L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
TIRO AL PICCIONE (Italia, 1961), regia Giuliano Montaldo. Soggetto: Giose Rimanelli. Sceneggiatura: Ennio De Concini, Luciano Martino, Giuliano Montaldo, Fabrizio Onofri. Produttore: Tonino Cervi. Fotografia: Carlo Di Palma. Montaggio: Nino Baragli. Musiche: Carlo Rustichelli. Cast: Jacques Charrier è Marco Laudato. Eleonora Rossi Drago è Anna. Gastone Moschin è Pasquini. Francisco Rabal è Elia. Franco Balducci è Garrani. Loris Bazzocchi è Giuliani. Enzo Cerusico è il pastorello. Franca Nuti è la donna col marito al fronte. Enrico Glori è l’oratore fascista. Sergio Fantoni è Nardi. Carlo D'Angelo è Mattei. Silla Bettini è Gioioso.
“Il giovane Marco, dopo l'8 settembre 1943, si arruola nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana. Dopo aver compiuto un gesto eroico, rimane ferito ed in ospedale conosce Anna, un'infermiera che lo cura amorevolmente e che si innamora di lui. Tuttavia Marco scopre che Anna è legata anche ad un vecchio industriale da cui è mantenuta in una lussuosa villa. Scopre anche che per evitare di farlo tornare in combattimento, Anna si è concessa al capitano Mattei, con il quale fugge insieme all'industriale in uno squallido triangolo di opportunismo prima della sconfitta di Mussolini, lui li sorprende nell’atto della fuga e, sdegnato, l’abbandona. Nonostante abbia sentito alla radio della cattura e fucilazione di Mussolini, il tenente Nardi tenta ugualmente di raggiungere attraverso le montagne la Valtellina. Sorpresi dai partigiani, i repubblichini fuggono e si arrendono. Anche Marco, ormai frastornato dagli avvenimenti e chiamato a gran voce dai commilitoni, a decide di consegnarsi al nemico dopo il suicidio del tenente Nardi il quale, immediatamente prima, gli aveva ordinato di raggiungerli.”
(In wikipedia.org)
“Fu determinante la collaborazione tra me e Moscatelli, il comandante partigiano piemontese che mi aiutò nel lavoro di documentazione. Il film creò delle forti polemiche: era basato sui condizionamenti che la società fascista imponeva ai giovani dell’epoca, sul trauma dei giovani che si accorgevano che i loro sogni di conquista sfumavano e che la Repubblica Sociale era contraria a una vera democrazia. Avevo letto il romanzo di Giose Rimanelli, molto autobiografico, e mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista ‘dall’altra parte’, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. “
(G. Montaldo in “Torino città del cinema”, a cura di D. Bracco, S. Della Casa, P. Manera, F. Prono, Milano, Il Castoro, 2001)
“Ritratto di un giovane fascista che s'arruola nella X Mas della Repubblica di Salò e della sua tormentata presa di coscienza. Opera prima di G. Montaldo, è il migliore dei rari film italiani sul periodo 1943-45 visto dalla parte dei fascisti repubblichini. La sincerità di fondo riscatta qualche ingenuità e lo schematismo didattico dell'impianto: Montaldo è così preoccupato di spiegare l'epoca che si è dimenticato di raccontarla. Direzione di attori insufficiente. Da un romanzo (1956) di Giose Rimanelli, liberamente rimaneggiato”.
(Il Morandini)
“Per combattere la rabbia, l'intolleranza e l'ignoranza che si sentono nella società di oggi, c'è una parola, che a volte ormai sembra quasi una parolaccia, cultura: sapere, studiare e anche vivere insieme l'esperienza del cinema, bisognerebbe ripartire da lì". Giuliano Montaldo torna al Lido per presentare a Venezia Classici la versione restaurata da CSC - Cineteca Nazionale presso i laboratori di Istituto Luce Cinecittà del suo esordio alla regia, Tiro al piccione del 1961, il primo film su Salò dalla fine della guerra. "Al pubblico piacque, ma la critica, sia da destra che da sinistra, mi fece a pezzi. Fu un grande dolore, pensai anche di cambiare mestiere. Non rivedo il film da allora, spero oggi di farcela a guardarlo fino in fondo", spiega il quasi novantenne regista, sempre contraddistinto da grande eleganza.
Ambientata nel 1943, la storia ha per protagonista Marco (Jacques Charrier), che dopo la fuga del re decide di arruolarsi da volontario nella Repubblica di Salò, perché crede in quegli ideali; di fronte, però, alle violenze a cui assiste, le sue convinzioni iniziano presto a vacillare.
