“L’amico del popolo”, 21 agosto 2020

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

WATERLOO (Germania, 1929), regia di Karl Grune. Prodotto da Max Schach. Sceneggiature: Max Ferner, Bobby E. Lüthge. Musiche: Hansheinrich Dransmann. Fotografia: Hugo von Kaweczynski, Fritz Arno Wagner, Josef Wirsching.
Cast: Charles Willy Kayser interpreta Friedrich Wilhelm III. Charles Vanel è Napoleone. Otto Gebühr è Feldmarschall Blücher. Auguste Prasch-Grevenberg è la moglie di Blüchers. Friedrich Ulmer è Gneisenau. Georg Henrich è Hardenberg. Karl Graumann è Metternich. Humberston Wright è Wellington. Carl de Vogt è Ney. Helmuth Renar è Talleyrand. Vera Malinovskaya è Gräfin Tarnowska. Camilla von Hollay è Ihre Zofe. Oskar Marion è Leutnant Reutlingen. Betty Bird è Rieke. Fred Immler è Erster Grenadier. Franz Scharwenka è Zweiter Grenadier. Will Dohm è Graf Lagarde.

Film celebrativo per il decimo anniversario dell'Emelka (arte cinematografica di Monaco): Napoleone è confinato all’isola d’Elba, il Congresso di Vienna si riunisce per discutere del nuovo ordine dell'Europa. È lì che Napoleone riesce a scappare. Le truppe inviate sotto il maresciallo Ney per catturarlo passano con lui e Napoleone sta ripristinando il suo potere in Francia. Il Duca Wellington, comandante in capo inglese, e il Feldmaresciallo prussiano Blücher, si sono promessi di sostenersi a vicenda nella lotta contro Napoleone. Truppe di Blücher e Napoleone si incontrano a Ligny. Blücher viene picchiato e ferito, ma due giorni dopo viene in aiuto di Wellington ("Vorrei che fosse notte - o che venissero i prussiani"). A Waterloo, insieme riescono a infliggere la sconfitta decisiva a Napoleone.

Waterloo racconta la storia della battaglia dalla prospettiva prussiana e in particolare celebra il carattere e le conquiste del generale Blucher. Il film dipinge anche un'immagine molto comprensiva di Wellington e ricrea il progresso storico di Napoleone durante i "100 giorni". Il film utilizza tecnicamente tutti i trucchi della macchina fotografica del tempo: schermo diviso, montaggio rapido ed emozionanti scatti panoramici e di tracciamento. Il finale, la battaglia stessa, riproduce fedelmente il luogo e le circostanze del salvataggio di Blucher, trasformando quella che avrebbe potuto essere la vittoria di Napoleone nella sua sconfitta.

Waterloo è un film di guerra muto tedesco del 1929 diretto da Karl Grune e interpretato da Charles Willy Kayser, Charles Vanel e Otto Gebühr. Raffigura la vittoria delle forze alleate su Napoleone nella battaglia di Waterloo nel 1815. È stato realizzato negli studi di Monaco di Baviera della Bavaria Film. I set del film sono stati progettati dall'art director Ludwig Reiber.

“Il film è stato girato in Germania e diretto da Karl Grune: non sorprende che racconta la storia molto dal punto di vista tedesco, concentrandosi sul feldmaresciallo prussiano Blücher (interpretato da Otto Gebühr), che (avendo precedentemente sconfitto Napoleone e causato il suo esilio a Elba) viene chiamato a ritirarsi dopo la fuga di Napoleone e il ritorno in Francia. Promosso comandante in capo dell'esercito prussiano, Blücher forma un'alleanza con il duca di Wellington. Le truppe di Blücher vengono inizialmente sconfitte da Napoleone, a cui il maresciallo francese Ney ha disertato, ma quando Napoleone attacca Wellington a Waterloo è l'arrivo in tempo reale delle truppe di Blücher a salvare la situazione.

Lo stesso Napoleone (interpretato da Charles Vanel - recitando la parte per la terza volta) rimane una figura oscura, con il film concentrato sulle attività di Blücher. Poiché la trama storica è abbastanza semplice, c'è una sottotrama che coinvolge una spia tedesca femminile (Wera Malinowskaja) che seduce un aiutante di Blücher (Oskar Marion) con l'angoscia della fidanzata di quest'ultimo (Betty Bird) - questo tende a dominare eccessivamente la seconda metà del film (che è già lunga due ore e mezza) anche se fornisce un certo interesse umano.

Le battaglie sono messe in scena in modo spettacolare, anche se alcuni combattimenti corpo a corpo non sono convincenti (consistenti, come troppo spesso, di attori a distanza di sicurezza che si sbattono a vicenda le baionette) e ben fotografati; e, a parte la sottotrama, il film sembra aderire strettamente ai fatti storici. La performance di Gebühr nei panni di Blücher è molto efficace: inquadrato per la prima volta da dietro mentre esamina un ferro di cavallo, lo ritrae come un comandante caloroso e un po' eccentrico ma deciso. Anche se la performance di Malinowskaja è sopra le righe, gli altri attori danno prestazioni buone e non esagerate e l'intero film regge bene. Ci sono alcuni scatti innovativi a esposizione multipla (forse ispirati al Napoleone di Abel Gance) ma questi sono ridotti al minimo e la narrazione è chiara e ben strutturata.

