L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
ELEGIYA DOROGI (Elegia di un viaggio, Francia, Russia, Olanda, 2001), regia di Aleksandr Sokurov. Sceneggiatura: Aleksandr Sokurov, Alexandra Tuchinskaya. Fotografia: Aleksandr Degtyaryov. Montaggio: Sergej Ivanov. Musica composta da: Gustav Mahler, Michail Ivanovič Glinka, Sergey Snimki.
“Il film è la trasposizione di un sogno: per quasi tutta la durata vediamo con gli occhi del protagonista, mentre in alcune scene lo vediamo di schiena. Egli si viene a trovare in diversi ambienti e situazioni, e sentiamo la sua voce che commenta e riflette su ciò che accade. Inizialmente ci si trova in un ambiente invernale, poi in una chiesa dove avviene un battesimo, in seguito su una nave. Poi il protagonista incontra in un bar un uomo che gli racconta una sua esperienza e gli parla del suo modo di vedere la vita. Infine ci si ritrova in un edificio vuoto e buio ai cui muri sono appesi dei quadri: osservandoli, il nostro uomo fa riflessioni sull'arte, sulla vita, e sul passare del tempo”.
(Wikipedia)
“Si può dire che dobbiamo a Sokurov l’introduzione nel cinema di un nuovo genere, l’elegia. Termine preso dalla poesia antica, ricontestualizzato nell’ambito cinematografico esso pare realizzarsi in una sorta di “poema visivo” in cui le immagini e la musica, i silenzi e le poche e pesate parole si susseguono, accompagnano e rincorrono con delicatezza e talora con ardore, guidando lo spettatore in un viaggio interiore attraverso la realtà e i suoi significati reconditi. Secondo le parole del critico Marco Müller, le opere di Sokurov sono “una lotta senza quartiere contro la distrazione”, nelle quali l’autore chiede al suo pubblico un’attenzione e un’attivazione delle proprie percezioni che sono decisamente insolite. Ogni momento delle sue pellicole ha una profondità che per certi aspetti rimarrà sempre parzialmente intuibile e parzialmente imperscrutabile. “Il visibile e l’udibile sono per lui - Sokurov - sempre un rinvio ad altro, a qualcos’altro”. Evidentemente, le radici lontane di questo nuovo genere cinematografico sono nel genio tarkovskijano: basti pensare ad alcuni momenti de “Lo specchio”, la più autobiografica delle opere del grande regista russo. Vi proponiamo ora una “lettura” di Elegia di un viaggio, dove la dimensione - per se stessa transitoria - del viaggio si unisce a quella atemporale della letteratura e dell’arte dei secoli passati. In questa elegia vedremo che sensibilità e tradizione russa si incontrano con la letteratura e la tradizione europea; l’incontro non elimina il conflitto causato dalla diversità delle due diverse tradizioni, ma anzi lo risolve in uno “sposalizio” più profondo, reso possibile dallo sguardo sapiente dell’unico protagonista - longa manus del regista - che ci accompagna attraverso tutta la visione.
L’unità dei contrari
“Arrivo a una radura. Per chi tanta bellezza? Nessuno per vederla. Dunque era ancora più bella. Solitudine perfetta. Cosa sono questi occhi? Chi è Colui che mi guarda?”. Presenza e assenza, vicinanza e lontananza, visibile e invisibile, superficie e profondità, passato e presente, memoria e avvenimento: tutte categorie antitetiche che in questa elegia si dissolvono continuamente l’una nell’altra, si confondono, scambiano, separano e ricongiungono. Quasi a dire che in fondo, al fondo della realtà, nella verità ultima delle cose, ciò che è assente è in qualche modo presente. Ciò che è passato, accaduto e concluso in qualche modo sta accadendo ora. Ciò che è lontano, impalpabile e invisibile è in qualche modo vicino, percepibile, intimo e familiare: “Solitudine perfetta. Cosa sono questi occhi? Chi è Colui che mi guarda?”. A quanto pare la solitudine è tanto più perfetta quanto più è pervasa da una presenza vicina che mi guarda, che guarda me, ora”.