"Charriere - racconta Montaldo divertito - stava divorziando dalla moglie Brigitte Bardot, che aveva sposato nel 1959, ed era molto provato, la sua presenza era frutto della coproduzione francese". "Come attore e aiuto regista - prosegue Montaldo, David di Donatello per Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni - avevo partecipato a film sulla Resistenza, così Tonino Cervi mi propose di adattare per il cinema Tiro al piccione, romanzo biografico di Giose Rimanelli. Ho detto sì perché mi sembrava si potesse parlare di chi allora aveva sbagliato strada ed era stato da noi riaccolto nella società. I critici non la pensarono come me. Io ne uscii devastato, mi sembrava di aver sbagliato tutto, toccando un tasto molto delicato. Se ho continuato a fare cinema, lo devo a mia moglie, mia compagna di vita e collaboratrice, Vera Pescarolo, che mi fece restare a Roma, dandomi forza e coraggio. Ricominciai a lavorare, girando un film tv per gli americani, L'isola dell'angelo, poi altri film, come Una bella grinta, che ha vinto due premi al Festival di Berlino, andò bene. Ma tutte le volte che si è trattato di parlare di temi difficili, fino a Gli occhiali d'oro, è sempre stata dura con i produttori. Uno, quando gli proposi Sacco e Vanzetti, mi ha risposto, 'Ma che è, 'na ditta d'import/export?
Il restauro di Tiro al piccione "è stata una sorpresa bellissima, non posso che dire grazie", sottolinea. E' un film che risulta ancora oggi particolarmente attuale, visti certi sguardi nostalgici, anche da parte di alcuni giovani, verso il fascismo: "Mi ricordo che con Lizzani, nel 1951, dopo una proiezione a Napoli di Achtung! Banditi!, si alzò un signore e ci chiese se fossero realmente accaduti fatti come quelli. Questo è un Paese che ha dimenticato in fretta tante cose della propria storia; è possibile che anche oggi qualcuno possa sbagliare strada... Speriamo che, come il ragazzo di Tiro al piccione, se ne accorga. E comunque, chi sbaglia non va emarginato, va riaccolto".
Il restauro del film è stato realizzato in 4K a cura di CSC - Cineteca Nazionale presso i laboratori di Istituto Luce Cinecittà a partire dal negativo originale 35mm messo a disposizione da Surf Film e da un positivo sonoro ottico e un lavanda conservati negli archivi della Cineteca Nazionale. La supervisione al restauro del suono è stata realizzata a cura di Federico Savina.”
“Mentre il cinema italiano cominciava a raccontare la Resistenza attraverso film ancora oggi considerati fondamentali, Giuliano Monaldo esordiva dietro la macchina da presa con una storia dalla parte sbagliata. Il pubblico lo ignorò, la critica fu fredda al passaggio alla Mostra di Venezia nel 1961 e l’opera prima del regista di Sacco e Vanzetti è stata poco ricordata da allora. Perché Tiro al piccione, che risorge ora grazie al restauro curato da Cineteca Nazionale e Centro Sperimentale, fu sostanzialmente respinto? La risposta è banale: tema scomodo.
In Italia non abbiamo una vera tradizione narrativa sulla Repubblica sociale di Salò: escludendo i nostalgici e i revisionisti che hanno inondato la pubblicistica - seppur non mainstream - di memoir e romanzi spesso illeggibili, utili giusto per avere un’idea del clima dell’epoca e del senso di revanscismo postbellico, sono pochissimi gli autori davvero degni di attenzione. Prima di Carlo Mazzantini (purtroppo, dopo il folgorante debutto autobiografico A cercar la bella morte, ripiegatosi nel reducismo e nel rancore tipico dei fascisti che non si rassegnano alla sconfitta), c’è stato l’ottimo Giose Rimanelli, molisano poi emigrato in America che nel 1953 pubblicò Tiro al piccione per Mondadori. Il notevole testo, già di per sé abbastanza audace benché mai sospettabile di rigurgito fascista, costituì per Montaldo l’occasione di esordire con un film altrettanto coraggioso.
Negli anni della narrazione antifascista (Tutti a casa, La lunga notte del ’43, Era notte a Roma, Un giorno da leoni per citarne alcuni esempi), Montaldo si dimostra subito cineasta di grande tolleranza e dallo spirito sinceramente democratico: ciò che gli sta più a cuore è capire l’orizzonte umano di un ragazzo, arruolatosi volontario a Salò, che non ha mai conosciuto altro mondo all’infuori di quello fascista. Pur basata sul testo di Rimanelli, è un’operazione complessa, perché il regista si ritrova a dover costruire un personaggio nuovo per un cinema italiano invece molto ferrato sulla mitologica rappresentazione dei partigiani e su quella spregevole dei fascisti. Nello scandagliare il reparto, Montaldo sottolinea l’eterogeneità di una compagine nella quale convivono la violenza squadrista (Gastone Moschin) e la codardia delle élite (il comandante Carlo D’Angelo), l’ottuso militarismo (Sergio Fantoni) e il disincanto di chi ha cambiato idea (Francisco Rabal).
