“L’amico del popolo”, 16 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DON QUIXOTE (Don Chisciotte, 1992) è un film incompleto diretto da Orson Welles. Sceneggiatura: Orson Welles, Javier Mina, Jesús Franco, da Miguel de Cervantes. Fotografia: Jack Draper (principal cinematographer), Jose Garcia Galisteo, Juan Manuel de Lachica, Edmond Richard, Ricardo Navarrete, Manuel Mateos, Giorgio Tonti, Gary Graver. Montaggio: Orson Welles, Fatima Michalczik , Lina Romay. Musica: Daniel White. Con: Francisco Regueiro, Akim Tamiroff, Patricia McCormack, Paola Mori, Fernando Rey, Beatrice Welles, Orson Welles, Oja Kodar.

DON QUIXOTE (Don Chisciotte, 1992) è un film incompleto diretto da Orson Welles

“Come ho deciso di girare Don Chisciotte? Avevo cominciato a fare un programma per la televisione di mezz'ora, avevo il denaro giusto per farlo; ma sono caduto così perdutamente innamorato del mio soggetto che l'ho ingrandito via via e ho continuato a girarlo man mano che guadagnavo dei soldi. Si può dire che il film si è ingrandito mentre lo facevo.
E' un po', voi lo sapete, quello che è accaduto a Cervantes, che cominciò a scrivere una novella e finì per scrivere il Don Chisciotte. E' un soggetto che non si può più lasciare una volta che lo si comincia.
(...) E' veramente un film difficile. Devo dire anche che è molto lungo; e quello che devo ancora girare non servirà a completare il metraggio: potrei montare tre film con il materiale già girato. Il film, nella sua prima forma, era troppo commerciale; esso era concepito per la televisione e io ho dovuto cambiare certe cose per farlo più duro. La cosa più folle è che Don Chisciotte è stato girato da una troupe di sei persone.
Mia moglie era sceneggiatrice, l'autista piazzava le lampade, io dirigevo, ero direttore della fotografia e operatore in seconda. E' soltanto attraverso la camera che si può anche avere l'occhio a tutto.
(...) Ora il film è veramente terminato. Non mancano che tre settimane circa, per le riprese di qualche piccola cosa. Quello che mi preoccupa è il suo lancio: io so che questo film non piacerà a nessuno. Sarà un film esecrato. Io ho bisogno di ottenere un grande successo prima di metterlo in circolazione. Se The Trial avesse avuto un successo di pubblico come di critica, allora avrei il coraggio di fare uscire il mio Don Chisciotte. Essendo le cose quelle che sono, io non so cosa fare: tutti si metteranno in collera contro questo film”.

(Orson Welles, 1964)

Don Chisciotte, le cui riprese sono durate più di venti anni, è stato lasciato volutamente incompiuto da Orson Welles che l'ha girato e fotografato da solo un po' in tutto il mondo, forse in 16 mm, forse in 35 mm (forse alternando il 16 al 35). Il film è interpretato dallo stesso Welles, nel suo proprio ruolo, dalla giovane Patty MacCormack (che è forse diventata una madre di famiglia nel frattempo) e soprattutto da Akim Tamiroff che è morto da qualche anno, verosimilmente senza aver terminato il suo ruolo.
La ragione che Orson Welles offre per spiegare l'incompletezza del film è la necessità di filmare, per la scena finale, l'esplosione della bomba H che distruggerà tutto e tutti, eccetto Don Chisciotte e Sancho Panza. Si è creato attorno a questo film, attraverso gli anni, una specie di leggenda che non sarebbe sorprendente immaginare che Welles preferisca restarne l'unico spettatore”.

