“L’amico del popolo”, 18 giugno 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DET SJUNDE INSEGLET (Il settimo sigillo, Svezia,1957), scritto e diretto da Ingmar Bergman, trasposizione cinematografica della pièce teatrale “Pittura su legno” (Trämålning) che lo stesso Bergman aveva scritto nel 1955 per la sua compagnia di attori teatrali. Fotografia: Gunnar Fischer. Montaggio: Lennart Wallén. Musiche: Erik Nordgren. Con: Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot, Nils Poppe, Max von Sydow, Bibi Andersson, Inga Gill, Maud Hansson, Inga Landgré, Gunnel Lindblom, Bertil Anderberg, Anders Ek, Åke Fridell, Gunnar Olsson, Erik Strandmark, Ulf Johansson, Lars Lind, Gudrun Brost, Benkt-Åke Benktsson.

Antonius Block, nobile cavaliere svedese, che recatosi come crociato in Terrasanta, vi ha passato dieci anni della sua vita, ritorna ora nel suo Paese. Sbarcato sulla spiaggia svedese, trova ad attenderlo la Morte, che ha scelto questo momento per portarselo via; ma Antonius, che durante gli anni vissuti in Terrasanta, tra battaglie cruente e lotte intime, ha sentito vacillare la propria fede, non vorrebbe morire prima di aver superato la crisi spirituale che lo travaglia. Egli propone quindi alla Morte di giocare con lui una partita a scacchi: sarà pronto a seguirla nel momento in cui dovrà dichiararsi vinto. S'inizia la partita e tra una mossa e l'altra il cavaliere continua il viaggio verso il suo castello. Inoltrandosi nel Paese, Antonius si rende conto delle desolate condizioni in cui si trova la Svezia: infuria infatti una terribile pestilenza che distrugge interi villaggi. Gli uomini in preda alla disperazione, incerti della vita, timorosi del futuro, si abbandonano alle violente pratiche dei flagellanti o cercano di spremere dall'attimo fuggente la maggior dose di piacere inebriante. In mezzo a queste diverse esaltazioni, Antonius scopre una piccola famiglia di attori girovaghi, composta da padre, madre ed un bimbo: questi esseri, sorretti da un sincero sentimento di reciproco affetto, sembrano estranei alla tragedia che coinvolge tutti gli altri. Prosegue intanto la partita a scacchi, e Antonius Block, incalzato dalla Morte, giocatrice implacabile, e dagli eventi, finisce per perderla. Ma fa in tempo ad allontanare da sé, e quindi dalla Morte, l'innocente famiglia degli attori e a rivedere la sua donna, che lo ha atteso fedelmente nel castello. Antonius, che si è reso conto degli errori e dei peccati commessi e se n'è pentito, si abbandona fiducioso alla misericordia divina.

“Il cinema di Ingmar Bergman è sempre stato caratterizzato da spietate quanto laceranti introspezioni dei rapporti personali, spesso familiari, sovente coniugali. Un’atomizzazione dei sentimenti, una scarnificazione quasi materiale dell’immateriale espressa e rappresentata in un contesto che affonda le radici nella cultura luterana del peccato, della confessione, della punizione, del perdono e della grazia, quella cultura di cui era austero esponente il pastore Erik, padre del cineasta, che ha profondamente segnato la sua educazione. Il cinema di Bergman è però al tempo stesso molto fisico nella sua sensualità, nella sua materialità dei corpi, perfino nella sua crudezza esistenziale, nella solitudine e nel tormento spirituale. Tematiche che lo stesso Bergman sviluppa nella stesura delle sceneggiature, spesso a forte impianto teatrale, e poi esalta col suo stile cinematografico asciutto, di intensi primi piani. La parola per Bergman, artista che si è formato in teatro, è importante quanto l’immagine. Parole, frasi e a volte significati che la morale cattolica italiana non sempre ha condiviso, ma anziché prenderne le distanze sguinzagliando i suoi critici militanti e dando così voce al proprio dissenso ha preferito agire radicalmente censurando scene e sequenze, modificando frasi e situazioni appositamente tradotte per un pubblico ignaro. Nel Settimo sigillo, per esempio, la canzone medioevale intonata dallo scudiero ha questi versi: “Tra le gambe di una troia / è la vita una gran gioia. / In alto siede l’Onnipotente / così lontano che è sempre assente / mentre il Diavolo suo fratello / lo trovi anche al tuo cancello”. Nella versione italiana le strofe diventano: “E’ stanco il cavaliere / è stanco lo scudiero / ma il cavaliere è fiero / e ammetterlo non può. / Ei sogna di pranzare / bere e poi dormire / però non lo vuol dire o forse non lo può”.

