“L’amico del popolo”, 16 marzo 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ELEGIYA DOROGI (Elegia di un viaggio, Francia, Russia, Olanda, 2001), regia di Aleksandr Sokurov. Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov, Alexandra Tuchinskaya. Fotografia: Aleksandr Degtyaryov. Montaggio: Sergej Ivanov. Musica composta da: Gustav Mahler, Michail Ivanovič Glinka, Sergey Snimki.

“Il film è la trasposizione di un sogno: per quasi tutta la durata vediamo con gli occhi del protagonista, mentre in alcune scene lo vediamo di schiena. Egli si viene a trovare in diversi ambienti e situazioni, e sentiamo la sua voce che commenta e riflette su ciò che accade. Inizialmente ci si trova in un ambiente invernale, poi in una chiesa dove avviene un battesimo, in seguito su una nave. Poi il protagonista incontra in un bar un uomo che gli racconta una sua esperienza e gli parla del suo modo di vedere la vita. Infine ci si ritrova in un edificio vuoto e buio ai cui muri sono appesi dei quadri: osservandoli, il nostro uomo fa riflessioni sull'arte, sulla vita, e sul passare del tempo”.

(Wikipedia)

ELEGIYA DOROGI (Elegia di un viaggio, Francia, Russia, Olanda, 2001), regia di Aleksandr Sokurov

“Si può dire che dobbiamo a Sokurov l’introduzione nel cinema di un nuovo genere, l’elegia. Termine preso dalla poesia antica, ricontestualizzato nell’ambito cinematografico esso pare realizzarsi in una sorta di “poema visivo” in cui le immagini e la musica, i silenzi e le poche e pesate parole si susseguono, accompagnano e rincorrono con delicatezza e talora con ardore, guidando lo spettatore in un viaggio interiore attraverso la realtà e i suoi significati reconditi. Secondo le parole del critico Marco Müller, le opere di Sokurov sono “una lotta senza quartiere contro la distrazione”, nelle quali l’autore chiede al suo pubblico un’attenzione e un’attivazione delle proprie percezioni che sono decisamente insolite. Ogni momento delle sue pellicole ha una profondità che per certi aspetti rimarrà sempre parzialmente intuibile e parzialmente imperscrutabile. “Il visibile e l’udibile sono per lui - Sokurov - sempre un rinvio ad altro, a qualcos’altro”. Evidentemente, le radici lontane di questo nuovo genere cinematografico sono nel genio tarkovskijano: basti pensare ad alcuni momenti de “Lo specchio”, la più autobiografica delle opere del grande regista russo. Vi proponiamo ora una “lettura” di Elegia di un viaggio, dove la dimensione - per se stessa transitoria - del viaggio si unisce a quella atemporale della letteratura e dell’arte dei secoli passati. In questa elegia vedremo che sensibilità e tradizione russa si incontrano con la letteratura e la tradizione europea; l’incontro non elimina il conflitto causato dalla diversità delle due diverse tradizioni, ma anzi lo risolve in uno “sposalizio” più profondo, reso possibile dallo sguardo sapiente dell’unico protagonista - longa manus del regista - che ci accompagna attraverso tutta la visione.

L’unità dei contrari
“Arrivo a una radura. Per chi tanta bellezza? Nessuno per vederla. Dunque era ancora più bella. Solitudine perfetta. Cosa sono questi occhi? Chi è Colui che mi guarda?”. Presenza e assenza, vicinanza e lontananza, visibile e invisibile, superficie e profondità, passato e presente, memoria e avvenimento: tutte categorie antitetiche che in questa elegia si dissolvono continuamente l’una nell’altra, si confondono, scambiano, separano e ricongiungono. Quasi a dire che in fondo, al fondo della realtà, nella verità ultima delle cose, ciò che è assente è in qualche modo presente. Ciò che è passato, accaduto e concluso in qualche modo sta accadendo ora. Ciò che è lontano, impalpabile e invisibile è in qualche modo vicino, percepibile, intimo e familiare: “Solitudine perfetta. Cosa sono questi occhi? Chi è Colui che mi guarda?”. A quanto pare la solitudine è tanto più perfetta quanto più è pervasa da una presenza vicina che mi guarda, che guarda me, ora”.

