22 luglio 1944, giusto 80 anni fa. Dopo tanti miei articoli, rievocazioni, incontri con altri sopravvissuti e letture di relazioni di esperti militari e civili sull'argomento, mi convinsi, un paio di anni orsono, di abbandonare ulteriori ricerche su quanto avvenne quel giorno a San Miniato (PI) all'interno del Duomo, dove cinquantacinque persone rimasero uccise e un numero mai accertato ferite. Ma questo riacutizzarsi di volontà dittatoriali sparse a largo raggio anche in Europa, mi hanno indotto a reiterare ciò che ritengo giusto e doveroso, affinché con una dimenticanza troppo prolungata non si rischi la perdita di ogni memoria o la cancellazione del ricordo.
A Stanghella, un paesino della bassa padovana in cui sono nato, viveva Magna carboni. Per parlare di questo personaggio devo per prima cosa precisare che era una persona eccezionale e tutto quello emergerà nel raccontare sarà sempre in positivo. Era un tutto fare, di mestieri ne conosceva molti, tra cui un mestiere praticato da pochi: lo spazzacamino.
Il cinegiornale dell’Istituto Luce aveva preceduto il film. È con una inquadratura sul Castello Estense, avvolto da una fitta nebbia di una spettrale giornata di novembre, che inizia la storia. I ricordi mi ritornano in mente, non riesco a trattenerli. Quei luoghi, percorsi tante volte a piedi, luoghi reali della mia giovinezza, si confondono con la finzione della pellicola.
Ieri abbiamo visto il tuo concerto in tivù. Un Mephisto Waltz straordinario, davvero. Ci hai riempito il cuore di gioia, sei sempre più brava. Mia moglie ti manda i suoi più cari saluti, dice che le manchi molto. Pochi suonano Liszt come te. Lo hanno affermato anche il mio amico Raimond e sua moglie Petra, due che di musica ne capiscono, erano nostri ospiti.
Da giorni ne parlava e riparlava. Tra le due sembrava lei la ragazzina. Io ventuno anni appena compiuti, lei, per essere nonna, ancora giovanissima nell’aspetto e soprattutto nello spirito. La mattina di quella domenica di tarda primavera era splendida, tiepida e soleggiata con una leggera brezza che invogliava a vestirsi bene ed uscire per fare qualcosa di speciale.
Della coltivazione della patata americana conservo dei bei ricordi di quando ero bambino. Ancora oggi mi appassiona la sua storia. Originaria dall’America Centrale fu scoperta nel 1500 dal navigatore genovese Cristoforo Colombo e presentata alla regina Isabella di Castiglia, che la diffuse nel Continente come patata di Spagna. Mentre in Italia sembra sia stata introdotta inizialmente in Toscana verso il 1630, ma rimase puramente una curiosità botanica fino a circa il 1850.
Era stata Silvia, sua moglie, a trovare la fotografia. Aveva i bordi seghettati. Erano rimasti qualche minuto a osservarla, in silenzio. Poi lei era andata via, con gli occhi lucidi. Pietro continuò a guardare, aspettando i ricordi. Lui non viveva in un casello vero e proprio. La sua cantoniera era senza binari; si trovava adagiata in una valletta, come le case dei signori: i monti alle spalle e, dalle finestre, la valle fino a Pistoia, di cui si poteva vedere solo un pezzettino.
Ai piedi dell’argine del Grande Fiume c’è ancora una casa imponente, avvolta dalla nebbia in inverno, bruciata dal caldo in estate, abbandonata ormai da decenni, con persiane di un colore antico spaccate dal sole e tegole sbiadite sconnesse dal vento. Tutt’intorno, quella che una volta era stata l’aia di terra battuta, regno incontrastato di galline ed oche prepotenti, che ripulivano avide lo spazio circostante da residui di ogni genere, ruspando compulsive il terreno con unghie robuste, come rastrelli nelle abili mani del contadino.
I due ragazzi erano vicini, seduti su un grosso sasso. In silenzio guardavano il panorama di fronte a loro. La luce era tersa, primaverile. A valle, il traffico scorreva producendo un brusio lontano. Era un bel momento. «Di certo non sono due reduci», disse Luciano. «Troppo giovani».
Quando mi attanaglia quel senso di nostalgia che opprime e soffoca gola e pensieri, devo partire per ritornare alle mie radici. Il cuore mi guida, la memoria fa il resto.
Ci doveva essere uno sbaglio. Il Regio Carabiniere sicuramente si sbagliava. “Int i alpè? Mo s'a n so stê gnânca a Brisighèla!” (Negli Alpini? Ma se non sono mai andato nemmeno a Brisighella!).
I Regi Carabinieri si erano presentati sull’uscio di casa a mezzogiorno con la chiamata alle armi per Checo (Francesco) e gli stavano spiegando che il giorno dopo doveva prendere il treno da Ravenna per Ferrara per andare a Belluno, dove era stato arruolato nella 67esima Compagnia Alpina del Battaglione Pieve di Cadore.