(Goffredo de Pascale articolo completo in “Bergman Collection senza censura - Golem Informazione”)

“Qualche volta, da bambino, mi fu permesso di accompagnare mio padre al lavoro. Predicava nelle piccole chiese dei paesi intorno a Stoccolma. Erano viaggi festosi e festivi, fatti in bicicletta attraverso un panorama primaverile. Mio padre mi insegnava i nomi di fiori, degli alberi e degli uccelli. Passavo il giorno senza essere disturbato dal mondo intorno a me. Per un piccolo il sermone è soltanto una questione da adulti. Mentre mio padre predicava dal pulpito e la congregazione pregava e cantava anch'essa, io dedicavo, invece, il mio interesse al mondo misterioso della chiesa fatta di archi bassi e muri spessi. Ero rapito dall'eternità. La luce del sole colorata vibrava sopra i dipinti medievali e le figure intagliate su muri e soffitti. C'era tutto quello che una fervida immaginazione poteva desiderare: angeli, santi, dragoni, profeti, diavoli, creature umane. C'erano animali che incutevano molto paura: serpenti in Paradiso, l'asino di Balaam, la balena di Jonah, l'aquila della Rivelazione. Tutto circondato da un panorama paradisiaco, insieme terreno e sotterraneo, fatto di un strano miscuglio eppure dalla familiare bellezza. Su uno scranno sedeva la Morte, che giocava agli scacchi con un Crociato. La stessa Morte che afferrava il ramo di un albero, dov'era seduto un uomo nudo con occhi sbarrati. Ancora, attraverso dolci colline la Morte conduceva il ballo finale verso le terre che ci sono oscure. In un altro arco la Vergine Santa entrava in un giardino rosa, sostenendo i passi esitanti del Bambino e le sue mani erano quelle della donna di un contadino. La sua faccia era grave e gli uccelli starnazzavano intorno alla sua testa. I pittori medievali avevano ritratto tutto questo con grande tenerezza, abilità e gioia. Tutto questo mi aveva trasportato in un mondo spontaneo e allettante, e quel mondo divenne davvero come il mondo di ogni giorno con mio padre, mia madre e fratelli e sorelle. D'altra parte mi difendevo contro il dramma ritratto sul crocifisso nel coro e nel presbiterio. La mia mente fu sopraffatta dalla crudeltà e dalla sofferenza estrema di quella scena. Fino a quando molto più tardi fede e dubbio sono diventati i miei compagni di viaggio. Era ovvio che finissi per dare forma alle esperienze della mia infanzia. Vi sono stato, quasi, costretto, per esprimere il dilemma universale. La mia intenzione è sempre stata “dipingere” nello stesso modo del pittore di quella chiesa medievale, con lo stesso interesse obiettivo, con la stessa tenerezza e gioia. La risata degli esseri umani, il loro pianto, l'ululato della paura, i giochi, la sofferenza, il loro terrore della piaga, del giorno del Giudizio Universale, della stella il cui nome è Assenzio. La nostra paura può essere di generi diversi, ma le parole per descriverla sono sempre le stesse...e i nostri quesiti universali permangono. La nostra domanda rimane”.

(Ingmar Bergman)

“Anteriore sia a Il posto delle fragole sia a Il volto, Il settimo sigillo appare già improntato alla stessa tematica cui Bergman dedicherà poi quelle sue successive opere. Protagonista di esse è sempre, in varia veste, l’uomo moderno, sconvolto dalla profonda crisi intellettuale e morale provocata dal crollo delle religiosità tradizionali, incapace di acquietarsi nell’aridità dello scetticismo, malcontento delle elusive risposte che la scienza può dare ai suoi interrogativi, ma sempre restio ad ammettere che i valori umani non possono essere riconosciuti altrove se non nell’esistenza stessa: nell’esistenza (dice Bergman) intesa come letizia, come amore, come universale solidarietà e fratellanza”.