(Cecilia Benassi, 28.10.13 24 Fotogrammi)
Il film:
- Elegiya dorogi (2001) [SUB ITA]
- Elegiya dorogi
Una poesia al giorno
Le meilleur moment des amours (L'istante più bello degli amori), di René Francois Armand Prudhomme, detto Sully Prudhomme (Parigi, 16 marzo 1839 - Châtenay-Malabry, 6 settembre 1907. È stato un poeta francese, il primo a ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1901)
L’istante più bello degli amori
non è quando si dice ti amo
è nel silenzio
ogni giorno spezzato a metà
è nelle intese
pronte e furtive dei cuori
nei finti rigori
nelle indulgenze segrete
nel brivido di un braccio
dove poggia una mano che trema;
nel libro sfogliato insieme,
un libro mai letto
nell’ora irripetibile quando con la bocca chiusa
il pudore dice tanto
e il cuore scoppia
aprendosi in silenzio come un bocciolo di rosa
l’ora in cui il mero profumo dei capelli
sembra un regalo conquistato...
l’ora della tenerezza squisita
che nel rispetto avvolge la passione.
Le meilleur moment des amours
N'est pas quand on a dit : «Je t'aime.»
Il est dans le silence même
À demi rompu tous les jours;
Il est dans les intelligences
Promptes et furtives des cœurs;
Il est dans les feintes rigueurs
Et les secrètes indulgences;
Il est dans le frisson du bras
Où se pose la main qui tremble,
Dans la page qu'on tourne ensemble
Et que pourtant on ne lit pas.
Heure unique où la bouche close
Par sa pudeur seule en dit tant;
Où le cœur s'ouvre en éclatant
Tout bas, comme un bouton de rose;
Où le parfum seul des cheveux
Parait une faveur conquise!
Heure de la tendresse exquise
Où les respects sont des aveux
”Sully-Prudhomme, scrittore francese, nato a Parigi il 16 maggio 1839, morto a Châtenay il 7 settembre 1907, fu, sul declinare dell'Ottocento, uno dei poeti più letti e ammirati dal pubblico letterario di tutt'Europa; il più popolare degl'impopolari parnassiani.
È interessante rilevare che i suoi studî giovanili furono prevalentemente scientifici, e che, prima di giungere alla letteratura, egli credette d'aver trovato la sua via negl'impieghi industriali e perfino nella pratica notarile. Il favore di pubblico e di critica con cui fu accolto il suo primo volume, Stances et Poèmes (1865), lo indusse a tentare con maggiore impegno la poesia, insistendo sui temi e sui procedimenti che subito gli avevano dato una certa fama, autorizzata dal giudizio di Sainte-Beuve. Allora, benché fosse per varî aspetti assai diverso dai parnassiani ufficiali, s'accostò ad essi, pubblicando presso il loro editore (il Lemerre) Les Épreuves, Croquis italiens (1866) e Les Solitudes (1869). Fino a questo punto il Prudhomme è poeta di vena sottile: immaginazione modesta, sensibilità delicata, pronta a vibrare per un nulla, pensiero chiaro ma vago. È un genuino poëta minor, che dal suo cantuccio d'ombra canta con sommessa voce la sua vita intima, fatta di sensazioni minute e acute, di sentimenti teneri e timidi, d'inquiete meditazioni sul mistero dell'uomo e dell'universo. Il famoso Vase brisé è il componimento tipico, se non il capolavoro, di questo primo Prudhomme, che ha effettivamente un suo tono e un suo accento; romantico senz'enfasi e parnassiano senza pedanteria. Ma già in questo tempo, per sfuggire al pericolo della facilità e alla taccia di leggerezza, egli s'era messo a tradurre Lucrezio (Le premier livre de Lucrèce, 1866), il cui ateismo coraggioso e triste trovava profonda rispondenza nel suo spirito. O forse egli sentiva inconsciamente che quella sua esigua vena sentimentale e meditativa si sarebbe presto esaurita; e però cercava altri motivi e modi, illudendosi di salire ad maiora. Tra il 1872 e il 1888 appaiono Les Destins, La France, Les Vaines Tendresses, La Justice, Le Prisme, Le Bonheur: liriche e poemi d'alte ambizioni ma di corto respiro. Egli non canta più gli amori silenziosi, gli oscuri affetti, i paurosi smarrimenti dell'anima davanti all'inconoscibile; esalta invece le "merveilleuses conquêtes de la science et les hautes synthèses de la spéculation moderne", descrivendo ingegnosamente il barometro, il parafulmine, la tavola pitagorica, esponendo le credenze metafisiche dei varî tempi, la dottrina positivista, la morale stoica, e perfino il problema della quadratura del circolo. Didattico ed eloquente, questo secondo Prudhomme somiglia ben poco al primo: la sovrabbondanza verbale soffoca la commozione nascente, anche nei passi meno infelici; il verso, per confessione del poeta stesso, non ha più che un ufficio ausiliario ("un bercement sublime est utile au penseur" e, d'altra parte, può benissimo stare a sé, senza poesia ("l'art des vers n'est pas toujours consacré à l'expression de la poésie"). Il tramonto del poeta, accademico di Francia dal 1881 e insignito del premio Nobel nel 1901, fu attristato dall'abbandono del pubblico, che doveva necessariamente uggirsi leggendo quei suoi macchinosi poemi, e dall'allegro dispregio dei simbolisti, intesi a restaurare, contro il Parnasse filosofico e calligrafico, i puri valori lirici.”
