“L’amico del popolo”, 2 ottobre 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DZIEJE GRZECHU (Storia di un peccato, Polonia, 1975), regia di Walerian Borowczyk. Tratto dal romanzo dello scrittore polacco Stefan Zeromskj. Sceneggiatura: Walerian Borowczyk. Fotografia: Zygmunt Samosiuk. Montaggio: Lidia Pacewitz. Musiche: Johann Pachelbel, Felix Mendelssohn Con: Irena Burawska, Jadwiga Chojnacka, Diavolo, Grazyna Dlugolecka, Barbara Dembinska, Wladyslaw Hancza, Sofia Gienieczko, Zbigniew Koczanowicz, Eugeniusz Korczarowski, Maria Kowalik, Ewa Jez, Tomasz Lengren, Karolina Lubienska, Olgierd Lukaszewicz, Henryk Hunko, Paul Arenkes, Piotr Augustyniak, Marek Bargielowski, Jan Piechocinski, Maria Robaszkiewicz, Thea Schmidt-Keune, Jadwiga Siennicka, Jolanta Szemberg, Tadeusz Teodorczyk, Marek Walczewski, Stanislaw Tylczynski, Mieczyslaw Voit, Roman Wilhelmi, Janusz Zakrzenski, Zbigniew Zapasiewicz, Barbara Maszalek, Zdzislaw Mrozewski, Jerzy Zelnik, Bogdan Wisniewski.

A Varsavia, verso la fine del secolo scorso, Ewa Pobratynska si innamora di Lucas Niepolomski, scrittore in attesa di divorzio. Divenuto precettore dei figlio del conte Szczerbic, Lucas viene ferito dallo stesso in duello e si reca a Roma per meglio curare i propri interessi coniugali. Ewa, confusa e delusa, provoca a Roma, ove non trova l'amato (di cui in seguito verrà a sapere sia del divorzio, sia del nuovo felice matrimonio); con il nobile polacco passa a Montecarlo (ove inopinatamente vince una fortuna), a Vienna, in Svizzera. Ma viene derubata, ricattata e plagiata dal bandito Pochron che la costringe a uccidere il conte con il curaro a scopo di rapina. Dopo altre turbinose esperienze, Ewa si ritrova prostituta a Varsavia. Qui il Pochron la ingaggia per tentare su Lucas un'altra impresa assassina. Ma nella donna si risveglia il vecchio amore: il suo grido salva Lucas tra le cui braccia spira la disgraziata donna.

“Varsavia, ai primi del Novecento, Ewa Pobratynska (Grazyna Dlugolecka) si innamora del giovane scrittore Lukasz Niepolomski (Jerzy Zelnik). Sedotta, abbandonata e travolta da una lunga e sfortunata serie di eventi, in balìa di una schiera di uomini variamente interessati a lei, Ewa terminerà la sua parabola in giro per l'Europa (Roma, Berlino, Montecarlo, Vienna) prigioniera di due loschi individui senza scrupoli che la spingeranno al delitto e alla rapina. L'ultimo suo atto sarà però un estremo sacrifricio per salvare proprio Lukasz, l'unico uomo che abbia davvero amato.
Storia di un peccato segna il ritorno del controverso Walerian Borowczyk (Goto, I Racconti immorali, La bestia), da poco scomparso, in Polonia dopo anni passati in Francia, con un accurato melodramma in costume che rappresenta il suo capolavoro, grazie anche all'estrema raffinatezza formale. "Un racconto gonfio, turgido, sontuoso di scene maniacali e di feticismo raffinato" con sequenze straordinarie come quella dell'infanticidio messo in atto da Ewa, una vicenda di 'amour fou' esaltata dalla mobilità della macchina da presa, dall'utilizzo delle soggettive, da una perfetta aderenza delle scenografie e delle musiche”.