(François Truffaut)

“La vicenda del Don Chisciotte, del quale esistono, da dopo la morte di Orson Welles, tra progetti realizzati e in gestazione, quasi quattro montaggi (i 40 minuti mostrati a Cannes nel 1986 curati da Costa Gavras per la Cinematheque, la ricostruzione di Jesus Franco e della Kodar, i ventimila metri affidati, ora legalmente, a Mauro Bonanni, il progetto di ricostruzione annunciato da Suzanne Cloutier con Robert Wise e addirittura Marlon Brando che racconta) dimostra come l'incompletezza del cinema che Welles ha lasciato in eredità sia destinata a dare vita ad un labirinto senza uscita. Se qualcuno ha avanzato qualche critica al restauro di Otello, senza porre in discussione l'importanza di rimettere in circolazione un film così importante e quasi sconosciuto, nessuno è rimasto insensibile di fronte alla sconcertante operazione della ricostruzione del Don Chisciotte, frettolosa e mercantile, realizzata senza metodo, rigore e quasi alcuna abilità (che pena vedere le immagini di Welles deturpate da tutte quelle ovvietà di montaggio alle quali non si piegò mai, oltre alla micidiale qualità ottica e tecnica del materiale). Eppure basta dare un'occhiata al materiale di Bonanni per rimanere esterrefatti dall'idea del film, una sorta di Falstaff picaresco che avrebbe fatto con la letteratura cavalleresca e Cervantes e l'ambientazione contemporanea ciò che Welles aveva fatto con le battaglie, i monarchi, i tradimenti scespiriani del Falstaff. Di questo capolavoro invisibile rimane - grazie a Bonanni: Welles non poteva scegliere custode più appassionato, che ha strappato queste immagini alla distruzione e all'oblio - la sequenza finale, tutta wellesiana per concezione, impatto, verticalità drammatica. Don Chisciotte paralizzato dal cinema, il suo sguardo folle che trascolora dall'ipnosi e l'incomprensione nell'odio. Welles - Don Chisciotte, si scaglia contro lo schermo e lo fa a pezzi, in nome di un risentimento nobile e selvaggio, contro un mostro che lo ha preso in ostaggio e ingannato per tutta una vita. A tanti anni di distanza c'è in quella unica sequenza tutta la rabbia, la confessione, la terribile nostalgia per il cinema, di qualcuno che da almeno un ventennio veniva considerato un anacronistico reperto dell'aristocrazia del cinema, con i suoi impossibili sogni di grandezza e la sua insopprimibile mitomania. Odiare il cinema, davvero, fino in fondo, è ancor più importante che amarlo. Il bambino prodigio trasformato dal cinema in genio impotente, alza finalmente la spada contro lo schermo".

(Mario Sesti)

16 gennaio 1605: la prima edizione di “El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha” (Libro uno di Don Chisciotte) di Miguel de Cervantes viene pubblicata a Madrid, in Spagna.

DON QUIXOTE (Don Chisciotte, 1992) è un film incompleto diretto da Orson Welles

 

Una poesia al giorno

Les oiseaux du ciel, di Émile Nelligan (Montréal 1879 - ivi 1941)

Parfois ma pensée regarde au loin
elle va vers mon village
où terres vertes s'étendent à l’infini.
Arbres majestueux ornent le ciel bleu.

Des nids pleins capturent

mon regard d’enfant,
Une maman oiseau capture un
insecte pour nourrir son petit affamé.

Vent léger court sur le blé doré.
Il suffisait un chant caché
d'un rossignol pour me
faire sourire à la vie.

Le silence assourdissant de
la vaste plaine me réveille
en chant solitaire,
comme un écho qui déplore...

Toi aussi moineau, tu chantes
ta plainte dans un hymne solitaire
à la maman qui n’est plus,
à un ami tué par le chasseur.

Ma pensée lointaine s’évanouit
au sourd pan-pan! d'un fusil...
Restent larmes amères pour
irriguer mon visage.

Toi chasseur admire ces oiseaux
leurs plumes des mille couleurs
jouent dans le ciel, je voudrais donc
t'implorer, laisse-les chanter en liberté.

Une de tes fillettes peut-être
est en train d'admirer cette
branche en fleur qui brode le ciel.
Elle écoute le bref chant du moineau,
et les grelottants couic-cuic de
chaudes nichées puis...

Elle s'endort enchanté entre les
gazouilles, le chant du moineau, et
un de tes regards heureux.
Dans ses yeux fermés dansent les
moineaux de mille couleurs... Et il
germe en chaque cœur, la fleur de l'espoir.