(Roger Wilmut in rfwilmut.net)

 


Un attore: Charles Vanel

Attore cinematografico francese, nato a Rennes (Ille-et-Vilaine) il 21 agosto 1892 e morto a Cannes il 15 aprile 1989. Caratterista di valore, raggiunse l'apice della notorietà internazionale a più di cinquant'anni, nelle vesti di personaggi solidi e impassibili, che il suo volto segnato e la sua andatura lenta erano capaci di rendere temibili: significativi i suoi contributi in Les diaboliques (1955; I diabolici) di Henri-Georges Clouzot e in To catch a thief (1955; Caccia al ladro) di Alfred Hitchcock.
Durante la sua lunga carriera cinematografica Vanel recitò in circa duecento film (l'ultimo dei quali all'età di 96 anni), interpretando moltissimi ruoli: borghese, contadino, marinaio, poliziotto, malvivente e altri. Vinse al Festival di Cannes il premio come migliore attore con Le salaire de la peur (1953; Vite vendute o Il salario della paura) di Clouzot e ottenne un David di Donatello come attore non protagonista in Tre fratelli (1981) di Francesco Rosi.
Poco dopo il debutto teatrale Vanl entrò nel mondo del cinema cercando di compensare, con film di ambientazione marinaresca, la rinuncia all'antica passione di diventare marinaio, come testimoniano Pêcheurs d'Islande (1924) di Jacques de Baroncelli e La femme du bout du monde (1937) di Jean Epstein. Proseguì la carriera alternando prove con grandi registi (Julien Duvivier, Jacques Feyder e in particolare Jean Gremillon con il film Le ciel est à vous, 1944, Il cielo è vostro) a interpretazioni in film di minor spessore. Fu poi perfetto come investigatore inflessibile in Les diaboliques, seguito da La mort en ce jardin (1956; La selva dei dannati) di Luis Buñuel.
Lavorò assiduamente anche in Italia con registi come Pietro Germi (In nome della legge, 1949), Augusto Genina (Maddalena, 1954), Alberto Lattuada (La steppa, 1963), Ettore Scola (La più bella serata della mia vita, 1972), Rosi (Cadaveri eccellenti, 1976; Tre fratelli).”

(Paolo Marocco - Enciclopedia del Cinema, 2004, in: www.treccani.it)

 

Una poesia al giorno

The Lover: A Ballad, di Lady Mary Wortley Montagu (1689-1762)

At length, by so much importunity press’d,
Take, C- -, at once, the inside of my breast;
This stupid indiff’rence so often you blame,
Is not owing to nature, to fear, or to shame:
I am not as cold as a virgin in lead,
Nor is Sunday’s sermon so strong in my head:
I know but too well how time flies along,
That we live but few years, and yet fewer are young.

But I hate to be cheated, and never will buy
Long years of repentance for moments of joy,
Oh! was there a man (but where shall I find
Good sense and good nature so equally join’d?)
Would value his pleasure, contribute to mine;
Not meanly would boast, nor would lewdly design;
Not over severe, yet not stupidly vain,
For I would have the power, tho’ not give the pain.

No pedant, yet learned; no rake-helly gay,
Or laughing, because he has nothing to say;
To all my whole sex obliging and free,
Yet never be fond of any but me;
In public preserve the decorum that’s just,
And shew in his eyes he is true to his trust;
Then rarely approach, and respectfully bow,
But not fulsomely pert, nor yet foppishly low.

But when the long hours of public are past,
And we meet with champagne and a chicken at last,
May ev’ry fond pleasure that moment endear;
Be banish’d afar both discretion and fear!
Forgetting or scorning the airs of the crowd,
He may cease to be formal, and I to be proud.
Till lost in the joy, we confess that we live,
And he may be rude, and yet I may forgive.

And that my delight may be solidly fix’d,
Let the friend and the lover be handsomely mix’d;
In whose tender bosom my soul may confide,
Whose kindness can soothe me, whose counsel can guide.
From such a dear lover as here I describe,
No danger should fright me, no millions should bribe;
But till this astonishing creature I know,
As I long have liv’d chaste, I will keep myself so.

I never will share with the wanton coquette,
Or be caught by a vain affectation of wit.
The toasters and songsters may try all their art,
But never shall enter the pass of my heart.
I loath the lewd rake, the dress’d fopling despise:
Before such pursuers the nice virgin flies:
And as Ovid has sweetly in parable told,
We harden like trees, and like rivers grow cold.

(Mary Wortley Montagu, The Lover: A Ballad, 1713, traduzione e commento di Furio Durando in: lapresenzadierato.com)

Ed alla fine, signorina cara,
per una volta sii tu ad ascoltare
quello che provo in cuore, a ciò sospinta
da te, che inopportuna troppo fosti.
Non a natura, paura o pudore
devo imputar la stupida indolenza
che così spesso biasimi: né son,
però, come una statua di vestale
in piombo, o forte in testa mi rimbomba
la predica del prete la domenica;
so ben, del pari, quanto il tempo vola,
che non si vive che per pochi anni,
e meno ancor son quelli giovanili.

Detesto esser tradita, tuttavia,
e mai vorrò scontar attimi lieti
pagandoli con anni di rimpianti.
Oh! Se esistesse chi (ma chissà dove
si mescolan buon senso e buon carattere?)
sappia esaltar il suo piacer, al mio
contribuir; non darsi delle arie
grettamente, non far piani da laido;
non esser troppo austero, ma neppure
insulsamente vuoto, ché vorrei
poter, eppure mai recargli pena.