“Elia, ma perché le donne non ci vogliono più bene?” chiede Marco Laudato, il giovane protagonista interpretato da Jacques Charrier, ascoltando per l’ennesima volta quell’inno sempre più simile a un canto funebre. Marco, il cui padre morto in Africa si staglia quale motivo principale della scelta repubblichina, è la vittima più nascosta del Ventennio, anche perché si trova fino alla fine dalla parte sbagliata della Storia: illuso da un mondo apparentemente votato all’ordine e alla disciplina, intransigente per non tradire se stesso e i suoi ideali, costretto a capire di essere una delle tante pedine di una guerra che nessuno vuole guidare, compreso il Duce che da lontano lancia parole sempre più vuote. E via via chiamato ad accettare una deriva nichilista, con prove estreme sospese tra la vita e la morte, che non risparmia l’amore mal riposto verso una donna misteriosa, incarnata da quella Eleonora Rossi Drago qui enigmatica signora lacustre a cui manca l’effimera speranza di salvarsi ancora da un’altra estate violenta. Rivisto oggi, Tiro al piccione - che si avvale di un cast tecnico prestigioso, da Carlo Di Palma alla fotografia a Nino Baragli al montaggio passando per il compositore Carlo Rustichelli - non emerge solo come uno dei migliori film di Montaldo, ma anche per la sua inquietante dimensione da coming of age disperato e cupo. E in pochi hanno raccontato quel pezzo di storia con tale intelligenza.”
(Lorenzo Ciofani in www.cinefiliaritrovata.it)
- Il Film: Tiro Al Piccione, regia di Giuliano Montaldo,1961
Una poesia al giorno
Captain Orlando Killion, di Edgar Lee Masters
Oh, you young radicals and dreamers,
You dauntless fledglings
Who pass by my headstone,
Mock not its record of my captaincy in the army
And my faith in God!
They are not denials of each other.
Go by reverently, and read with sober care
How a great people, riding with defiant shouts
The centaur of Revolution,
Spurred and whipped to frenzy,
Shook with terror, seeing the mist of the sea
Over the precipice they were nearing,
And fell from his back in precipitate awe
To celebrate the Feast of the Supreme Being.
Moved by the same sense of vast reality
Of life and death, and burdened as they were
With the fate of a race,
How was I, a little blasphemer,
Caught in the drift of a nation's unloosened flood,
To remain a blasphemer,
And a captain in the army?
Il capitano Orlando Killion (traduzione in: www.flickr.com)
Oh, voi giovani radicali e sognatori,
voi ingenui senza paura
che passate accanto alla mia lapide,
non ridete se ricorda che fui capitano dell’esercito
ed ebbi fede in Dio!
Le due cose non si contraddicono.
Passate con reverenza, e leggete con seria attenzione
che un gran popolo, cavalcando con urla di sfida
il centauro della Rivoluzione
spronato e frustato sino alla frenesia,
tremò di terrore, scorgendo la foschia del mare
oltre il baratro verso cui correva,
e cadde di sella in precipitoso sgomento
per celebrare la festa dell’Essere Supremo.
Mosso dallo stesso senso di sconfinata realtà
della vita e della morte, e gravato a mia volta
dal destino d’una razza,
come potevo io, piccolo bestemmiatore,
nel turbine dell’incontenibile marea di una nazione,
continuare a essere bestemmiatore,
e capitano dell'esercito?
“Masters, Edgar Lee. - Avvocato e poeta statunitense (Garnett, Kansas, 1869 - Melrose Park, Pennsylvania, 1950). Esordì con A book of verses (1898), cui fece seguire altri scritti poetici e drammatici di genere tradizionale. Salì improvvisamente alla fama quando, ispirandosi ai tipi umani osservati nei tribunali e sull'esempio dell'Antologia greca, pubblicò, prima sul Mirror, poi in volume (The Spoon River anthology, 1915, seguita l'anno successivo da una versione definitiva arricchita di 35 componimenti), una serie di epitaffi composti in uno stile lirico-satirico assai originale, in cui si confessano i defunti sepolti nel cimitero d'un piccolo paese nel centro degli Stati Uniti. Il successo del volume fu straordinario; con esso Masters, dopo E. W. Howe e prima di Sh. Anderson e S. Lewis, metteva a nudo l'ipocrisia puritana del mondo provinciale americano.
Nel 1924 pubblicò una nuova serie, The new Spoon River anthology, che, se non uguaglia la felicità della prima, le è assai prossima. Di livello inferiore rimane tutto il resto della sua opera, che comprende poesie (Domesday book, 1920, e The fate of the jury, 1929, sono forse le due raccolte migliori), poemi drammatici (Lee, 1926; Jack Kelso, 1928; Godbey, 1931), romanzi (Mitch Miller, 1920; Skeeters Kirby, 1923; The tide of time, 1937), un'autobiografia (Across Spoon River, 1936) e varî studî biografici.”
(In www.treccani.it)
23 agosto 1868 nasce Edgar Lee Masters, avvocato, scrittore, poeta e drammaturgo americano (morto nel 1950).
Un fatto al giorno
23 agosto 1923: gli squadristi di Italo Balbo uccidono il parroco di Argenta don Giovanni Minzoni.