(Piero Di Domenico in mymovies.it)

“Ignorato per anni, bollato come mero pornografo o neanche, il mondo sembra accorgersi di Walerian Borowczyk solo nel 1975, anno di produzione de La storia del peccato, primo e praticamente unico film ad essere acclamato. Peccato che contemporaneamente egli firmi anche il maledetto La Bestia, che oltre a valanghe di censure segnerà anche l’inizio del suo declino (economico, beninteso). Che La storia del peccato, il solo ad essere girato nella cattolica e odiata Polonia, sia l’unico film a non imbarazzare le platee e ad essere posto sul piedistallo del cinema d’autore, titolo che a Boro fu raramente concesso, salvo poche eccezioni lungimiranti (i Cahiers, Filmcritica e pochi altri) sembra forse una questione puramente epidermica. Come a dire, meno centimetri di pelle si mostrano e più è probabile essere presi sul serio? Che il film sia insolitamente castigato per gli standard del regista, visti gli eccessi del suo contemporaneo, preceduto dai Racconti Immorali (ma a pensarci bene anche da Blanche, dove anche lì la carne era sacrificata all’eleganza anemica) è evidente. Al punto che qualche volenteroso distributore pensa bene di girare appositamente un inserto hard a base di petali di rose per risollevare un po’ il tono ingannando parecchi spettatori, compreso Moravia che su quei pochi minuti contraffatti sprecò fin troppe parole. Aldilà dell’ipocrita canonizzazione istantanea, poi subito ritirata, rimane un film che del genio di Boro ha ben poco, appesantito dalle pagine dense e melodrammatiche del romanzo di Zeromski da cui è tratto. Nulla manca alla formula, dall’amore febbrile e non consumato all’infanticidio, dalla prostituzione alla morte, tutto è presente come da prassi. Peccato che però nulla riesca a prendere davvero vita, una mancanza enorme da un Storia di un peccato, di Walerian Borowczyk regista che ha inciso il suo ingresso nel cinema animando oggetti ormai morti e informi. Ma come il più classico dei collezionisti ossessivi, questa vecchia mania ritorna costante, e a diventare i protagonisti sono libri, cartoline, lettere, lenti d’ingrandimento, soprammobili, quadri e tutto quell’arredamento soffocante che rende ogni stanza una piccola bara, a ricordare che il sesso ha sempre odore di morte. Durante l’amplesso tra i corpi dei due amanti si accumulano libri e pagine, stampe erotiche e reperti antropologici (la vergogna è solo un’invenzione, come i vestiti!), le figure umane si sdoppiano e sommergono l’inquadratura, scavalcano gli attori, anche loro hanno occhi e conducono la visione.
Ma rimane questo e poco altro di due ore di film che stentano a dire di più rispetto ad altri lavori del regista ben più riusciti. Rimane giusto Grazyna Dlugolecka, la Ewa protagonista del film, i suoi occhi sgranati che guardano più in là del dovuto, le lettere incollate al petto, il suo corpo seminascosto da lenzuola che sembrano schiuma marina, lo stesso corpo che si fa freddo nell’ultima inquadratura, la testa inerme stretta tra le mani dell’amato”.

(Renato Loriga in sentieriselvaggi.it)