Pedante zero, ed istruito, invece;
neppure licenzioso o ridanciano
forse perché non ha cose da dire;
con tutto intero il sesso femminile
si mostri sciolto e rispettoso a un tempo,
ma tranne me nessuna l’appassioni;
in pubblico preservi quel decoro
che si convien, e nello sguardo sveli
che veramente crede a quanto dice;
di rado poi m’accosti, e mi s’inchini
con educazione, non da sfrontato
ipocrita o rifícolo affettato.

Quando, però, sian l’ore interminabili
mondane ormai passate, e c’incontriamo
finalmente davanti ad un arrosto
e a uno champagne, ogni piacer
che viene da passione allieti l’attimo;
timore e discrezione sian banditi!
Scordandoci o beffandoci dell’arie
che in pubblico ci demmo, egli potrà
deporre l’etichetta ed io l’orgoglio.
Perduti dentro la felicità,
potremo confessare che viviamo,
lui esser impetuoso ed io indulgente.

Quella mia gioia possa aver radici
solide e forti, e fascinosamente
possa l’amico fondersi all’amante.
Nel suo tenero cuor possa fidar
l’anima mia, ed il suo garbo darmi
pace, farmi da guida i suoi consigli.
Con un siffatto caro innamorato
nessun pericol mi spaventerà,
nessun tesoro m’allontanerà;
se non avrò quest’essere stupendo,
ancor casta vivrò, come finora.

Io non avrò a che far con la cocotte
a caccia d’avventure coi maschietti,
e mai sarò sedotta da finzioni
d’erudizione vana. Adulatori
e incantatori potran dispiegare
tutte le loro abilità d’artisti,
ma del mio cuor non varcheranno il passo.
Mi disgustano i cialtroni puttanieri,
disprezzo i cicisbei impomatati:
davanti a questi spasimanti fugge
la vergine graziosa: e come Ovidio
narrò con una tenera parabola,
sappiamo farci dure come tronchi,
e come fiumi raggelar, d’inverno.


“Fin dall’antichità, le donne hanno contribuito in maniera significativa allo sviluppo scientifico. Medici, fisiche, matematiche, biologhe: la storia abbonda di donne che hanno fatto della scienza la loro ragione di vita, molto spesso incontrando difficoltà e pregiudizi da parte di una società che non riconosceva loro il giusto peso e l’enorme contributo che hanno dato al settore scientifico. Nell’ultimo secolo molte cose sono cambiate, ma forse oggi il cammino per certi aspetti è ancora disseminato di difficoltà. In questa rubrica racconteremo di donne tenaci e appassionate che non si sono mai arrese di fronte a un mondo dominato da uomini, e delle loro conquiste che hanno contribuito a cambiare (in meglio) il mondo in cui viviamo.

Bella, aristocratica, coraggiosa: Lady Mary Wortley Montagu ha incarnato lo spirito della donna moderna ed emancipata in un’epoca in cui le donne facevano molta fatica ad affermare il proprio pensiero. Nata in una famiglia dell’aristocrazia inglese, Lady Mary fin da giovanissima rifiuta le convenzioni e scappa con il suo futuro marito, destinato a diventare un’importante membro del Parlamento Inglese. Dall’isolata campagna, si trasferiscono a Londra, dove Lady Mary diventa un personaggio di spicco dell’alta società. Scrittrice, poetessa e intellettuale, frequentò e divenne amica di importanti personaggi del mondo della cultura e della scienza: da Mary Astell, una paladina dei diritti delle donne, ad Alexander Pope, uno dei maggiori poeti inglesi del Settecento, noto soprattutto per la sua vena satirica.

Quando il marito divenne ambasciatore, la coppia si trasferì a Istanbul, dove Lady Mary studiò gli usi e costumi orientali, raccogliendo tantissime informazioni nel libro Turkish Embassy Letters, che diventerà una preziosa testimonianza per i futuri orientalisti. Il soggiorno in Oriente fu fondamentale per la vita e il percorso di Mary Wortley Montagu: la studiosa è infatti considerata una figura chiave per la diffusione dei vaccini in Occidente. Ma andiamo per gradi. Nell’Impero Ottomano, Lady Mary, da sempre attenta e sensibile alla condizione delle donne, visitò gli Zenana, ovvero le stanze riservate alle donne, dove spesso vivevano segregate. Proprio in questi luoghi, vide per la prima volta praticare la variolizzazione, ovvero un metodo di protezione dal vaiolo che consisteva nell’inoculare, nel soggetto da immunizzare, del materiale prelevato da lesioni vaiolose o dalle croste di pazienti non gravi. La donna è entusiasta di questa scoperta, ma non solo: è talmente convinta della validità del metodo, che lo applica sul proprio figlio Edward e cerca in tutti i modi di convincere le autorità inglesi ad adottare la tecnica per combattere il vaiolo su vasta scala. Insomma, mise in atto la prima campagna vaccinale della storia.