“La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni Minzoni, mentre faceva ritorno a casa, fu attaccato da squadristi fascisti e ucciso a bastonate. Aveva trentotto anni. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885, cresciuto in una famiglia medio borghese, studiò in seminario e nel 1909 fu ordinato sacerdote. L’anno seguente fu nominato cappellano ad Argenta (provincia di Ferrara ma diocesi di Ravenna), da cui partì nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò. Animato da un profondo amore per la Chiesa e dotato di acuta sensibilità per i problemi sociali, si interessò subito alla vita politica e civile del paese avviando numerose iniziative per i parrocchiani più bisognosi. Le sue opere di carità, unite a un’intensa attività pastorale e sociale, avrebbero fatto di lui un coraggioso leader dell’organizzazione della gioventù cattolica della sua zona. Chiamato alle armi nell’agosto 1916, inizialmente prestò servizio nella Sanità in un ospedale militare di Ancona. Successivamente chiese di essere inviato al fronte dove giunse come tenente cappellano del 255° Reggimento di fanteria. Durante la battaglia del Piave, dimostrò un coraggio tale da essere decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine della Grande guerra toò ad Argenta. Aderì al Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo, ma ciò non gli impedì di essere amico del sindacalista socialista Natale Gaiba, prima vittima nel 1921 della violenza delle camicie nere fasciste. Questo fatto e altri episodi lo portarono a rifiutare con convinzione l’ideologia fascista e di conseguenza avviare fra i giovani una robusta formazione civica e morale per lo sviluppo della democrazia; una prassi pastorale che in seguito pagò a caro prezzo.
“In un’afosa serata estiva, don Giovanni Minzoni viene aggredito e ucciso a colpi di spranga sulla soglia della sua canonica. Tanto gli esecutori materiali quanto i mandanti del delitto verranno assolti in un processo farsa condotto in un clima intimidatorio e conclusosi a Ferrara nell’estate del 1925. Il «Corriere Padano», giornale fascista di Italo Balbo nell’edizione del 1° agosto 1925, esalta la mirabile e travolgente arringa dell’onorevole De Marsico che porta all’assoluzione di tutti gli imputati. Bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, però ormai il reato è caduto in prescrizione.
Quanto alla Santa Sede, le proteste ufficiali si fanno sentire lungo tutto il ventennio fascista, ma riguardano propriamente gli episodi di aggressione ai singoli o alle organizzazioni e non mostrano alcuna critica di principio all’azione e ai metodi del governo fascista. Del resto Mussolini impone di riappendere il Crocifisso negli uffici pubblici con grande sollievo di gran parte della popolazione. L’Osservatore Romano sorvola sull’assassinio di don Giovanni Minzoni per mantenere gli equilibri che faticosamente si stanno costruendo tra il governo fascista e la Santa Sede. La salma di don Minzoni riposa oggi nella Chiesa di Argenta, ove è stata trasferita da Ravenna nel 1983. Per quella cerimonia Giovanni Paolo II inviando un messaggio ricordò: «L’eccezionale significato assunto dal sacerdote martire del fascismo per l’intera nazione italiana», additando in don Minzoni un punto di incontro tra i credenti e coloro che, pur privi del dono della fede, ne riconoscono i valori.”
(Don Mario Bandera in www.rivistamissioniconsolata.it)
“La notte del 23 agosto del 1923, ad Argenta in provincia di Ferrara, fu commesso un omicidio, a bastonate. Il susseguirsi di telegrammi, manifesti e volantini ci introducono al fatto. Questa notte Arciprete Argenta Minzoni cappellano militare medaglia argento proditoriamente ammazzato. Feroce soppressione sacerdote universalmente apprezzato per azione parrocchiale e civica largamente benefica, disinteressata, patriottica, suscitato città e diocesi commozione vivissima. Gravità caso imponemi segnalare V. E. necessità urgenti provvedimenti contro colpevoli sacrilego efferato omicidio”. Questo è il testo del telegramma, inviato dall’arcivescovo di Ravenna (Argenta come diocesi apparteneva a Ravenna), Antonio Lega al Presidente del Consiglio dei Ministri on. Mussolini. Il fiduciario politico del fascio ferrarese s’affrettò a far pervenire al suddetto arcivescovo le condoglianze di S. E. on. Balbo e l’assicurazione che l’autorità giudiziaria sarebbe stata messa a disposizione per rintracciare i colpevoli. Aggiunge inoltre: “Eccellenza, mentre porgo e personalmente e a nome del fascismo ferrarese le più vive e sentite condoglianze per la tragica fine del valoroso e compianto Arciprete d’Argenta don Giovanni Minzoni, esprimo la condanna degli sciagurati che mi auguro presto assicurati alla giustizia, sciagurati che nulla hanno in comune con noi, se anche celati nelle nostre file”. Venne affisso, inoltre, il seguente manifesto. “Cittadini, fascisti! Don Giovanni Minzoni è stato ucciso per un efferato delitto o per una tragica conseguenza preterintenzionale?” E continua: “Cittadini, fascisti! Alla memoria di don Minzoni che pur fu un coraggioso avversario noi diamo il tributo del nostro cordoglio”.