“Con Storia di un peccato Borowczyk ha dato prova della propria maestria nel maneggiare realisticamente un materiale alquanto difficile, poiché già marchiato dall’etichetta del feuilletton. Il film è, infatti, la traduzione cinematografica dell’omonimo romanzo di Stefan Zeromski, polacco anch’egli, che l’aveva dato alle stampe, a puntate, su un giornale a grossa tiratura nel 1906. Se il romanzo, propriamente d’appendice, lascia piuttosto a desiderare per la sua carenza d’approfondimento psicologico, il film che ne ha fatto Borowczyk è di ben altra levatura. Piatto da buongustai, si potrebbe dire, se egli non avesse tralasciato buona parte della sua abilità di sceneggiatore e di scenografo allo scopo, assai evidente, di porre meglio in risalto attraverso la vicenda narrata una realtà in cui risvolti socio-psicologici diventano i cardini principali dell’intero impianto filmico. Raramente si è potuto vedere un gioiello di realismo quale Storia di un peccato. Per far questo, il regista si è infatti lasciato alle spalle - o perlomeno li ha accantonati - il gusto della sequenza impeccabile, il dialogo raffinato e tutti quegli elementi che rendono piacevole, nel senso di spettacolare, anche un film di piccolo o medio livello. Davvero esemplare, come spesso accade per questo autore, il comportamento della critica. Grazzini, in particolare, ha perfino commentato: “Portarsi il fazzoletto e prepararsi al peggio: alla misera fine d’una polacca del primo Novecento, sedotta, abbandonata e infanticida, e ad un’assemblea dei luoghi canonici del romanzo d’appendice”. Sinceramente, il critico del “Corriere della Sera” si è beccato un grosso granchio. Il film propone ed espone di tutto, tranne che “un’assemblea dei luoghi canonici del romanzo d’appendice” e, soprattutto, senza mai spingere all’uso del “fazzoletto”. Tutt’altro: il realismo del film, tutt’al più, può costringere qualche spettatore (o spettatrice) a serrarsi gli occhi di fronte alla crudezza di certe scene, così violente e dissacranti almeno quanto lo può essere la realtà in determinate circostanze. In più, Borowczyk si è avvalso di vari riferimenti allegorico-simbolici proprio per imprimere maggiore incisività contenutistica a quella che è stata la propria traduzione cinematografica del romanzo di Zeromski. La storia stessa, in effetti, si prestava ottimamente ad un intervento del genere ed il regista non s’è lasciata sfuggire l’occasione".

Forse più polemico e dissacratorio de I racconti immorali e de La bestia, Storia di un peccato è un ulteriore smembramento della mediocrità, della ferocia, dell’ipocrisia dei ceti piccolo e medio borghesi, musicalmente avvalorato, con gusto squisito, dalle irripetibili melodie di Mendelssohn e di Pchelbel. La vicenda vede come protagonista la giovane Eva, la quale assume il ruolo simbolico - e catartico - di una colpa che dovrebbe essere insita in quella sorta di “orgoglio” rappresentato dal cosiddetto “fiore del cristianesimo”, vale a dire della “verginità”. Una colpa che viene qui magistralmente riscattata tramite la rivolta e che, consequenzialmente, si scontra con le regole ed i codici della realtà, fino ad infrangersi e spezzarsi nell’inesorabilità della morte. La figura/emblema morte possiede peraltro tutte le caratteristiche rintracciabili nella repressione spinta fino alle estreme conseguenze, la quale, non rispettata, si vendica utilizzando tutti i mezzi a propria disposizione. In causa, ovviamente, si trovano lo sfruttamento socioeconomico, la proprietà privata con i suoi relativi lussi, l’alienazione e la frustrazione.
Il panico nei confronti del peccato e dell’infrazione diventa quindi la diretta documentazione dello scontro perennemente in atto tra impulsi naturali e condizione etico-sociale, cioè impulsi indotti. L’innamoramento di Eva per Luca costituisce, a livello simbolico, l’innamoramento della rivolta e, tramite essa, della libertà che vi è comunque intrinseca. Cosicché anche l’aborto - mostrato con scene di alto livello formale e realistico -, nel suo attuarsi quale rifiuto d’un condizionamento che indica tutto un complesso manipolo di capitolazioni e di compromessi, diviene atto liberatorio nei riguardi di una realtà castrante, a senso unico e perciò terribilmente riduttiva.
La rivolta si conclude, come già s’è detto, con una morte - Eva s’interpone tra il bandito Pochron ed il suo perduto-inseguito-ritrovato-perduto amore, Luca, per risparmiare quest’ultimo ai colpi mortali del primo - ; morte che è un autentico inno alla sola possibile libertà che ci è concessa, in un mondo dove la libertà, e anche la sua sola ricerca, va scontata con i sacrifici più atroci e disumani e talvolta, logicamente, col proprio sangue”.