Tenacissima, alla fine riesce a convincere anche i suoi amici a sottoporsi al trattamento, diffondendo la variolizzazione in tutto il Paese, ma non solo. La pratica si diffuse anche nel resto dell’Europa e arrivò in America. Quella che sembrava essere una vera e propria rivoluzione, incontrò però pareri molto discordanti e perplessità, anche se in molti continuarono a farsi inoculare questo “vaccino ante litteram”. La battaglia di Lady Mary era fortemente sentita perché combattuta in prima persona: suo fratello era infatti morto di vaiolo e lei stessa ne era rimasta sfigurata, le sue sofferenze furono così acute che rischiò la sanità mentale. La sua bellezza era stata deturpata, ma la sua forza non era stata scalfita dalla malattia.

Volle a tutti i costi proteggere i suoi figli facendoli inoculare, convinse moltissimi medici a diffondere questa pratica, vincendo le resistenze di molti che la ritenevano un retaggio orientale poco in linea con la moderna medicina. Dopo pochi anni sarà un uomo, Edward Jenner, a perfezionare la terapia e a inventare i veri e propri vaccini, sulla scia delle scoperte e della campagna vaccinale di Mary Wortley Montagu. Pur essendo una letterata e una poetessa, il suo nome è fondamentale per la scienza e il progresso medico: è stata lei a porre le basi di quella che sarà una delle invenzioni più importanti della storia della medicina. Senza dimenticare il grande numero di persone che, grazie a lei, si salvarono da una malattia che all’epoca era un vero e proprio flagello.”

(Daniela Ambrosio in www.elle.com)

Lady Mary Wortley Montagu (26 maggio 1689 - 21 agosto 1762) fu scrittrice, poetessa e aristocratica inglese.


Un fatto al giorno

21 agosto 1791: una cerimonia Vodou, guidata da Dutty Boukman, si trasforma in una violenta ribellione di schiavi, dando inizio alla Rivoluzione haitiana.

“La rivoluzione haitiana (in francese: Révolution haïtienne) fu una rivolta scoppiata per l'abolizione della schiavitù e contro il colonialismo da parte di un gruppo di schiavi liberati contro il governo coloniale francese a Saint-Domingue, attuale Haiti. Essa incominciò il 22 agosto 1791 alle 22:00, e si concluse nel 1804 con l'indipendenza della colonia.

Era all'epoca l'unico stato che si era costituito in nazione indipendente grazie a una rivolta di schiavi e che fosse governato da non bianchi ma da ex prigionieri. Essa fu uno dei momenti chiave nella storia del razzismo del Mondo Atlantico. I suoi effetti, e in particolare le norme contrarie alla schiavitù, ebbero un notevole influsso sulla politica schiavista nelle Americhe. La fine del governo francese e l'abolizione della schiavitù nell'ex colonia venne celebrata anche per la collaborazione con i mulatti contro gli europei.Rappresentò la più grande insurrezione di schiavi dall'epoca di Spartaco contro la Repubblica romana circa 1900 anni prima. Essa contribuì fortemente a cambiare il credo comune sul ruolo di inferiorità delle persone di colore e sulla capacità degli schiavi di ottenere e mantenere la loro libertà. La capacità organizzativa dei ribelli e la loro tenacia scioccò e spaventò molti schiavisti.

Per quanto coerenti come periodo, gran parte degli storici contemporanei distinguono la rivoluzione haitiana da quella francese. Alcuni hanno inoltre separato i primi conflitti armati dei mulatti dalla vera e propria lotta per l'abolizione della schiavitù. Il dibattito si è perlopiù incentrato sul tema della schiavitù e della liberazione degli schiavi che si concluse con la loro vittoria sulla plantocrazia e la creazione di un vero e proprio stato indipendente. Nell'aprile del 1791, un'insurrezione della popolazione di colore dell'isola si tramutò violentemente in una lotta contro il sistema delle piantagioni, sfruttando il malcontento per la condizione degli schiavi stessi. In cooperazione coi rivali mulatti, i neri dell'isola posero fine alla rivoluzione nel novembre del 1803 quando sconfissero l'esercito francese nella Battaglia di Vertières.

Anche se l'intero evento è riportato sotto il nome di "Rivoluzione haitiana", una visione alternativa suggerirebbe la considerazione di una serie di conflitti coincidenti che posero fine alla già fragile tregua tra mulatti e neri.

La questione principale ancora oggi affrontata dagli storici è se i vittoriosi haitiani fossero "intrinsecamente una forza rivoluzionaria". Una cosa è certa: Haiti divenne uno stato indipendente dal 1 gennaio 1804, quando il consiglio dei generali prescelse Jean-Jacques Dessalines per assumere il ruolo di governatore generale dell'isola. Uno dei primi documenti significativi dello stato fu il discorso "Libertà o morte" di Dessaliness, che circolò anche presso la stampa straniera. In esso, il nuovo capo dello stato propose l'obbiettivo principale della nuova nazione: perseguire e mantenere l'abolizione della schiavitù a Haiti.

A Haiti venne costituito un governo indipendente, ma la società nel paese rimase essenzialmente la medesima stabilita sotto il governo francese. Molti proprietari di piantagioni che avevano avuto figli mulatti con le loro schiave africane, avevano dato loro una educazione adeguata e, per i maschi, una formazione militare nell'esercito francese; i mulatti erano quindi la compagine dello stato più ricca e libera. Molti di questi usarono il loro capitale sociale per acquisire ulteriore ricchezza e altra terra. Alcuni incominciarono più a identificarsi coi coloni francesi che con gli schiavi.