L’arrogante ufficialità delle ipocrisie fasciste non scappò agli occhi e soprattutto alla mente di chi fu vicino al sacerdote. Nella notte, dagli esploratori cattolici e dai giovani popolari, furono strappati i manifesti fascisti. Il giorno dopo fu distribuito un foglietto dattiloscritto, in cui tra l’altro, emerge: “… la famiglia dell’Ucciso ha espresso vivamente il desiderio che i Fasci non siano rappresentati ai funerali…”.
Quando si ammazza una persona, non si ammazza solo l’uomo, ma quello che rappresenta. Don Giovanni Minzoni, dopo la Prima guerra mondiale in cui opera come cappellano militare, poi medagliato, ritorna ad Argenta come arciprete. Ma non è un sacerdote come gli altri. Interpreta il clima storico, politico e sociale non solo attraverso la sua fede, ma opera nel concreto di quel contesto sociale, ponendosi due obiettivi: l’organizzazione educativa dei ragazzi, di cui sono testimonianza le sue realizzazioni di quegli anni - il doposcuola, la biblioteca circolante, il teatro parrocchiale, i circoli maschile e femminile, le due sezioni scout - e quella sociale dei lavoratori, tesa a diffondere la pratica cooperativistica di ispirazione cattolica sia tra i braccianti sia tra le operaie del laboratorio di maglieria.
In una terra in cui trionfavano le sinistre che rappresentavano braccianti e operai, roccaforte dei socialisti, il clero non era visto di buon occhio. Ma Don Minzoni riuscì a farsi accettare, anzi a farsi apprezzare da tutti, anche dai più ostili. Nella quotidianità - raccontano le tradizioni orali - il parroco giocava coi ragazzi a calcio, andava al bar in bicicletta a bere una birra e a partecipare a qualche partita a carte. Era un religioso che applicava sino in fondo la parola evangelica, ascoltando, confortando e aiutando tutti, senza distinzione di credo. Spostò l’attenzione dall’aspetto solo mistico della religione a quello concreto, attivo, impegnato nella società. Un sacerdote che esce dall’immutabilità del ruolo, per incarnarsi nella società. Diventò uno del popolo. Il suo “stare” tra la gente comune, anche tra i socialisti coi quali si confrontava, iniziò ad infastidire i fascisti i quali, “per metodo”, cominciano a minacciarlo. Ma don Giovanni Minzoni non si tira indietro, ci mette la faccia.
Nel 1921, dopo l’uccisione di Natale Gaiba, sindacalista socialista, consigliere comunale e amico, per mano di squadristi del luogo, il parroco tenne un discorso di forte denuncia. Fu la prima aperta rottura con il fascio locale. A provocare ulteriormente l’ira dei fascisti fu il successo dell’Associazione dei Giovani Esploratori Cattolici, sorta anche ad Argenta, grazie al religioso. L’8 luglio 1923, l’assistente ecclesiastico regionale dell’ASCI (Associazione Scout Cattolici Italiani), don Emilio Faggioli fu invitato nel teatro parrocchiale di Argenta a tenere una conferenza sulla validità educativa dello scautismo. “Attraverso questo tirocinio e disciplina della volontà e del corpo”, affermò don Faggioli, “noi intendiamo formare degli uomini di carattere”. Dalla galleria lo interruppe allora il segretario del fascio di Argenta: “C’è già Mussolini…!”. Monsignor Faggioli riprese il suo intervento spiegando all’uditorio che lo scoutismo agisce sopra e al di fuori delle fazioni politiche. “Vedrete da oggi lungo le vostre strade i giovani esploratori col largo cappello e il giglio sopra il cuore. Guardate con simpatia questi ragazzi che percorreranno cantando la larga piazza d’Argenta.” “In piazza non verranno!” esclamò ancora il segretario del fascio. Gli rispose allora don Minzoni stesso: “Finché c’è don Giovanni, verranno anche in piazza!”. L’applauso dei giovani troncò il dialogo.
Don Giovanni Minzoni fu ucciso a bastonate la sera del 23 agosto 1923 mentre rientrava a casa. Uccisero, dunque, un uomo, un sacerdote che esprimeva il suo pensiero e che agiva contrario ad ogni forma di servilismo, di malafede e di violenza. Un antifascista, ucciso da criminali appartenenti alla criminalità organizzata che si chiama squadrismo, pagata dallo Stato e che opera in funzione di un partito (come dimostrato nel precedente articolo “Promemoria 4”). Con questa uccisione il fascismo, che ancora non è regime, inaugura quella sequenza di vittime che sono gli avversari che pensano. Ovvero elementi dannosi al fascismo.