Gli uccelli del cielo

Il mio pensiero guarda talvolta in lontananza
va verso il mio villaggio
dove terre verdi si distendono all'infinito.
Alberi maestosi ornano il cielo blu.

Dei nidi pieni catturano
il mio sguardo di bambina,
Un mamma uccello cattura un
insetto per nutrire il suo piccolo affamato.

Vento leggero corre sul grano dorato.
Bastava un canto nascosto
di un usignolo per farmi sorridere alla vita.

Il silenzio assordante della
vasta pianura mi sveglia
in canto solitario,
come un'eco che deplora...

Anche tu passero, canti
il tuo lamento in un inno solitario
alla mamma che non è più,
ad un amico ucciso dal cacciatore.

Il mio pensiero lontano svanisce
al sordo ta-pùm! di un fucile
Restano lacrime amare per
irrigare il mio viso.

Tu cacciatore ammira questi uccelli
le loro piume di mille colori
giocando nel cielo, vorrei dunque
implorarti, lasciali cantare in libertà.

Una delle tue bambine forse

sta ad ammirare quel
ramo in fiore che ricama il cielo.
Ascolta il breve canto del passero,
ed i tremanti cip-cip di
calde nidiate poi...

Si addormenta lietissima tra i
pigolii, il canto del passero, ed
uno dei tuoi sguardi felici.
Nei suoi occhi chiusi danzano i
passeri di mille colori... E
germoglia in ogni cuore, il fiore della speranza.

Émile Nelligan (Montréal 1879 - ivi 1941)

Émile Nelligan fu un poeta del Quebec (canadese). Discepolo del simbolismo, fu profondamente influenzato da: Octave Crémazie, Louis Fréchette, Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Georges Rodenbach, Maurice Rollinat et Edgar Allan Poe.

Ancora più potente è questa sua poesia:

Christ en Croix

Je remarquais toujours ce grand Jésus de plâtre
Dressé comme un pardon au seuil du vieux couvent,
Échafaud solennel à geste noir, devant
Lequel je me courbais, saintement idolâtre.

Or, l'autre soir, à l'heure où le cri-cri folâtre,
Par les prés assombris, le regard bleu rêvant,
Récitant Eloa, les cheveux dans le vent,
Comme il sied à l'Éphèbe esthétique et bellâtre,

J'aperçus, adjoignant des débris de parois,
Un gigantesque amas de lourde vieille croix
Et de plâtre écroulé parmi les primevères;

Et je restai là, morne, avec les yeux pensifs,
Et j'entendais en moi des marteaux convulsifs
Renfoncer les clous noirs des intimes Calvaires!

 

Un fatto al giorno

16 gennaio 1969: lo studente ceco Jan Palach si suicida per auto-immolazione a Praga, in Cecoslovacchia, per protestare contro lo schiacciamento da parte dei sovietici della Primavera di Praga l'anno prima.

“JAN PALACH si appiccò il fuoco, dopo essersi cosparso di benzina, il 16 gennaio 1969. Nel pomeriggio ormai tardo la luce si smorzava già, con fretta invernale, sulle mura gotiche del castello di Hradcany e su quelle barocche del quartiere di Mala Strana. Praga viveva il quinto mese di occupazione sovietica (di "aiuto fraterno" secondo la versione ufficiale del regime comunista), e il numero degli esuli cresceva insieme alla rassegnazione. C'era poco da aspettarsi da un "paese di deboli", dalla patria del Buon Soldato Svejk, che usa la simulazione dell'idiozia come forma di resistenza. La furbizia genialmente cretina di Svejk poteva anche essere "epica" sul piano letterario, non lo era in quella realtà umiliante. C'era una forte differenza tra la burocratica Cacania austro-ungarica, contro la quale armeggia con le sue astuzie il buffo, pacifico eroe ceco sulle pagine del romanzo di Hasek, e l'Unione Sovietica intervenuta con i carri armati per cancellare la Primavera di Praga, estremo e vano tentativo di democratizzare il socialismo reale. Il gesto dello studente in quel giovedì di trent'anni fa fu l'esatto opposto dello stile Svejk: fu lineare, diretto, senza furbizie. Fu un'azione coraggiosa. Certo la giovinezza di chi lo compì suscitò rimpianto. Oggi Jan Palach è l'eroe anti Svejk. Ha da tempo detronizzato la fama del buon soldato di Hasek.