La dominazione mulatta della politica e dell'economia dopo la rivoluzione contribuì a formare un'ulteriore società a due caste, di cui gli haitiani nativi costituivano quella più povera, composta perlopiù da contadini. Inoltre, nel 1825 il futuro del nascente stato venne compromesso quando la Francia obbligò la nazione a pagare 150.000.000 di franchi come riparazione per le condizioni in cui vennero tenuti gli ex schiavisti francesi, come pure per lo spirito di isolamento economico e politico tenuto da Haiti nei confronti della Francia. Per quanto l'ammontare delle riparazioni ai danni venne ridotto nel 1838, Haiti non fu in grado di pagare tutta la somma prevista e saldò i suoi debiti solo nel 1947, causando così un impoverimento dello stato e una consequenziale instabilità interna.

Gran parte dello sviluppo economico dei Caraibi era rappresentato dalla continua domanda di zucchero da parte degli europei, con la formazione di una serie di piantagioni che commerciavano con Europa e Nord America in cambio di beni lavorati. Santo Domingo disponeva inoltre di estese piantagioni di caffè, cacao e indigo, ma esse erano meno profittevoli rispetto a quelle di zucchero. A partire dagli anni '30 del Settecento, dei genieri francesi costruirono un complesso sistema di irrigazione per incrementare la produzione di canna da zucchero. Dagli anni '40 del medesimo secolo, Santo Domingo assieme alla Giamaica era divenuta uno dei principali fornitori di zucchero al mondo. La produzione di zucchero dipendeva in gran parte da lavoro manuale che veniva fornito dagli schiavi africani che lavoravano nelle piantagioni. Santo Domingo era inoltre la colonia francese con maggiore produzione di ricchezza, come pure nel mondo delle colonie del XVIII secolo, con un traffico di circa 600 navi all'anno nella tratta Santo Domingo-Bordeaux come pure verso le 13 colonie inglesi in America. Le persone che qui risiedevano erano circa 1 milione dei 25 milioni che risiedevano nel Regno di Francia nel 1789.

La schiavitù era la base della produzione ma essa doveva fare i conti col clima caraibico, con la malaria e con la febbre gialla. Nel 1787, i francesi importavano circa 20.000 schiavi dall'Africa solo verso Santo Domingo mentre gli inglesi importavano circa 38.000 schiavi in tutte le loro colonie nei Caraibi. La morte per febbre gialla era quasi del 50% degli schiavi e colpiva loro nel giro di un anno dal loro arrivo sull'isola, pertanto i proprietari preferivano sfruttarli al massimo per quanto possibile col consumo minimo di cibo sapendo che nel giro di breve comunque sarebbero morti. La morte era così diffusa che la poliandria - una donna sposata a più uomini nel contempo - era divenuta comune forma di matrimonio tra gli schiavi. Dal momento che gli schiavi non avevano diritti legali, lo stupro da parte dei padroni era cosa comune.

I proprietari bianchi di piantagioni che derivavano la loro ricchezza dalla vendita dello zucchero prodotto dagli schiavi sapevano che gli schiavi erano di numero superiore rispetto ai bianchi per un rapporto di 10 a 1 e vivevano pertanto nel terrore di una ribellione di schiavi. Anche per gli standard dei Caraibi, a ogni modo, gli schiavisti francesi erano noti per l'estrema crudeltà con cui trattavano i loro schiavi. I padroni bianchi utilizzavano sovente la violenza fisica per mantenere il controllo e limitare la possibilità di una ribellione. Quando degli schiavi lasciavano le piantagioni o disobbedivano ai loro padroni, venivano frustati o persino castrati o ustionati sia come punizione personale sia come lezione per gli altri schiavi. Luigi XIV, re di Francia, aveva approvato il Code Noir nel 1685 nel tentativo di regolare queste violenze nel trattamento degli schiavi, ma i padroni apertamente continuavano a disattendere il codice, e la locale legislazione certamente non aiutava in questo senso.

Nel 1758, i proprietari terrieri bianchi riuscirono a far passare una legge che prevedeva la restrizione dei diritti degli altri gruppi etnici presenti sulla base di un rigido sistema di caste. Gran parte degli storici sono soliti classificare la popolazione coloniale all'epoca in tre gruppi. Uno era quello dei coloni, o blancs. Questo gruppo era solitamente suddiviso a sua volta poi in proprietari terrieri e nella classe inferiore che solitamente era costituita da artigiani e lavoratori pagati a giornata.
La seconda classe era quella dei neri liberi (solitamente di razza mista, noti anche col nome di mulatti o gens de couleur libres, "persone libere di colore"). Queste gens de couleur tendevano a essere ben educate in quanto a istruzione e solitamente prestavano servizio nell'esercito o come amministratori nelle piantagioni. Molti erano figli dei padroni e di schiave locali, mentre altri avevano acquistato la loro libertà dal loro stesso padrone grazie alla vendita di prodotti artistici da loro realizzati. Spesso ricevevano un'educazione letteraria o artigianale e talvolta potevano ricevere in omaggio anche della terra dai loro ex proprietari. Alcune gens de couleur incominciarono quindi persino ad avere proprie piantagioni con propri schiavi.
Il terzo gruppo, che superava tutti gli altri, era quello degli schiavi africani. Essi continuavano a mantenere la loro cultura africana separata rispetto a quella delle altre persone sull'isola. Molte piantagioni avevano una grande concentrazione di schiavi da una particolare regione dell'Africa, e pertanto questo rendeva più semplice per alcuni gruppi mantenere gli elementi fondanti della loro cultura, della loro religione e della loro lingua. Questo inoltre separava i nuovi schiavi provenienti dall'Africa dai creoli (schiavi nati nella colonia) che già avevano collegamenti con l'isola e quindi più possibilità di emancipazione. Molti schiavi parlavano il patois, una lingua derivata dal francese ma mista al creolo che era molto utilizzato dai mulatti e dai bianchi anche per comunicare coi loro lavoranti. La maggioranza degli schiavi era di stirpe Yoruba e proveniva dall'attuale Nigeria, oppure di stirpe Fon dall'attuale Benin e dal Regno del Congo in quella che è l'attuale Angola settentrionale e Congo occidentale. I congolesi raggiungevano il 40% della popolazione totale degli schiavi ed erano pertanto il più vasto gruppo etnico africano presente tra gli schiavi haitiani. Gli schiavi seppero sviluppare qui anche una loro religione, una mistura tra cattolicesimo e religioni africane occidentali nota come voodoo.