(Diego Valeri, Enciclopedia Italiana (1936) Treccani)
Un fatto al giorno
16 marzo 1244: oltre 200 catari vengono bruciati dopo la caduta di Montségur.
“Lasciatemi raccontare la storia
Di un sangue bevuto dalla mia terra
Lasciatemi raccontare la storia
Di una volontà di ferro
Di una gioventù passata
Di una libertà voluta
Del vecchio sogno disperato
Di una libertà perduta”.
Così recitano le parole di una canzone scritta nel 1972 dal cantante occitano Claude Marti.
“Cinquecento eravate a Montségur / Sapendo ciò che vuol dire vivere / Cinquecento eravate a Montségur / Certo siete dietro l’azzurro”.
Erano in cinquecento, il 16 marzo 1244 a Montségur, ma ne sopravviveranno appena la metà: oltre duecento, infatti, finiranno arsi sul rogo nella più grande strage di eretici mai compiuta dalla Chiesa cattolica; l’atto finale di una guerra durata cinquant’anni, che segnerà anche la fine dell’indipendenza politica e culturale dell’Occitania dalla Francia.
Erano albigesi, quei cinquecento, ovvero catari: la più celebre e popolare eresia del Medioevo, contro cui papa Innocenzo III ha lanciato una vera e propria crociata, l’unica indetta da cristiani contro altri cristiani. Il catarismo affonda le sue radici nei primissimi secoli del cristianesimo: già i discepoli di Novaziano, nel III secolo, si autodefinivano catari, ovvero “puri”, ma è nel XII secolo ad Albi, in Occitania, che nasce il fenomeno destinato a segnare l’intera storia religiosa medievale.
Sotto il profilo teologico, l’eresia catara è caratterizzata da un radicale dualismo che contrappone bene e male, luce e tenebre, spirito e materia. Anche il divino è diviso in due: esiste un Dio malvagio, che è il Creatore del mondo e spinge l’uomo verso l’esistenza materiale; ed esiste un Dio buono, che ne è il redentore attraverso la figura di Gesù Cristo, che a sua volta non è un vero uomo, ma un angelo apparso in sembianze umane per liberare l’umanità dal dominio della materia.
L’obiettivo del cristiano è quello di liberarsi progressivamente da tutto ciò che è materiale per elevarsi verso il divino attraverso lo spirito. I catari considerano malvagio e diabolico, dunque, tutto quello che è espressione della corporeità, a partire da cibo e sesso, e arrivano a praticare il suicidio rituale come estremo atto di liberazione dal proprio corpo.
Ovviamente la Chiesa di Roma, ricca e corrotta, viene rifiutata e sconfessata dalla dottrina catara, che struttura una vera e propria Chiesa parallela con istituzioni che si pongono in diretta competizione con quelle cattoliche riscuotendo grande successo, soprattutto tra le classi sociali più umili.
La complessa elaborazione teologica degli albigesi, infatti, rimane in secondo piano - nella visione popolare - rispetto alla povertà evangelica praticata dai suoi adepti. I “perfetti” (ovvero il livello più alto che possono raggiungere gli iniziati) rinunciano ad ogni proprietà e vivono unicamente di elemosina, oltre a praticare la castità. Naturale, quindi, che vincano ogni sfida con i preti cattolici, che sono tutt’altro che un esempio di santità e distacco mondano.