Nel frattempo, in Italia nel 1923:
Stato e istituzioni
- arrestato a Torino Piero Gobetti
- arrestati a Roma Amedeo Bordiga e quasi tutti i membri del comitato centrale del PCd’I: al processo gli imputati sono assolti
- fusione fra PNF e Associazione nazionalista italiana
- arrestato a Milano Giacinto Menotti Serrati
- IV congresso del PPI a Torino: prevale la tesi della disponibilità a una collaborazione «condizionata» con il governo. Don Luigi Sturzo è confermato segretario del partito
- XX congresso PSI a Milano: confermata la maggioranza massimalista. Respinta la proposta di fusione tra PSI e PCd’I ma confermata l’adesione all’Internazionale comunista
- il ministro del Lavoro e della previdenza sociale Stefano Cavazzoni e alcuni sottosegretari popolari si dimettono dal governo: non termina tuttavia la collaborazione del PPI con il governo Mussolini
- riforma di Giovanni Gentile della scuola
- dimissioni di don Luigi Sturzo da segretario del PPI
- restrizione della libertà di stampa: ai prefetti facoltà di diffida e rimozione del gerente di giornale
- occupazione di Corfù da parte delle truppe italiane, in esecuzione dell’ultimatum di Benito Mussolini alla Grecia seguito all’imboscata in cui erano morti 4 militari italiani in missione su mandato delle potenze alleate. Condanna della Società delle nazioni e minaccia di ritiro dell’Italia dalla Società delle Nazioni. Isola evacuata il 27 settembre
- arrestati Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Giuseppe Vota, Alfonso Leonetti e Mario Montagnana, membri del comitato esecutivo del PCd’I: sono liberati dopo 3 mesi di carcere
- approvata la legge Acerbo: riforma elettorale in senso maggioritario fortemente manipolato
- sospesa la pubblicazione di numerosi giornali “per motivi di ordine pubblico”
- uccisi a Torino dai fascisti una ventina di avversari politici; devastate sedi e giornali d’opposizione
- aggressione fascista a Roma contro Giovanni Amendola
Economia e società
- riordino dei ruoli del personale impiegatizio pubblico: dipendenti delle ferrovie ridotti da 226.000 a 190.000
- salvataggio dell’Ansaldo, in dissesto: la società è smembrata, numerose attività sono poste in liquidazione. Le officine sono cedute ad una nuova società con la stessa denominazione; altre aziende (minerarie, siderurgiche, idroelettriche, marittime) rimangono sotto il controllo dello Stato
- salvataggio del Banco di Roma in dissesto: è costituita la Società finanziaria per l’industria e il commercio, cui sono cedute partecipazioni industriali del Banco
- incontro di Benito Mussolini con i dirigenti della CGdL allo scopo di avviare un patto di unità sindacale con le corporazioni fasciste e di sganciare il sindacato dal riformismo socialista
- il comitato direttivo della CGdL assume una linea possibilista in relazione al dialogo avviato con il governo
- Confindustria e Confederazione delle corporazioni fasciste sottoscrivono un patto volto “ad armonizzare la propria azione con le direttive del governo nazionale”
Cronaca, costume, sport
- edita la rivista “La nuova politica liberale”: tra i collaboratori Giovanni Gentile e Lombardo Radice
- edito a Roma il primo numero del quotidiano cattolico Il Popolo, vicino alle tesi di don Luigi Sturzo e diretto da Giuseppe Donati
- edito il primo numero del quindicinale Critica fascista, diretto da Giuseppe Bottai
- edito a Milano il settimanale comunista Lo Stato operaio, diretto da Palmiro Togliatti
- costituito il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR)
- Piero Gobetti pubblica “La frusta teatrale”
- Italo Svevo pubblica “La coscienza di Zeno”
- Milano-Sanremo e Giro d’Italia di ciclismo vinti da Costante Girardengo
- campionato di calcio vinto dal Genoa
- Gran premio automobilistico d’Italia vinto a Monza da Carlo Salamano su Fiat
Conclusione
Il fascio ferrarese nel telegramma scrive “sciagurati che nulla hanno in comune con noi, se anche celati nelle nostre file” e affigge nei manifesti: “don Minzoni che pur fu un coraggioso avversario”. Dichiarazioni che rappresentano ammissioni politiche, storiche e morali, anche se non hanno avuto esito processuale con condanne. Fra processi farsa, i cui esiti si iscrivono alla “giurisprudenza fascista” del “me ne frego” e silenzi delle autorità religiose, bisognerà aspettare il 1947 perché il processo venga rifatto e i responsabili condannati, col reato ormai caduto in prescrizione.
La prima commemorazione venne celebrata nel 1973.
Il 2 ottobre 1983 Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, pronunciò le seguenti parole: “Nella figura di don Giovanni Minzoni si riassume il meglio delle tradizioni ideali e politiche nelle quali il movimento cattolico italiano affonda le sue stesse radici genuinamente popolari. Con la sua stessa vita, Don Minzoni testimoniò, in perfetta aderenza all’insegnamento evangelico e in profonda lealtà alla propria missione di pastore, la fede democratica e l’ansia di giustizia che ispirava i lavoratori cristiani, che ne saldava l’animosa resistenza alla lotta che l’intero movimento antifascista andava opponendo all’incombente tirannide”.