Solitamente i coloni bianchi e gli schiavi neri entravano in conflitti violenti. Lo storico francese Paul Fregosi scriveva: "Bianchi, mulatti e neri sono in lotta gli uni con gli altri. I poveri bianchi non possono sopportare i bianchi ricchi, i ricchi bianchi inveiscono contro i poveri bianchi, la classe media dei bianchi è gelosa della propria aristocrazia bianca, i bianchi nati in Francia guardano con disappunto bianchi e mulatti nati sull'isola; i neri liberi se la prendono con quanti sono ancora schiavi, come pure gli haitiani neri nati sull'isola da schiavi africani. Ognuno vive nel terrore di qualcun altro... Haiti era un inferno, ma Haiti era ricca". Molti di questi conflitti coinvolgevano schiavi fuggiti dalle piantagioni che erano definiti maroon e si ritiravano nelle aree montuose del centro dell'isola, vivendo di ruberie perpetrate ai danni dei loro stessi padroni. Altri fuggivano verso i villaggi nella speranza di confondersi con gli schiavi urbani o schiavi liberati che qui si concentravano. Se catturati, questi schiavi fuggiti venivano severamente e violentemente puniti. A ogni modo, alcuni padroni dimostrarono di tollerare il petit marronages, una breve assenza dalle piantagioni.

Spesso, comunque, erano in molti gli schiavi a fuggire tra i boschi senza controllo che poi si rivalevano sulle stesse piantagioni compiendo devastazioni tra le piante di zucchero e caffè. I numeri di schiavi facenti parte di queste bande era spesso di un centinaio, ma mancavano di una guida adeguata e di una strategia per portare a compimento obbiettivi su vasta scala. Il primo capo maroon conosciuto che riuscì a emergere per il proprio carisma fu François Mackandal, che riuscì a unificare questa resistenza nera in un gruppo omogeneo. Sacerdote voodoo haitiano, Mackandal ispirò la sua popolazione a riprendere le tradizioni africane. Riunì diverse bande di maroon e stabilì una rete di organizzazioni segrete tra le piantagioni di schiavi, guidando una ribellione che perdurò dal 1751 al 1757. Mackandal venne infine catturato dai francesi e condannato a morte sul rogo nel 1758, ma comunque grandi bande di maroon continuarono a persistere e a condurre dei raid anche dopo la sua scomparsa.

Nel 1789 Santo Domingo produceva il 60% del caffè nel mondo e il 40% di zucchero nel mondo, importato prevalentemente da Francia e Gran Bretagna. La colonia era il possedimento più profittevole dell'impero coloniale francese. Santo Domingo era inoltre la più ricca e prospera colonia di tutte le colonie dei Caraibi.

Nel 1789, i bianchi ammontavano a 40.000; i mulatti e i neri liberi a 28.000, mentre gli schiavi neri erano 452.000. La classe sociale più bassa era quella degli schiavi neri che superavano il numero degli schiavi e dei neri liberati di sei a uno. La popolazione di schiavi sull'isola era quasi la metà degli schiavi presenti in tutti i Caraibi nel 1789. Due terzi di questi erano africani per nascita che tendevano a essere meno sottomessi rispetto a quelli nati nelle Americhe. La percentuale di morte nei Caraibi superava di gran lunga quello delle nascite e pertanto l'importazione di schiavi era necessaria per mantenerne i numeri richiesti dalle piantagioni. La popolazione di schiavi calava ogni anno del 2-5%, per troppo lavoro, per la mancanza di cibo e cure adeguate, per mancanza di vestiti, con uno sbilancio tra i due sessi che portava ad avere più uomini che donne. Alcuni schiavi appartenevano alla classe dell'élite creola di schiavi urbani e domestici, che lavoravano come cuochi, servitori o artigiani nelle case attorno alla piantagione. Questa classe relativamente privilegiata era costituita in gran parte da schiavi nati nelle Americhe, mentre la sottoclasse dei nati in Africa era composta da lavoratori.

Tra i 40.000 bianchi che popolavano Santo Domingo nel 1789, i francesi monopolizzavano gli incarichi amministrativi. I proprietari delle piantagioni, i grands blancs, erano aristocratici minori. Molti ritornarono in Francia non appena possibile, sperando di evitare di venire coinvolti nelle epidemie di febbre gialla che regolarmente infestavano la colonia. La classe minore dei bianchi, i petits blancs, erano artigiani, ciabattini, gestori di schiavi, marinai e lavoratori pagati a giornata.