Sotto questo profilo gli albigesi non fanno che raccogliere l’eredità dei patarini e dei valdesi, ma anche dello stesso movimento francescano. In tutti e tre i casi si tratta di movimenti pauperistici che si contrappongono alla corruzione della Chiesa romana. Ma se il francescanesimo rappresenta proprio la risposta cattolica agli eretici, patarini e valdesi pur contestando la Chiesa sotto il profilo teologico si mantenevano assolutamente ortodossi (i valdesi si allontaneranno dalla dottrina cattolica solo nel XVI secolo, aderendo alla Riforma protestante). Quella catara diventa quindi la più insidiosa delle eresie dai tempi degli ariani, perché attira i fedeli puntando il dito contro la corruzione della Chiesa ma a differenza di patarini e valdesi che si accontentavano di una riforma morale, mira a stravolgerne completamente la teologia. (...) Il castello di Monstégur era stato costruito nel 1204 sotto la direzione di Raymond de Péreille, signore del luogo, come estremo rifugio per gli albigesi. Col proseguire della crociata e la caduta dei centri di resistenza catara, la fortezza aveva rivestito sempre più importanza, tanto da essere additata nel 1233 dal clero cattolico come “Sinagoga di Satana”.
Sotto la spinta dell’inquisizione affidata a francescani e domenicani, tutte le chiese catare del sud di Francia hanno cessato praticamente ogni attività e i sopravvissuti si sono dati alla clandestinità o sono fuggiti. In questo quadro il vescovo cataro Guilhabert di Castres chiede e ottiene protezione nella rocca di Montségur.
L’arrivo del Vescovo trasforma radicalmente la vita del villaggio e della fortezza, che diventa un punto di riferimento anche per tutti i feudatari catari e i loro cavalieri cacciati dai possedimenti, che iniziano ad utilizzare la rocca come base per azioni di guerriglia contro i crociati cristiani. Raymond de Péreille viene scomunicato, con conseguente confisca di tutti i beni e si unisce agli abitanti della rocca.
Nel 1242 ad Avignonnet due inquisitori domenicani, Arnaud Guilhelm de Montpellier e Étienne de Narbonne, vengono attaccati e massacrati insieme a tutto il loro seguito. Come rappresaglia le forze crociate nell’estate del 1243 attaccano Montségur. L’assedio dura quasi un anno: nel marzo 1244 dei mercenari baschi riescono a scalare il precipizio sotto la Roc de la Tour e piazzando una catapulta bombardano anche l’interno del castello. Gli assediati si arrendono e vengono poste le condizioni della resa: chi abiurerà avrà salva la vita, chi rifiuta sarà bruciato sul rogo.
Secondo una leggenda durante l’ultima notte quattro perfetti si allontanano dalla fortezza portando al sicuro il leggendario tesoro dei catari.
All’alba di mercoledì 16 marzo 1244 arriva la resa dei conti: 222 persone si rifiutano di abiurare e vengono arse vive ai piedi della rocca. Il prato dove viene eretto il rogo sarà ribattezzato Pratz dels crematz: prato dei bruciati.
“Ecco l’ora dei corvi
Sulla strada di Montferrier
Ecco l’ora dei corvi
Grande fiume, nero carnaio
del Papa la grande armata
del Re di Francia ribaldi
di Domenico i porci
Amen, amen, Dies Irae!”
(Arnaldo Casali, da www.festivaldelmedioevo.it)
- Una canzone: "Montsegur", di Claude Marti dall'album "çò milhor de Marti"
- Immagini: Il massacro dei catari - "Uccideteli tutti..."
Una frase al giorno
“Nessuno è chiamato a scegliere tra l'essere in Europa e nel Mediterraneo, poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo”.
(Aldo Romeo Luigi Moro. Maglie, 23 settembre 1916 - Roma, 9 maggio 1978)
Politico, accademico e giurista italiano, Aldo Moro fu cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri, segretario politico e presidente del consiglio nazionale della Democrazia Cristiana. Tra i fondatori della Democrazia cristiana e suo rappresentante alla Costituente, ne divenne segretario (1959). Fu più volte ministro; come presidente del Consiglio guidò diversi governi di centro-sinistra (1963-68), promuovendo nel periodo 1974-76 la cosiddetta strategia dell'attenzione verso il Partito Comunista Italiano. Fu rapito il 16 marzo 1978 e ucciso il 9 maggio successivo dalle Brigate Rosse.