Sempre nel 1983, l’allora papa Giovanni Paolo II scriveva: “Don Minzoni morì “vittima scelta” di una violenza cieca e brutale, ma il senso radicale di quella immolazione supera di gran lunga la semplice volontà di opposizione ad un regime oppressivo, e si colloca sul piano della fede cristiana. Fu il suo fascino spirituale, esercitato sulla popolazione, sulle forze del lavoro ed in particolare sui giovani, a provocare l’aggressione, si volle stroncare soprattutto la sua azione educativa diretta a formare la gioventù per prepararla nel contempo ad una solida vita cristiana e ad un conseguente impiego per la trasformazione della società. Per questo gli Esploratori Cattolici sono a lui debitori”.”
(Paolo Papotti, componente della Segreteria nazionale Anpi, responsabile Formazione)
Immagini:
Una frase al giorno
“History will judge societies and governments - and their institutions - not by how big they are or how well they serve the rich and the powerful, but by how effectively they respond to the needs of the poor and the helpless.”
(La storia giudicherà le società e i governi - e le loro istituzioni - non da quanto sono grandi o servono bene i ricchi e i potenti, ma da quanto efficacemente rispondono ai bisogni dei poveri e degli indifesi.)
(Come citato in: “Cesar Chavez, A Triumph of Spirit” (1997), di Richard Griswold del Castillo e Richard A. Garcia, p. 116)
César Estrada Chávez (Yuma, 31 marzo 1927 - San Luis, 23 aprile 1993) sindacalista e attivista statunitense, celebre per le sue lotte in favore dei braccianti agricoli di origine ispanica.
“Il 23 aprile 1993 a San Louis (Arizona) moriva César Estrada Chávez, padre del sindacalismo nonviolento negli Stati Uniti. La sua vita fu interamente dedicata ai diritti e alle battaglie dei campesinos itinerantes, i contadini che passavano in Arizona dal confinante Messico, alla disperata ricerca di migliori condizioni di vita che il loro Paese non poteva offrire loro in alcun modo.
Estrada Chávez sfidò i proprietari terrieri, i sindacati gialli e la mafia americana pur di difendere i campesinos: fu vittima di numerosi attentati, a cui riuscì sempre a sfuggire, insieme a contadini che temevano di perdere il lavoro o di essere deportati a causa delle loro proteste. César Estrada Chávez può essere annoverato senza dubbio fra i militanti di primo piano nella lotta per la terra e per i diritti del mondo del lavoro. La memoria del suo impegno sociale non è stata scalfita nel corso degli anni. Pochi mesi dopo la sua morte, dovuta a un cancro, gli amici e la famiglia costituirono la Fondazione César E. Chávez allo scopo di sensibilizzare la società civile sul lavoro di uno dei più grandi sindacalisti degli Stati Uniti. Borse di studio e programmi educativi dedicati alla nonviolenza rappresentano due tra le maggiori attività condotte dalla Fondazione. Inoltre il 31 marzo del 2002, in corrispondenza della sua data di nascita, avvenuta il 31 marzo 1927, fu celebrato per la prima volta negli Stati Uniti el Día de César Estrada Chávez, a cui parteciparono, in larga maggioranza, gli ispanoamericani. In quell’occasione lavoratori e studenti, attivisti nelle aree urbane e rurali, dettero vita a iniziative di protesta nonviolenta e ad azioni volte a migliorare la vita nelle comunità contadine. La convinzione di Estrada Chávez che le mobilitazioni per i diritti sociali dovessero essere nonviolente – nel senso gandhiano – fu tale da convincere gli sfruttati nelle mani di proprietari terrieri senza scrupoli a organizzare scioperi ai quali non si presentavano più armati di sassi e bastoni: del resto lui stesso era sopravvissuto a lunghi quanto impegnativi digiuni di protesta. Al tempo stesso, Cesar non intendeva la nonviolenza come semplice precetto moralistico: “Noi non siano nonviolenti perché vogliamo salvare le nostre anime, ma perché vogliamo ottenere la giustizia sociale per gli operai”. Lo stesso Estrada Chávez sapeva bene cosa volesse dire lavorare nelle campagne. Nel 1939, quando si trasferì in Californa insieme alla sua famiglia, abitava in un quartiere il cui nome era più che significativo: Sal Si Puedes, in inglese Get Out If You Can. Estrada Chávez conobbe l’esclusione razzista sulla sua pelle: in molte scuole la lingua spagnola era proibita a vantaggio dell’inglese, in altre c’era scritto esplicitamente che erano solo per i bianchi. Cesar provò cosa significassero ingiustizia e sfruttamento: nel 1962 fondò l’organizzazione sindacale Asociación Nacional de Campesinos, che poi divenne Los Campesinos Unidos (United Farmer Work). Riuscì a organizzare politicamente i campesinos, fece comprendere loro le cause alla base dello sfruttamento e riuscì a trarre dei successi dalle proteste nonviolente, consistenti in scioperi, picchetti, boicottaggi, digiuni: il più lungo sciopero della fame, El Ayuno para la Vida, durò 36 giorni, per concludersi il 21 agosto 1988. “Il digiuno rappresenta un atto di purificazione e rafforzamento per me e per tutti coloro che lavorano insieme al movimento contadino, ma al tempo stesso è un’azione che dichiara l’indisponibilità a collaborare con la controparte” amava ripetere Cesar. Il cardinale Roger Mahoney, che celebrò l’orazione funebre per Estrada Chávez, lo descrisse come “un profeta speciale per i contadini di tutto il mondo”: ai suoi funerali parteciparono almeno cinquantamila persone, che scortarono il feretro fino alla sede del sindacato. Arturo Rodríguez, il successore alla guida del sindacato alla morte di Estrada Chávez, lo salutò dicendo che Cesar viveva nei cuori di tutti i contadini organizzati degli Stati Uniti impegnati per il cambio sociale, mentre i campesinos giurarono che “avrebbero piantato il suo cuore come un seme di cui avrebbero raccolto le messi in memoria”.”