Nel 1789 le gens de couleur erano giunte a 28.000. Le leggi discriminatorie dell'epoca prevedevano per loro un codice d'abbigliamento particolare e impedivano loro di occupare determinati incarichi pubblici. Molti di questi erano artigiani o marinai, servitori domestici, ecc. Le Cap Français, un porto settentrionale dell'isola, aveva la maggiore popolazione di schiavi liberati, e questi furono gli uomini che divennero personalità chiave nel corso della ribellione e poi della rivoluzione che ebbe inizio nel 1791. …”

(Articolo completo in wikipedia.org)

 

“Dall’archivio del Voodoo Council©
Ricordo della Gran Sacerdotessa Mambo Nu’Utea. Assemblea della Comunità 21 agosto 1791, in memoria della 7° grande possessione avvenuta nella storia della comunità Vodun”

(Il documento si può leggere al link: www.caputdraconis.it)

 

“…stereotipo di Haiti riguarda la superstizione: quando si pensa a quest’isola americana (ma totalmente africana) viene in mente il voodoo, la magia nera, lo spiritismo: bamboline con spilli conficcati che hanno il potere di indurre dolori ai propri nemici, e poi gli zombie, ovviamente. Ma, come in tutte le realtà semplificate dagli stereotipi, dietro c’è molto di più. Per esempio il Cristianesimo. Ed è proprio una giornalista di Avvenire, Lucia Capuzzi della redazione Esteri, a raccontarci di questa “perla nera dei Caraibi”, su cui scrisse un libro all’epoca del devastante terremoto del 2010. Il suo racconto è parte del bellissimo spettacolo Oltreconfine che raccoglie Storie dal mondo (live) su vari temi. Qui si parlava di quello che più ci interessa: il fantasma di fumo, lo stereotipo che dilaga tanto da distruggere qualsiasi altra visione che la gente riesca ad avere su un determinato luogo, persona, cosa o animale (azione, sentimento, religione, genere ecc.).

Anzitutto il voodoo: dal punto di vista di chi non è di Haiti “è solo magia nera, ma nella realtà è una religione come tutte le altre”, forse quella con le radici più antiche. Solo meno conosciuta e quindi più stereotipata. “Spiega perché ti capitano certe cose, separando”, e insieme unendo, “reale e irreale”. L’origine (incerta) è stata stabilita in Africa occidentale, precisamente in Benin (“voodoo” significa appunto “spirito” in Fon, la lingua locale) sviluppandosi, appunto, da antichissime tradizioni animiste.

Le forme praticate oggi, tuttavia, sono il risultato della… schiavitù. I primi indizi dal nome stesso del loro Dio. “Il voodoo insegna la fede in un essere supremo chiamato Bondye” - per caso vi ricorda il francese bon dieu? - “un dio creatore inconoscibile”, scrive Live Science. Al contempo “i credenti adorano molti spiriti (chiamati Loa), ognuno dei quali è responsabile di un determinato dominio o parte della vita”. Un po’ come unire dio, i santi e un pizzico di mitologia (gli spiriti possono essere anche sposati tra loro, ognuno con le sue storie e caratteristiche). “I seguaci credono infine in un’energia universale e un’anima che può lasciare il corpo durante i sogni e le possessioni degli spiriti. Oltre ad aiutare (o impedire) gli affari umani, infatti, i Loa possono anche manifestarsi nei corpi dei loro fedeli”.

Nella tradizione ogni Loa viene rappresentato da uno o più sigilli esoterici, i Veve, tracciati al suolo con polveri dal diverso significato. Una sorta di scrittura spirituale e astrale. Ma la possessione spirituale non ha la connotazione negativa che gli dà il Cristianesimo, entità demoniache che agiscono contro la volontà del posseduto: “nel voodoo la si desidera. In una cerimonia guidata da un sacerdote o sacerdotessa, è considerata un’esperienza spirituale preziosa, una connessione di prima mano con il mondo spirituale”. Piuttosto fu il tentare di possedere l’altrui libertà attraverso lo schiavismo - di fatto l’utilizzo del corpo di uomini e donne - da parte di gente “Cristiana” che paradossalmente fece nascere il voodoo.

Pensate a milioni di schiavi africani, animisti o musulmani, su terre all’epoca spagnole (e poi francesi) e cattoliche (l’isola di Hispaniola, divisa tra Haiti e la Repubblica Dominicana) e indigeni già sterminati. I nuovi arrivati dall’Africa, oltre a essere sfruttati fisicamente furono costretti ad abbracciare la nuova religione: ne nacque per forza di cose una mescolanza, il voodoo e la cultura creola, appunto. E una facile associazione tra spiriti e santi: per esempio Damballah, divinità serpente della pioggia, saggezza e fertilità venne associato a San Patrizio caratterizzato dallo stesso rettile.

Quella che fu poi la grande ribellione degli schiavi nel 1791, avvenne proprio durante un rito voodoo, quindi la liberazione per loro è legata indissolubilmente a esso con un enorme significato positivo. Come i partigiani col 25 aprile.