UN TRANVIERE fu il testimone più meticoloso dell'immolazione. La sua attenzione fu attirata da un ragazzo ai piedi della scalinata, davanti al museo nazionale, in piazza Venceslao: si stupì nel vedere che si inzuppava gli abiti con il contenuto di una lattina bianca: appena si accorse che aveva acceso con gesto rapido un fiammifero fu abbagliato da una vampata. L'urlo di dolore e il corpo in preda alle fiamme che si contorceva sul selciato paralizzarono la folla: una folla fitta a quell'ora sulla piazza più vasta della città, la piazza che i carri armati sovietici avevano presidiato a lungo nell'estate. Mille sguardi rimasero puntati immobili, esterrefatti, sulla torcia umana. Il primo a muoversi fu il bravo tranviere che aveva seguito fin dall' inizio le strane, veloci mosse di Jan: si tolse il cappotto e lo gettò sul giovane per spegnere le fiamme. L'udì gridare: "La lettera, salvi la lettera". E non capì quel che volesse dire. Ci volle un po' di tempo prima di capire che Jan Palach si era sacrificato "per scuotere la coscienza del popolo", per spezzare il clima di rassegnazione che imprigionava la gente in una resistenza puramente morale, intima, destinata a riassorbirsi col tempo, con la routine quotidiana e i suoi inevitabili compromessi. La speranza poteva essere riposta soltanto in eventuali remoti avvenimenti esterni, indipendenti dalla volontà della gente di Boemia, Moravia e Slovacchia. Il gesto di Jan Palach era contro questa situazione stagnante e affliggente. Non era un suicidio per disperazione, non era una resa definitiva, portata alle estreme conseguenze: era un'azione offensiva. Insomma era il gesto di un soldato che si sacrifica per gli altri esortandoli a battersi, come riconobbe il presidente Svoboda, un vecchio generale, acquattato nel castello di Hradcany e rassegnato all' occupazione sovietica, ma pur sempre memore del proprio passato di soldato. Non fu neppure una sbagliata rinuncia a quel dono di Dio che è la vita, riconobbe il Vaticano. Un suicida in certi casi non scende all'inferno.

25 gennaio 1969, Piazza San Venceslao a Praga

Dopo il tragico agosto del '68, tra i tanti se n'era andato Milan Kundera, autore di un romanzo di successo, non privo di humour: Lo scherzo. Ogni partenza assumeva il valore di una resa. Prevaleva la consapevolezza atavica, basata sulla ragione, secondo cui una piccola nazione dell'Europa centrale, quale era la Cecoslovacchia, non aveva scelta: non le restava che piegarsi alla forza della Russia sovietica che l'aveva strappata all' Occidente, ossia alle sue radici culturali. Soltanto le grandi potenze fanno la storia. Le piccole nazioni la subiscono. Tradita vent' anni prima, nel ' 38, dall' Occidente, che l'aveva abbandonata alla Germania nazista, la Cecoslovacchia era adesso schiacciata dai liberatori del ' 45, dai russi, che nessun altro popolo europeo aveva accolto con tanto slancio alla fine della Seconda Guerra mondiale. Con quale gesto si poteva riscattare il paese e richiamare l'attenzione del mondo?
La cortina di ferro era ricaduta sulla Cecoslovacchia dopo gli eccitanti mesi della Primavera politica che aveva fatto sperare, con le sue precipitose riforme, in una convivenza del comunismo con la democrazia: e la gente sapeva di non poter contare, neppure questa volta, sull' Occidente. Per le capitali occidentali il nuovo colpo di Praga (il primo era avvenuto nel '48 con la presa del potere da parte dei comunisti) era un affare interno all' impero sovietico, in cui non ci si doveva immischiare. Gli americani avevano già ripreso i negoziati sugli armamenti strategici con Mosca. I falchi dei due campi sembravano essere i vincitori. Quelli sovietici mantenevano i loro carri armati a Praga e quelli americani i B52 nel cielo del Viet Nam. In quel momento della storia del mondo le superpotenze si garantivano a vicenda, implicitamente, un'ampia libertà d'azione. Non si sarebbero disturbati. Non c'era il minimo squarcio nel chiuso orizzonte cecoslovacco.