La luce era bluastra e l’aria dolciastra, profumata di detersivo. Sdraiato sul letto d’ospedale, osservava quanto gli si parava di fronte. La stanza era grande, ordinata. La porta d’ingresso si apriva sulla destra, mentre la parete di fronte era occupata da piccoli quadri, indistinguibili a quell’ora. Una seggiola di metallo pareva aspettare qualcuno, mentre la flebo gocciolava poco alla volta, scandendo il tempo.
Correva silenzioso nella notte. Emozionava salire su un treno così lungo a quattordici anni, quando i viaggi non erano alla portata di tutti e molti non ne sentivano la necessità. L’espresso per Roma era pronto sul terzo binario alle 24.20, prima che le ore diventassero piccole. Il pantografo s’era sollevato silenziosamente in testa all’E646, modello innovativo anni '60 rispetto all'E636 del periodo fascista ancora in uso agli inizi degli anni '50 su quella tratta; aveva scintillato per l’impatto, entrando in collisione con la rete dei fili elettrici sovrastanti che ballonzolavano, frenati dalla tensione che si stabiliva.
Nei miei lontani ricordi dei racconti di mio nonno, ora che sono nonno e bisnonno pure io da un pezzo, riaffiora la leggenda di una donna misteriosa. Non si sa come sia arrivata a Zoldo; qualcuno disse di averla vista soffermarsi presso le cucine operaie delle miniere di Arsiera per chiedere una zuppa calda, altri l’hanno vista a pregare nella chiesa di San Martino nell’Ospizio del Canale in attesa di una assistenza da parte dei religiosi del posto. Comunque sia, arrivò a Forno di Zoldo come una chiocciola e trovò posto e ospitalità in una tiepida stalla.
Oddiomio, no, la vita a tutti i costi e costi quel che costi, no. È una lezione che ho imparato presto, è una lezione che allo stesso modo, si dimentica veloce, sempre e costantemente. Così, vado a ripetizioni di significati ogni mattina, pomeriggio e prima del tramonto.
Col passare degli anni, le mie visite al paese natio sono sempre più rare, i fattori che condizionano le circostanze sono molti e, principalmente, mi rendo conto dei miei dati anagrafici… Recentemente, ho deciso di fare una vacanza, però non in località di villeggiatura, ma proprio al paesello dove sono nato, Stanghella, in provincia di Padova. Ho prenotato la mezza pensione presso l’Albergo Ristorante Giardino, quindi mi sono programmato le mie cinque giornate.
Vieni ad abitarmi. Sono l'ultimo piano delle tue ipotesi, al termine di una rampa di sospiri. Ti ho riservato stanze luminose, un armadio pieno di giorni, mensole per appoggiare speranze. Ho balconi sospesi sui desideri, pareti di vetro, sorrisi che sbocciano sui davanzali. Potrai affacciarti sul mondo dal mio lato migliore.
Settembre 2021: 100 anni dalla realizzazione del traforo alpino del Sempione - Condividiamo l'articolo di Marco Galaverna pubblicato il 6 settembre 2021 sul sito dell'Associazione DLF Genova, Superba DLF: "Pochi mesi or sono, dedicavamo la nostra rubrica IL TRENO NELLA STORIA al centocinquantesimo compleanno del traforo del Fréjus e ora abbiamo l’occasione di ricordare un altro traforo alpino centenario, quello del Sempione.
I suoi occhi erano azzurro chiaro, quasi trasparente. Guardavano Luciano con intensità, ma parevano osservare anche altrove. Il muso era allungato, fiero; e celava la bocca chiusa, disegnata come un taglio da una parte all’altra. Ogni tanto pareva deglutire, ammiccando con le palpebre. Per il resto, rimaneva immobile: seduto sulle zampe posteriori. Era il lupo.
Alcuni anni fa, ho conosciuto in stazione una coppia studenti che frequentavano l’Università di Milano Bicocca: arrivavano con il treno alla Stazione di Milano Greco-Pirelli e raggiungevano le loro Facoltà. Terminate le ore di studio, si ritrovavano in stazione per prendere il treno e tornare ognuno alla propria residenza, che in questo caso era la cittadina di Carnate Brianza. Due studenti universitari, pendolari come tanti altri, che giornalmente affollavano la Stazione di Milano Greco-Pirelli.
Tira, Toni...
Mola, Bepi!
E ti urta
Urla
Dai, parlami della dolcezza. Di quel sorriso appena accennato, di quella curva così poco ripida da poter esser stirata con un solo passaggio di sguardo corvo, dai, parlami della dolcezza della parola fuori posto e fuori luogo, del silenzio che crea intorno e degli sguardi che forma, parlami di quella parola lì, descrivimela, raccontami cosa contiene e per quanti minuti vada baciata. Per sempre.
La RACCONTADINA e i suoi Rimedi per il freddo:
- coprirsi il collo con una sciarpa, possibilmente non sintetica e possibilmente che porti ancora un profumo o almeno un ricordo
- tenersi al caldo i piedi, pancia e reni con calzini e maglioni di lana
Il salto (per me) è stato capire il seme.
Da un seme di pomodoro nasce un pomodoro.
Da un seme di cetriolo nasce un cetriolo.
Da un seme di cavolo nasce un cavolo.