- Immagini: Aldo Moro, il grande tessitore
- Aldo Moro: il discorso di Napoli del 1962 e la nascita del centrosinistra
Un film di Gianluca Maria Tavarelli (Italia, 2008) con Michele Placido, Marco Foschi, Libero de Rienzo, Donatella Finocchiaro:
Alla fine degli anni Settanta le Brigate Rosse stanno tramando un nuovo obiettivo da colpire, il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro (Michele Placido). Il 16 marzo 1978 la banda delle Brigate Rosse passa all'attacco. I terroristi rapiscono Aldo Moro e uccidono tutti gli uomini della sua scorta. Lo statista passa 55 giorni sotto sequestro e il 9 maggio 1978 viene ritrovato morto a Roma in Via Caetani in un bagagliaio di una Renault 4.
16 marzo 1978: l'ex primo ministro italiano Aldo Moro viene rapito (successivamente viene assassinato dai suoi rapitori.)
Un brano al giorno
Giovanni Battista Pergolesi: Concerto per flauto in Sol maggiore. James Galway / I Solisti Veneti
Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi (Jesi, 4 gennaio 1710 - Pozzuoli, 16 marzo 1736) è stato un compositore, organista e violinista italiano di opere e musica sacra dell'epoca barocca.
“Studiò nel conservatorio napoletano dei Poveri di Gesù Cristo con F. Durante e F. Feo. Esordì come compositore nel 1731 con gli oratori La morte di s. Giuseppe e La conversione di Guglielmo d'Aquitania, cui fece seguito la prima opera seria Salustia. Fu poi maestro di cappella (1732-34) del principe Ferdinando Colonna di Stigliano e si dedicò alla composizione di cantate e musiche strumentali. Svolse contemporaneamente un'intensa attività teatrale, in cui meglio poterono manifestarsi i doni del suo genio musicale. Risale infatti a questo periodo la sua prima commedia musicale in dialetto napoletano, Lo frate 'nnammorato (1732), alla quale seguì l'anno successivo l'intermezzo comico La serva padrona. Quest'ultimo, universalmente riconosciuto come il capolavoro pergolesiano, fu destinato a rivoluzionare l'intera tradizione del teatro in musica ed ebbe un'influenza determinante sulla nascita e lo sviluppo dell'opera comica francese, allorché fu rappresentato dalla compagnia di E. Bambini (1752) sulle scene parigine, scatenando la celebre Querelles des bouffons. In quest'operina (inserita come intermezzo tra gli atti del Prigionier superbo), cui è legata, insieme allo Stabat Mater, la fama di P., si può cogliere tutta l'originale e personalissima efficacia inventiva dell'ispirazione pergolesiana; e il breve intermezzo assurse ben presto a simbolo stesso dell'opera comica italiana, non tanto per particolari innovazioni di carattere formale, quanto per la delicata e briosa struttura del disegno melodico, caratterizzato da motivi brevi, di immediato e naturalissimo effetto, da una sorprendente varietà ritmica in un mirabile equilibrio tra musica e parola. Nell'apparente semplicità dei mezzi espressivi, tale equilibrio sostiene il gioco sentimentale dei personaggi inseriti in una cornice quanto mai lieve e sottilmente delineata, e rappresentati dall'autore con una caratterizzazione psicologica di ineguagliata varietà di espressione. Anche nelle opere serie di P., se pur legate agli schemi tradizionali, si avverte qua e là, con non minore novità d'accenti, una vena sentimentale che dimostra d'aver superato le istanze razionalistiche e arcadiche. Opera di grande vigore espressivo e ultima in ordine di tempo nella parabola artistica di P. è lo Stabat Mater, splendido esempio di penetrazione psicologica e purezza stilistica. Colpito dalla tisi, si ritirò (1735) nel convento dei francescani a Pozzuoli. Colà morì il 16 marzo 1736. La fortuna di P. fu tale che solo studi piuttosto recenti hanno potuto fare il punto sulle opere sicuramente sue, separandole da quelle spurie. Della sua produzione teatrale si ricordano ancora le opere serie Adriano e Siria (1734) e Olimpiade (1735), l'intermezzo Livietta e Tracollo (1734), l'opera buffa Flaminio (1735), oltre a una vasta produzione di musica religiosa, sonate e concerti per vari strumenti.”
(Treccani)
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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