La lettera che Jan Palach temeva bruciasse con i suoi abiti e la sua carne fu letta subito all'ospedale Legerova, a cinquecento metri dalla Piazza Venceslao, dove il corpo ustionato fu portato. Era, insieme ai documenti, nel sacco che di solito Jan portava a tracolla, e che aveva lasciato cadere a qualche metro prima di accendere il fiammifero. Era scritta su un quaderno a righe da scolaro: "Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera e di essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale illimitato, una nuova torcia si infiammerà". La lettera manifesto era firmata: la torcia n 1. La notizia che uno studente si era bruciato nel cuore della capitale in segno di resistenza all'invasione sovietica si diffuse con una rapidità sorprendente, a Praga, in Cecoslovacchia, nonostante la censura, e poi nel mondo. Il gesto era reso decifrabile dal precedente dei monaci buddisti in Viet Nam. Ad essi si era del resto ispirato Jan Palach. Lui e i suoi compagni dell'Università Carlo, dove era iscritto alla facoltà di filosofia, non erano rimasti insensibili al loro martirio, nel centro di Saigon, per protestare contro l'interminabile guerra indocinese. Per scuotere gli animi bisognava imitare quei monaci, ripetere nell' Europa centrale soffocata dai carri armati sovietici il sacrificio che loro avevano compiuto in Estremo Oriente. Quella mattina del giovedì 16 gennaio, prima di raggiungere piazza Venceslao con la lattina di benzina, Jan aveva scritto steso sul letto, nell' appartamento che occupava con altri cinque studenti, la lettera di cui aveva poi fatto quattro copie. Alle pareti, nella stanza, accanto ai ritratti del presidente Svoboda e di Komenius, inventore della pedagogia ceca, c'era anche quello grande di un Buddha pensoso. Jan aveva vent'anni quando morì all' ospedale Legerova settantatré ore dopo essersi procurato ustioni di terzo grado sull'ottantacinque per cento del corpo. I professori, gli amici, i parenti (il padre era proprietario di una confetteria, in cui aveva continuato a lavorare fino alla morte, dopo che era stata nazionalizzata) lo hanno descritto come un giovane studioso, educato, leggermente ironico. E' il ritratto che io stesso riuscii a ricostruire, attraverso le testimonianze, arrivando a Praga poco dopo l'annuncio della morte. Da un lato, è vero, si tendeva in quelle ore a santificare il giovane martire; dall' altro, i filosovietici cercavano al contrario di presentarlo come un malato di mente, probabilmente in preda alle droghe. Le calunnie postume non intaccarono il ricordo di Jan Palach.

Tra i libri che lasciò nella casa di Vsetaty, abitata dalla madre, c'erano romanzi di Dumas, Verne, Aragon, Hemingway, Tolstoi, Remarque; e biografie di Lenin, Chaplin, Masaryk, il fondatore della Repubblica Cecoslovacca; e saggi di Lévi-Strauss. Tra gli oggetti c'erano due biglietti della metropolitana, uno di Mosca e l'altro di Parigi. I suoi due grandi viaggi all' estero. Il giorno dei funerali nuvole gonfie e basse scaricavano a intervalli una pioggia gelida frammista a nevischio sulle seicentomila persone riversatesi per le strade. Non pochi esuli ritornarono per l'occasione. Al potere c'era ancora formalmente Alexander Dubcek, l'uomo della Primavera (che era a letto con l'influenza). Sarebbe stato sostituito in aprile dal più rigido Gustav Husak, l’uomo della normalizzazione. I sovietici si dimostrarono tolleranti in quelle ore. Lasciarono fare.