(Cecilia Benassi, 28.10.13 24 Fotogrammi)

Il film:

Aleksandr Sokurov

 

Una poesia al giorno

Le meilleur moment des amours (L'istante più bello degli amori), di René Francois Armand Prudhomme, detto Sully Prudhomme (Parigi, 16 marzo 1839 - Châtenay-Malabry, 6 settembre 1907. È stato un poeta francese, il primo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1901)

L’istante più bello degli amori
non è quando si dice ti amo
è nel silenzio
ogni giorno spezzato a metà
è nelle intese
pronte e furtive dei cuori
nei finti rigori
nelle indulgenze segrete
nel brivido di un braccio
dove poggia una mano che trema;
nel libro sfogliato insieme,
un libro mai letto
nell’ora irripetibile quando con la bocca chiusa
il pudore dice tanto
e il cuore scoppia
aprendosi in silenzio come un bocciolo di rosa
l’ora in cui il mero profumo dei capelli
sembra un regalo conquistato...
l’ora della tenerezza squisita
che nel rispetto avvolge la passione.

Sully-Prudhomme (Parigi, 16 maggio 1839 - Châtenay, 7 settembre 1907)

Le meilleur moment des amours
N'est pas quand on a dit : «Je t'aime.»
Il est dans le silence même
À demi rompu tous les jours;

Il est dans les intelligences
Promptes et furtives des cœurs;
Il est dans les feintes rigueurs
Et les secrètes indulgences;

Il est dans le frisson du bras
Où se pose la main qui tremble,
Dans la page qu'on tourne ensemble
Et que pourtant on ne lit pas.

Heure unique où la bouche close
Par sa pudeur seule en dit tant;
Où le cœur s'ouvre en éclatant
Tout bas, comme un bouton de rose;

Où le parfum seul des cheveux
Parait une faveur conquise!
Heure de la tendresse exquise
Où les respects sont des aveux

Sully-Prudhomme, scrittore francese, nato a Parigi il 16 maggio 1839, morto a Châtenay il 7 settembre 1907, fu, sul declinare dell'Ottocento, uno dei poeti più letti e ammirati dal pubblico letterario di tutt'Europa; il più popolare degl'impopolari parnassiani.
È interessante rilevare che i suoi studî giovanili furono prevalentemente scientifici, e che, prima di giungere alla letteratura, egli credette d'aver trovato la sua via negl'impieghi industriali e perfino nella pratica notarile. Il favore di pubblico e di critica con cui fu accolto il suo primo volume, Stances et Poèmes (1865), lo indusse a tentare con maggiore impegno la poesia, insistendo sui temi e sui procedimenti che subito gli avevano dato una certa fama, autorizzata dal giudizio di Sainte-Beuve. Allora, benché fosse per varî aspetti assai diverso dai parnassiani ufficiali, s'accostò ad essi, pubblicando presso il loro editore (il Lemerre) Les Épreuves, Croquis italiens (1866) e Les Solitudes (1869). Fino a questo punto il Prudhomme è poeta di vena sottile: immaginazione modesta, sensibilità delicata, pronta a vibrare per un nulla, pensiero chiaro ma vago. È un genuino poëta minor, che dal suo cantuccio d'ombra canta con sommessa voce la sua vita intima, fatta di sensazioni minute e acute, di sentimenti teneri e timidi, d'inquiete meditazioni sul mistero dell'uomo e dell'universo. Il famoso Vase brisé è il componimento tipico, se non il capolavoro, di questo primo Prudhomme, che ha effettivamente un suo tono e un suo accento; romantico senz'enfasi e parnassiano senza pedanteria. Ma già in questo tempo, per sfuggire al pericolo della facilità e alla taccia di leggerezza, egli s'era messo a tradurre Lucrezio (Le premier livre de Lucrèce, 1866), il cui ateismo coraggioso e triste trovava profonda rispondenza nel suo spirito. O forse egli sentiva inconsciamente che quella sua esigua vena sentimentale e meditativa si sarebbe presto esaurita; e però cercava altri motivi e modi, illudendosi di salire ad maiora. Tra il 1872 e il 1888 appaiono Les Destins, La France, Les Vaines Tendresses, La Justice, Le Prisme, Le Bonheur: liriche e poemi d'alte ambizioni ma di corto respiro. Egli non canta più gli amori silenziosi, gli oscuri affetti, i paurosi smarrimenti dell'anima davanti all'inconoscibile; esalta invece le "merveilleuses conquêtes de la science et les hautes synthèses de la spéculation moderne", descrivendo ingegnosamente il barometro, il parafulmine, la tavola pitagorica, esponendo le credenze metafisiche dei varî tempi, la dottrina positivista, la morale stoica, e perfino il problema della quadratura del circolo. Didattico ed eloquente, questo secondo Prudhomme somiglia ben poco al primo: la sovrabbondanza verbale soffoca la commozione nascente, anche nei passi meno infelici; il verso, per confessione del poeta stesso, non ha più che un ufficio ausiliario ("un bercement sublime est utile au penseur" e, d'altra parte, può benissimo stare a sé, senza poesia ("l'art des vers n'est pas toujours consacré à l'expression de la poésie"). Il tramonto del poeta, accademico di Francia dal 1881 e insignito del premio Nobel nel 1901, fu attristato dall'abbandono del pubblico, che doveva necessariamente uggirsi leggendo quei suoi macchinosi poemi, e dall'allegro dispregio dei simbolisti, intesi a restaurare, contro il Parnasse filosofico e calligrafico, i puri valori lirici.”

