in ferrovia: operaio qualificato ai Piani, in officina». Un buon posto, che garantisce l’esenzione dal servizio militare come manodopera “necessaria al Paese e allo sforzo bellico”.
FERROVIERE. Il 2 settembre 1943, il primo bombardamento aereo su Bolzano. Brigo c’era. «È’ successo a mezzogiorno». Le sirene urlano. «All’inizio non ci credevo, pensavo al solito falso allarme. “Oggi si balla”, ho pensato, ma più per scaramanzia. Pochi istanti dopo ho sentito i colpi della contraerea. Allora ho capito». Sono le 12.15: il cielo è lampi e tuoni. Cento bombardieri americani scaricano sulla città una tempesta di fuoco. La ferrovia è l’obiettivo strategico numero uno. Corri Antonio! Corri più veloce che puoi. «Ho puntato deciso verso la campagna. Io correvo e dietro sentivo cadere le bombe. L’inferno». Poi un colpo ancora più forte. Salta una palizzata. Brigo viene travolto da un’onda di legno, terra, calce e polvere. «Mi sono trovato sotto. Seppellito faccia a terra. Tutto si era fatto nero. Ho pensato: è finita, quanta roba avrò sopra di me? Come farò a liberarmi?». Antonio è un ragazzo, ma con i nervi saldi. «Ho respirato profondamente. Mi son detto: calmati! Poi ho puntato le ginocchia e le mani e mi sono sollevato sulle braccia, dieci centimetri alla volta». Brigo riesce a creare un’apertura tra i detriti e ad uscire. Ammaccato ma vivo. «Ho ripreso a correre verso l’Isarco. Intorno è fumo e polvere. Raggiungo una donna anziana. Esausta, mi passa un bambino, un bebè. “Portalo via”, mi dice. Corro ancora più forte con quel fagotto in braccio. Inciampo nei corpi senza vita di quattro persone. Le riconosco. Mi stavano davanti quando siamo scappati. La palizzata che mi ha travolto, mi ha salvato la vita. Vado avanti fino al fiume. Arriva anche la nonna a cui riconsegno il piccolo. Quella paura la sento addosso ancora oggi, è una seconda pelle, non ti lascia più».
BRONZOLO. Dopo il bombardamento ai Piani che ha raso al suolo i depositi, le Ferrovie attrezzano tre carri merci ad officina allo scalo di Bronzolo. È il 4 gennaio 1944, mezzogiorno. «I miei colleghi erano appena andati in mensa a pranzare. Io ero rimasto sul carro, volevo forgiare al tornio un anello in acciaio, che all’epoca andava di moda. Di colpo, sento le bombe cadere vicino. Gli americani stavano martellando la stazione di Ora. Sono saltato giù dal carro e ho iniziato a correre verso l’Adige. Credo, quel giorno, di aver battuto tutti i record mondiali...».
Corre Antonio, salta fossi, attraversa la campagna. «Sentivo le esplosioni “venirmi” dietro. Non si può capire se non si è vissuto». Raggiunge il fiume. I bombardieri passano. «Sono tornato indietro dalla stessa strada, e ancora oggi non so spiegarmi, se non con l’adrenalina della paura, come sia riuscito a saltare buche alte e larghe metri. Quando sono arrivato alla stazione, i miei compagni non ci credevano. Erano convinti fossi morto. I tre carri officina non esistevano più».
SOLDATO. Dopo l’8 settembre, l’Alto Adige viene occupato e annesso al Reich. L’esenzione dal servizio militare che valeva per l’esercito italiano, non ha alcun valore per quello tedesco. «A maggio del ’44 mi arriva la cartolina. Abitavamo vicino all’Istituto Marcelline, dove c’era il comando tedesco. Potevano prendermi in ogni momento. Così mi sono presentato. Al comando mi hanno detto chiaro e tondo di non fare cretinate e che se fossi sparito avrebbero mandato la mia famiglia nel lager». Il 4 giugno 1944, quattro giorni prima del suo diciottesimo compleanno, insieme ad altri 180 ragazzi, viene caricato su un treno direzione Torino. «A Torino Ci hanno divisi in due squadre: metà li hanno spediti in Jugoslavia, l’altra metà, ed io tra questi, aggregati alla Flak, le postazioni di contraerea». Brigo viene mandato alla Scuola di guerra in Baviera. Diventa telemetrista, quello che deve dare i dati degli aerei nemici alla centrale di tiro che poi li elabora per gli artiglieri. Nel gennaio del 1945 è di stanza alla stazione di Verona Porta Vescovo. «Gli aerei americani ci passavano sopra la testa tutti i giorni a mezzogiorno. E noi sotto a sparare, ma era come colpire un elefante con uno spillo».
Una sera sentono i bombardieri a bassa quota. «Il cielo si è riempito di bengala che illuminavano a giorno. Ci è preso il panico: era evidente che volevano individuare qualcosa». Alcune bombe scoppiano vicino a Brigo. Altre verso sud. «Venti minuti eterni. Cercavano un convogli di rifornimenti per l’esercito tedesco».
A CASA. La guerra per Antonio Brigo non finisce il 25 aprile 1945. «Con l’esercito tedesco in rotta ci avevano spostati in Alto Adige, ad Aica. I tedeschi volevano solo tornarsene in Germania. Gli americani erano già a Trento». La sera del primo maggio vengono distribuiti un rancio speciale e mezzo litro di grappa a testa. Una specie di “ultima cena” prima del “si salvi chi può”. «Eravamo una quarantina. Ho detto: fate quello che volete, ma io stasera me ne vado a casa. E così ho fatto». Prima a piedi, poi con un passaggio su un camion militare. «Eravamo disertori, ma nessuno ci ha chiesto niente».
Antonio arriva a Bolzano alle due del mattino del 2 maggio con altri due compagni. «Per strada non c’era nessuno. Ci ferma una pattuglia della Sod (la polizia ausiliaria sudtirolese). Il capo, uno che parlava benissimo italiano, ha provato a fare il duro. “Dove andate? Perché non siete in caserma?». Brigo prende tempo. «Ci siamo persi, adesso raggiungiamo l’unità...». La Sod abbozza, i tre fanno finta di andare verso le caserme di Gries, poi tornano indietro. La casa di Brigo è davanti al comando tedesco (oggi Via Marcelline). «C’era solo un piantone. Avevo il cuore in gola. La salvezza era lì, a pochi metri. Non volevamo rischiare di finire con un colpo in testa proprio adesso. Abbiamo aspettato che si allontanasse. Abbiamo attraversato la strada di corsa. Sapevo che la porta del palazzo era sempre aperta. Siamo entrati, siamo saliti al primo piano. Ho bussato. Mi ha aperto mio padre. Mi ha abbracciato. Era finita. Era il mio 25 aprile». (lf)
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