(Teresio Zaninetti in fucinemute.it)

DZIEJE GRZECHU (Storia di un peccato, Polonia, 1975), regia di Walerian Borowczyk

 

Una poesia al giorno

Sono un Sinto, di Spatzo (Vittorio Mayer Pasquale).

Sono un Sinto vivo in carcere
solo nel mio dolore.
Bevo la luce del sole.

Nei miei sogni raccolgo i fiori
di tutti i giardini.
Intreccerò per te una corona
con tutte le stelle del cielo,
con tutte le stelle dell’universo.

Vita oscura quando sei solo
con la tristezza nella miseria.
Piange il mio cuore
la vita libera,
piangono i miei occhi.

Con le lacrime ho scritto
sulle ali di una rondine:
rendimi la mia libera vita.
Che io possa morire
sotto un piccolo pino,
come un Sinto.

(Vittorio Mayer Pasquale, in arte Spatzo, nacque a Bolzano da padre siciliano, Enrico Pasquale, e da madre tedesca di etnia sinti, Giovanna Mayer, vittima con la figlia Edvige degli orrori del Porrajmos: l'olocausto degli zingari. Vittorio per salvarsi nascose le sue origini e collaborò con i partigiani. Nella sua poesia si legge tutto l'amore per la musica e la libertà per la propria cultura).

 

Un fatto al giorno

2 ottobre 1925: John Logie Baird esegue la prima prova di un sistema televisivo funzionante. John Logie Baird (Helensburgh, 13 agosto 1888-Bexhill-on-Sea, 14 giugno 1946) è stato un inventore britannico. William Taynton è il primo uomo a comparire in televisione.

“Dopo la prima guerra mondiale, più precisamente il 2 ottobre 1925, invia a distanza un'immagine televisiva vera e propria formata da 28 linee. Come soggetto si offre il suo fattorino William Taynton, che diviene quindi il primo uomo della storia a comparire in televisione. La televisione di Baird era costituita da un sistema di scansione meccanico: un disco di Nipkow girava davanti agli elementi sensibili di selenio, e istante dopo istante si otteneva un valore elettrico corrispondente alla luminosità di un punto dell'immagine, riga dopo riga. Il principio è insomma esattamente quello che viene usato ancor oggi, ma con un sistema di scansione elettronica. Il visore era costituito da un altro disco di Nipkow, che girava davanti ad una lampada al neon comandata dal segnale modulato a seconda della luminosità dei punti letti istante dopo istante: in pratica, si comandava la corrente di scarica del neon. I dischi dei due apparecchi (lo "scanner" e il visore) erano naturalmente sincronizzati. La televisione elettronica si impernia sul tubo catodico, né più né meno di come quella a scansione meccanica si fonda sul disco di Nipkow”.

(Wikipedia)

2 ottobre 1925: John Logie Baird esegue la prima prova di un sistema televisivo funzionante

 

Una frase al giorno

“Lo Stato rappresenta la violenza in forma concentrata e organizzata. L'individuo ha un'anima ma lo Stato, essendo una macchina senz'anima, non potrà mai rinunciare alla violenza alla quale deve la propria esistenza”

(Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma, 1869-1948 pensatore e attivista non violento, padre fondatore indiano)

  • "Mahatma", raro video storico sulla vita di Mohandas Karamchand Gandhi

Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma, 1869-1948

 

Un brano al giorno

Max Bruch (1838-1920), Adagio per motivi celtici, per violoncello e orchestra op. 56.

Julius Berger al violoncello. Orchestra Sinfonica Nazionale di Radio Polonia. Dirige Antoni Wit.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k