La salma fu esposta nell'Università Carlo dove sfilò per due giorni una folla proveniente da tutti gli angoli del paese. La bara passò poi per le strade, tra i drappi neri bagnati che scendevano dalle finestre sbatacchiati dal vento. Era il 25 gennaio. Il decano della facoltà di filosofia pronunciò un discorso davanti al feretro. "La Cecoslovacchia sarà un paese democratico - disse - soltanto quando il sacrificio non sarà più necessario". Sulla facciata di un teatro era stata scritta a grandi lettere una frase di Brecht: "Infelice quel popolo che non ha eroi. Ma infelice quel popolo che ha bisogno di eroi". Per tutta la giornata la capitale fu in mano agli studenti del servizio d'ordine. La gente arrivava a piedi dalla provincia in colonne ben ordinate. Se avesse preso il treno sarebbe stata fermata dalla polizia. Gli abiti della festa si erano bagnati durante la marcia e le giacche venivano messe ad asciugare per terra, sotto i portici della Città Vecchia. In testa ai funerali, insieme agli studenti, sfilavano gruppi di operai. Poi il corpo accademico con gli abiti medievali. Alcuni accostarono il sacrificio di Jan Palach al suicidio di Jan Masaryk, il ministro degli esteri (figlio del fondatore della Repubblica) trovato morto ai piedi della finestra da cui si era gettato o era stato gettato vent'anni prima, alla vigilia del colpo di Praga, attuato dai comunisti. Due suicidi che avevano scandito momenti tragici del paese. Altri si immolarono poi come Jan Palach, almeno sette in Cecoslovacchia, ma la censura fu più efficace e si ebbero scarse notizie.”

(Bernardo Valli, La Repubblica, 16 gennaio 1999)

Jan Palach

“Quarantacinque anni fa, il 16 gennaio 1969, moriva Jan Palach, studente di filosofia all’Università di Praga, che si diede fuoco alla maniera dei monaci buddisti in Piazza San Venceslao per protestare contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte delle forze del Patto di Varsavia. Il funerale di Palach si trasformò in una protesta di massa. Un mese dopo, il 25 febbraio 1969, un altro studente, Jan Zajíc, seguì il suo esempio e si diede fuoco sempre a piazza San Venceslao. Ad aprile a darsi fuoco fu un altro studente Evžen Plocek, nella città di Jihlava.
Tra i colleghi di corso di Jan Palach all’università c’era la giovane Agnieszka Holland, di origine polacca, che sarebbe diventata una grande regista, e che un anno fa ha girato per il canale televisivo HBO una miniserie sui fatti della Primavera di Praga. Il film della Holland, Burning Bush, ricostruisce la battaglia della madre di Jan e di una giovane avvocatessa contro i tentativi di delegittimare il significato politico del suicidio. Un membro del Comitato Comunista Centrale cecoslovacco, Vilem Novy, sostenne che Palach volesse fare uso di un liquido innocuo sostituito all’ultimo minuto dai suoi amici coinvolti in un complotto anti-comunista intenzionato a screditare il governo cecoslovacco”.

(Christian Raimo, giovedì 16 gennaio 2014)

Immagini:

Praga, Piazza San Venceslao

 

Una frase al giorno

Filippo II d'Asburgo morendo: “He querido, hijo mío, que os hallárais presente a este acto para que veáis en quel para todo” (Ho voluto, figlio mio, che vi trovaste presente a questa cerimonia, perché vediate come va a finire ogni cosa)

Noto anche come Filippo il Prudente (1527 - 1598), fu re di Spagna, di Napoli, di Sicilia, di Sardegna e di Portogallo. Il 16 gennaio 1556 Filippo II diventa re di Spagna.

 

Un brano musicale al giorno

Petite Suite, Op 12 di Henri Busser, suonata da Leonard Garrison, flauto e Roger McVey, piano, 16 settembre 2014. Video di Skeeterbuggins Productions.

Henri Büsser (Tolosa, 16 gennaio 1872 - Parigi, 30 dicembre 1973) è stato un compositore, organista e direttore d'orchestra francese.


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k