(Davide Lifodi in: www.nuovetracce.org)
“Cesar Chavez (1927-1993) è stato un iconico messicano organizzatore del lavoro, attivista per i diritti civili, e eroe popolare che ha dedicato la sua vita al miglioramento della retribuzione e le condizioni dei lavoratori agricoli di lavoro. Originariamente una lotta del sud della California campo lavoratore stesso, Chavez, insieme a Dolores Huerta, co-fondatore del sindacato United Farm Workers (UFW) nel 1962. Con l’inaspettato successo del UFW, Chavez ha ottenuto il sostegno del più grande movimento operaio americano, aiutando sindacati ben al di là della California reclutare membri ispanici tanto necessari. Il suo approccio aggressivo, ma rigorosamente non-violenta per l’attivismo sociale ha aiutato la causa del movimento di sostegno guadagno fattoria dei lavoratori a livello nazionale dal pubblico.
(Leggi l’articolo completo in: www.greelane.com)
23 agosto 1970: Organizzato dal leader sindacale messicano-americano César Chávez, inizia lo sciopero del Salad Bowl, il più grande sciopero dei lavoratori agricoli nella storia degli Stati Uniti.
Immagini:
Un brano musicale al giorno
Albert Roussel, Aeneas, Op 54, Balletto per coro e orchestra
1. Preludio
2. Introduzione: ingresso Enea
3. Introduzione: Danza delle ombre
4. Le prove di Enea: La solitudine
5. Le prove di Enea: L'aspetto della Sibilla
6. Le prove di Enea: Le gioie dell'apocalisse
7. Le prove di Enea: Intermezzo (Variazione 1)
8. Le prove di Enea: Gli amori tragici: Danza di Didone
9. Le prove di Enea: Interlude (Variazione 2)
10. Le prove di Enea: The Pass: Danza di guerra
11. Le prove di Enea: Interlude (Variazione 3)
12. Le prove di Enea: danza di Enea
13. Inno finale - Il popolo romano
Europa Chor Akademie
Luxembourg Philharmonic Orchestra
Bramwell Tovey, direttore
“Albert Roussel (Tourcoing, 5 aprile 1869 - Royan, 23 agosto 1937) compositore francese. Dopo essere stato ufficiale di marina sino all'età di 25 anni si congedò per dedicarsi completamente alla musica e ebbe tra i suoi insegnanti Vincent d'Indy. Insegnò contrappunto alla Schola cantorum di Parigi tra il 1902 e il 1913 ed ebbe tra i suoi allievi Erik Satie e Bohuslav Martinů. Viaggiò in oriente, andò volontario in guerra ed infine si stabilì in Normandia continuando a frequentare gli ambienti musicali parigini. Nel 1937 avvenne la prima esecuzione assoluta nella Salle Pleyel di Parigi del Concertino per violoncello e orchestra op. 57 di sua composizione con Pierre Fournier. Fu uno dei più significativi musicisti francesi del primo '900 e, sebbene non abbia mai appartenuto ad alcuna corrente musicale, fu molto più vicino alla rinascita sinfonica francese per mezzo dell'Impressionismo, del Simbolismo e degli stili nascenti di Gabriel Fauré e Claude Debussy che all'accademismo che trovava i migliori esponenti in Jules Massenet e Camille Saint-Saëns. Nella sua scrittura molto raffinata utilizzò spesso elementi della musica orientale che amalgamò con un solido classicismo. Il suo catalogo non molto corposo comprende, 4 opere, 4 balletti, 4 sinfonie, 2 musiche di scena, un concertino e molte liriche da camera di poeti francesi, greci e cinesi nonché di James Joyce.”
(In wikipedia.org )
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
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Ugo Brusaporco
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