(Diego Valeri, Enciclopedia Italiana (1936) Treccani)

 

Un fatto al giorno

16 marzo 1244: oltre 200 catari vengono bruciati dopo la caduta di Montségur.

“Lasciatemi raccontare la storia
Di un sangue bevuto dalla mia terra
Lasciatemi raccontare la storia
Di una volontà di ferro
Di una gioventù passata
Di una libertà voluta
Del vecchio sogno disperato
Di una libertà perduta”.

Così recitano le parole di una canzone scritta nel 1972 dal cantante occitano Claude Marti.

“Cinquecento eravate a Montségur / Sapendo ciò che vuol dire vivere / Cinquecento eravate a Montségur / Certo siete dietro l’azzurro”.

Catari esplusi da Carcassonne (bottega del Maestro di Boucicaut)

Erano in cinquecento, il 16 marzo 1244 a Montségur, ma ne sopravviveranno appena la metà: oltre duecento, infatti, finiranno arsi sul rogo nella più grande strage di eretici mai compiuta dalla Chiesa cattolica; l’atto finale di una guerra durata cinquant’anni, che segnerà anche la fine dell’indipendenza politica e culturale dell’Occitania dalla Francia.
Erano albigesi, quei cinquecento, ovvero catari: la più celebre e popolare eresia del Medioevo, contro cui papa Innocenzo III ha lanciato una vera e propria crociata, l’unica indetta da cristiani contro altri cristiani. Il catarismo affonda le sue radici nei primissimi secoli del cristianesimo: già i discepoli di Novaziano, nel III secolo, si autodefinivano catari, ovvero “puri”, ma è nel XII secolo ad Albi, in Occitania, che nasce il fenomeno destinato a segnare l’intera storia religiosa medievale.
Sotto il profilo teologico, l’eresia catara è caratterizzata da un radicale dualismo che contrappone bene e male, luce e tenebre, spirito e materia. Anche il divino è diviso in due: esiste un Dio malvagio, che è il Creatore del mondo e spinge l’uomo verso l’esistenza materiale; ed esiste un Dio buono, che ne è il redentore attraverso la figura di Gesù Cristo, che a sua volta non è un vero uomo, ma un angelo apparso in sembianze umane per liberare l’umanità dal dominio della materia.
L’obiettivo del cristiano è quello di liberarsi progressivamente da tutto ciò che è materiale per elevarsi verso il divino attraverso lo spirito. I catari considerano malvagio e diabolico, dunque, tutto quello che è espressione della corporeità, a partire da cibo e sesso, e arrivano a praticare il suicidio rituale come estremo atto di liberazione dal proprio corpo.
Ovviamente la Chiesa di Roma, ricca e corrotta, viene rifiutata e sconfessata dalla dottrina catara, che struttura una vera e propria Chiesa parallela con istituzioni che si pongono in diretta competizione con quelle cattoliche riscuotendo grande successo, soprattutto tra le classi sociali più umili.
La complessa elaborazione teologica degli albigesi, infatti, rimane in secondo piano - nella visione popolare - rispetto alla povertà evangelica praticata dai suoi adepti. I “perfetti” (ovvero il livello più alto che possono raggiungere gli iniziati) rinunciano ad ogni proprietà e vivono unicamente di elemosina, oltre a praticare la castità. Naturale, quindi, che vincano ogni sfida con i preti cattolici, che sono tutt’altro che un esempio di santità e distacco mondano.