(Vittorio Spinazzola, Cinema Nuovo)

DET SJUNDE INSEGLET (Il settimo sigillo, Svezia,1957), scritto e diretto da Ingmar Bergman

 

Una poesia al giorno

Il contadino nel tempo fradicio - Dalabóndinn í óþurrknum, di Jónas Hallgrímsson (1807-1845), poeta islandese

Hví svo þrúðgu þú
þokuhlassi
súldanorn
um sveitir ekur?
Þér man eg offra
til árbóta
kú og konu
og kristindómi.

Dea della pioggerella
che guidi i tuoi
carri di nebbia
lungo i miei campi!
Mandami un po’ di sole
e sacrificherò
la mia mucca, mia moglie
la mia cristianità!

Aurora, Dea della Luce
l’ombra del monte ricalca la tua forma.
M’inginocchio
mi riempio la bocca di neve
nel modo in cui si scioglie
vorrei sciogliermi anch’io
dentro di te.

 

Un fatto al giorno

18 giugno 1815. Una delle battaglie più importanti dell'epoca moderna si svolse al di fuori del villaggio belga di Waterloo. Le forze britanniche e prussiane sconfiggono definitivamente Napoleone. Una tesi: “Senza l’intervento in extremis dell’esercito prussiano la campagna napoleonica del Belgio si sarebbe conclusa negativamente per gli Inglesi. Certo, non si può dimenticare che senza l’accanita resistenza degli uomini di Arthur Wellesley, duca di Wellington, lo stesso Gebhard Leberecht von Blücher avrebbe subito una cocente disfatta. Ma prima dell’arrivo dei Prussiani, gli Inglesi non erano soli a Waterloo. L’esercito affidato alla guida del duca di Wellington contava circa 68.000 uomini per un totale di 31 brigate. Fra queste solo 10 erano britanniche, mentre 14 erano tedesche e 7 olandesi. Come è stato ampiamente dimostrato dagli storici, se si aggiunge a questo complesso di forze anche il contributo delle truppe prussiane si può concludere che ben tre quarti degli avversari di Napoleone sul campo di battaglia di Waterloo erano di nazionalità tedesca. Si potrebbe quindi concludere che Waterloo è stata una vittoria tedesca, ottenuta con il concorso di contingenti britannici, olandesi e belgi. Insomma, l’esercito di Wellington non era inglese, ma anglo-olandese, se non addirittura anglo-germano-olandese. Il regno-elettorato di Hannover schierava 16.000 uomini e il ducato di Brunswick ne allineava ben 6.800. Questi due eserciti erano stati ricostituiti dai rispettivi Stati subito dopo aver conquistato nuovamente l’indipendenza nel 1813.
I soldati dell’Hannover formavano da circa un secolo la punta di lancia dell’Inghilterra sul continente. Dopo che nel 1714 Giorgio II Augusto, Elettore di Hannover era diventato re di Gran Bretagna e d’Irlanda, un’unione personale delle due corone aveva permesso al governo di Londra di contare sul piccolo ma solidissimo esercito hannoveriano. Da quel momento, dalle guerre di Luigi XIV a quelle dell’Impero, passando per Fontenoy, una parte importante delle truppe inglesi era costituita dai soldati dell’Hannover, che indossavano divise molto vicine a quelle degli “abiti rossi” anglosassoni”.

(Articolo completo di Massimo Iacopi in Waterloo, Una Vittoria... tedesca - Storia in Network)

 

Una frase al giorno

“La fede è una pena così dolorosa! È come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto lo si invochi.”

(Ingmar Bergman)

 

Un brano al giorno

Il Cigno Bianco - An Eala Bhàn, di Julie Fowlis. La canzone, composta da Dòmhnall Ruadh Chorùna (Donald MacDonald di Coruna), poeta scozzese dal North Uist (isola e comunità delle Ebridi Esterne, in Scozia), mentre combatteva nelle trincee della Grande Guerra per il suo amore, Mhagaidh Nic Leòid (Maggie MacLeod), è eseguita da Julie Fowlis dall'album Dual, molto consigliato agli amanti della canzone e della cultura gaelica.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k