Sotto questo profilo gli albigesi non fanno che raccogliere l’eredità dei patarini e dei valdesi, ma anche dello stesso movimento francescano. In tutti e tre i casi si tratta di movimenti pauperistici che si contrappongono alla corruzione della Chiesa romana. Ma se il francescanesimo rappresenta proprio la risposta cattolica agli eretici, patarini e valdesi pur contestando la Chiesa sotto il profilo teologico si mantenevano assolutamente ortodossi (i valdesi si allontaneranno dalla dottrina cattolica solo nel XVI secolo, aderendo alla Riforma protestante). Quella catara diventa quindi la più insidiosa delle eresie dai tempi degli ariani, perché attira i fedeli puntando il dito contro la corruzione della Chiesa ma a differenza di patarini e valdesi che si accontentavano di una riforma morale, mira a stravolgerne completamente la teologia. (...) Il castello di Monstégur era stato costruito nel 1204 sotto la direzione di Raymond de Péreille, signore del luogo, come estremo rifugio per gli albigesi. Col proseguire della crociata e la caduta dei centri di resistenza catara, la fortezza aveva rivestito sempre più importanza, tanto da essere additata nel 1233 dal clero cattolico come “Sinagoga di Satana”.
Sotto la spinta dell’inquisizione affidata a francescani e domenicani, tutte le chiese catare del sud di Francia hanno cessato praticamente ogni attività e i sopravvissuti si sono dati alla clandestinità o sono fuggiti. In questo quadro il vescovo cataro Guilhabert di Castres chiede e ottiene protezione nella rocca di Montségur.
L’arrivo del Vescovo trasforma radicalmente la vita del villaggio e della fortezza, che diventa un punto di riferimento anche per tutti i feudatari catari e i loro cavalieri cacciati dai possedimenti, che iniziano ad utilizzare la rocca come base per azioni di guerriglia contro i crociati cristiani. Raymond de Péreille viene scomunicato, con conseguente confisca di tutti i beni e si unisce agli abitanti della rocca.
Nel 1242 ad Avignonnet due inquisitori domenicani, Arnaud Guilhelm de Montpellier e Étienne de Narbonne, vengono attaccati e massacrati insieme a tutto il loro seguito. Come rappresaglia le forze crociate nell’estate del 1243 attaccano Montségur. L’assedio dura quasi un anno: nel marzo 1244 dei mercenari baschi riescono a scalare il precipizio sotto la Roc de la Tour e piazzando una catapulta bombardano anche l’interno del castello. Gli assediati si arrendono e vengono poste le condizioni della resa: chi abiurerà avrà salva la vita, chi rifiuta sarà bruciato sul rogo.
Secondo una leggenda durante l’ultima notte quattro perfetti si allontanano dalla fortezza portando al sicuro il leggendario tesoro dei catari.

Castello di Montségur

All’alba di mercoledì 16 marzo 1244 arriva la resa dei conti: 222 persone si rifiutano di abiurare e vengono arse vive ai piedi della rocca. Il prato dove viene eretto il rogo sarà ribattezzato Pratz dels crematz: prato dei bruciati.

“Ecco l’ora dei corvi
Sulla strada di Montferrier
Ecco l’ora dei corvi
Grande fiume, nero carnaio
del Papa la grande armata
del Re di Francia ribaldi
di Domenico i porci
Amen, amen, Dies Irae!”

(Arnaldo Casali, da www.festivaldelmedioevo.it)

 

Una frase al giorno

“Nessuno è chiamato a scegliere tra l'essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo”.

(Aldo Romeo Luigi Moro. Maglie, 23 settembre 1916 - Roma, 9 maggio 1978)

Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978

Politico, accademico e giurista italiano, Aldo Moro fu cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri, segretario politico e presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana. Tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, ne divenne segretario (1959). Fu più volte ministro; come presidente del Consiglio guidò diversi governi di centro-sinistra (1963-68), promuovendo nel periodo 1974-76 la cosiddetta strategia dell'attenzione verso il Partito Comunista Italiano. Fu rapito il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo dalle Brigate Rosse.

Un film di Gianluca Maria Tavarelli (Italia, 2008) con Michele Placido, Marco Foschi, Libero de Rienzo, Donatella Finocchiaro:

  • Aldo Moro - il presidente (Parte 1)
  • Aldo Moro - il presidente (Parte 2)

Alla fine degli anni Settanta le Brigate Rosse stanno tramando un nuovo obiettivo da colpire, il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro (Michele Placido). Il 16 marzo 1978 la banda delle Brigate Rosse passa all'attacco. I terroristi rapiscono Aldo Moro e uccidono tutti gli uomini della sua scorta. Lo statista passa 55 giorni sotto sequestro e il 9 maggio 1978 viene ritrovato morto a Roma in Via Caetani in un bagagliaio di una Renault 4.

Michele Placido in

16 marzo 1978: l'ex primo ministro italiano Aldo Moro viene rapito (successivamente viene assassinato dai suoi rapitori.)

 

Un brano al giorno

Giovanni Battista Pergolesi: Concerto per flauto in Sol maggiore. James Galway / I Solisti Veneti

Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi (Jesi, 4 gennaio 1710 - Pozzuoli, 16 marzo 1736) Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi (Jesi, 4 gennaio 1710 - Pozzuoli, 16 marzo 1736) è stato un compositore, organista e violinista italiano di opere e musica sacra dell'epoca barocca.

“Studiò nel conservatorio napoletano dei Poveri di Gesù Cristo con F. Durante e F. Feo. Esordì come compositore nel 1731 con gli oratori La morte di s. Giuseppe e La conversione di Guglielmo d'Aquitania, cui fece seguito la prima opera seria Salustia. Fu poi maestro di cappella (1732-34) del principe Ferdinando Colonna di Stigliano e si dedicò alla composizione di cantate e musiche strumentali. Svolse contemporaneamente un'intensa attività teatrale, in cui meglio poterono manifestarsi i doni del suo genio musicale. Risale infatti a questo periodo la sua prima commedia musicale in dialetto napoletano, Lo frate 'nnammorato (1732), alla quale seguì l'anno successivo l'intermezzo comico La serva padrona. Quest'ultimo, universalmente riconosciuto come il capolavoro pergolesiano, fu destinato a rivoluzionare l'intera tradizione del teatro in musica ed ebbe un'influenza determinante sulla nascita e lo sviluppo dell'opera comica francese, allorché fu rappresentato dalla compagnia di E. Bambini (1752) sulle scene parigine, scatenando la celebre Querelles des bouffons. In quest'operina (inserita come intermezzo tra gli atti del Prigionier superbo), cui è legata, insieme allo Stabat Mater, la fama di P., si può cogliere tutta l'originale e personalissima efficacia inventiva dell'ispirazione pergolesiana; e il breve intermezzo assurse ben presto a simbolo stesso dell'opera comica italiana, non tanto per particolari innovazioni di carattere formale, quanto per la delicata e briosa struttura del disegno melodico, caratterizzato da motivi brevi, di immediato e naturalissimo effetto, da una sorprendente varietà ritmica in un mirabile equilibrio tra musica e parola. Nell'apparente semplicità dei mezzi espressivi, tale equilibrio sostiene il gioco sentimentale dei personaggi inseriti in una cornice quanto mai lieve e sottilmente delineata, e rappresentati dall'autore con una caratterizzazione psicologica di ineguagliata varietà di espressione. Anche nelle opere serie di P., se pur legate agli schemi tradizionali, si avverte qua e là, con non minore novità d'accenti, una vena sentimentale che dimostra d'aver superato le istanze razionalistiche e arcadiche. Opera di grande vigore espressivo e ultima in ordine di tempo nella parabola artistica di P. è lo Stabat Mater, splendido esempio di penetrazione psicologica e purezza stilistica. Colpito dalla tisi, si ritirò (1735) nel convento dei francescani a Pozzuoli. Colà morì il 16 marzo 1736. La fortuna di P. fu tale che solo studi piuttosto recenti hanno potuto fare il punto sulle opere sicuramente sue, separandole da quelle spurie. Della sua produzione teatrale si ricordano ancora le opere serie Adriano e Siria (1734) e Olimpiade (1735), l'intermezzo Livietta e Tracollo (1734), l'opera buffa Flaminio (1735), oltre a una vasta produzione di musica religiosa, sonate e concerti per vari strumenti.”

(Treccani)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k