Ma solo a seguito delle deportazioni comparve una divinità in particolare ed era Baron Samedi, lo spirito dei morti. A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 ad Haiti prese il potere il dittatore Francois Duvalier, meglio conosciuto come “Papa Doc”. Era un medico di fama che usava “il voodoo per terrorizzare la popolazione”. “Dopo un coma diabetico durato 9 ore, l’uomo apparve molto cambiato, iniziando a mostrarsi in pubblico con le sembianze dello spirito dei morti. Vestiva con il frac, cappello a cilindro, occhiali neri e sigaro, come veniva rappresentata questa divinità dedita a oscenità e dissolutezze (e una certa predilezione per il tabacco e il rum).
L’unico obiettivo dei Tonton Macoute era incentivare il terrore. “Milizia informale” creata appositamente da Papa Doc, “si chiamava come l’uomo col sacco di iuta, dalla mitologia creola haitiana. L’uomo nero che porta via i bambini che restano fuori casa troppo a lungo. Quanti erano contro Duvalier sparivano: “i primi desaparecidos furono di Haiti”, prima dei più famosi latini. “Spettri senza volto che terrorizzavano gli oppositori”. La tecnica era particolarmente funzionale perché agiva anche sulla “paura di non riavere i corpi perché si crede che torneranno in vita”. Ed ecco da dove nascono gli zombie. E le bambole voodoo. Nonostante la parola suggerisca chiaramente la religione di Haiti, esse non hanno grande spazio da quelle parti: pare infatti derivino da una pratica magica… europea! In particolare in Inghilterra si costruivano le bambole di streghe da infliggere con spille per interromperne i malefici.

“Ma Haiti resta un’isola degli spiriti. Fu il primo pezzo americano a rendersi indipendente, ma non c’è mescolanza oggi, è vera Africa. Ospita alberi e animali di ogni tipo, qui è la natura a essere predominante. Forse è per questo che si presta così tanto all’immaginazione, alla magia. Durante il tragico terremoto del 2010 morirono più di 200mila persone, fu quindi necessario usare delle fosse comuni. Questo ha creato un grande smarrimento ulteriore, in una popolazione che sentiva di avere offeso gravemente gli spiriti. Haiti è primordiale, ti riporta per forza all’essenziale”.

(In: stereotypemag.com)

 

Una frase al giorno

“Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli.”

(Emilio Salgàri, novelliere e romanziere, nato a Verona il 21 agosto 1863, morto suicida a Torino il 24 aprile 1911)

"Capitano marittimo mercantile, Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgàri dai 18 ai 25 anni percorse largamente i mari; ma il giornalismo e la letteratura l'attrassero presto a descrivere e a narrare le tante cose vedute e le proprie invenzioni di straordinarie avventure. Dagli articoli e dai racconti nell'appendice di periodici quotidiani salì ai volumi che ottennero gran successo tra gli adolescenti, vaghi di pericoli e combattimenti eroici e di sentimenti cavallereschi. La voga di tali suoi racconti parve diffondersi anche fuori d'Italia, in traduzioni tedesche, inglesi, francesi, spagnole, cèche.
Dopo la guerra mondiale ciò che fu chiamato "il fenomeno Salgari", fenomeno cui, per la pietà della morte, non mancò una certa sanzione ufficiale nel parlamento, si può considerare terminato. Mentre i ragazzi si divertono tuttavia, certo meno di un tempo, a questo o a quell'altro libro del S. (sono numerosissimi: La scimitarra di Budda, Milano 1890; I pescatori di balene, ivi 1891; Il paese dei ghiacci, Torino 1896; I pirati della Malesia, Genova 1897; I pescatori di trepang, Milano 1897, ecc.), l'estimazione critica respinge il titolo dato al S. di "Verne italiano". Questi, il Verne, romanziere didattico, pur non avendo facoltà superiori d'arte, creò personaggi tipici, specialmente nell'eroicomico, e congegnò strutture organiche di casi, talvolta prevenendo con l'immaginazione e con dottrina sagace le invenzioni e le scoperte che oggi ammiriamo; mentre il S. fu poco più di un vivace espositore di scene quasi prive d'organismo, in cui la curiosità è superficiale e dove mancano pregi di stile.”

(In www.treccani.it)

 

Regia: Enrico Guazzoni
Sceneggiatori: Nino Angioletti, Alessandro De Stefani
Cast: Doris Duranti, Fosco Giachetti, Camillo Pilotto, Primo Carnera
Dopo l'assassinio del Corsaro Verde, Manuela, sua figlia, salva la vita a un giovane di alto lignaggio, infiltrato tra i pirati, e con lui sbaraglia i banditi. La figlia del Corsaro Verde è un film del 1940 diretto da Enrico Guazzoni. La pellicola è ispirata al ciclo de I corsari delle Antille di Emilio Salgari, ma l'omonimo romanzo - uscito nell'aprile del 1941 presso Sonzogno, era in realtà un apocrifo scritto da Renzo Chiarelli.

 

Emilio Carlo Giuseppe Maria Salgàri (Verona, 21 agosto 1862 - Torino, 25 aprile 1911), autore e giornalista italiano, è stato uno scrittore italiano di romanzi d'avventura molto popolari.

 

Un brano musicale al giorno

Yannis Constantinidis, Dodecanesian Suite No 2 (1949)

1. Lento e solenne 00:00
2. Scherzino: Vivo e leggiero 02:22
3. Andante con moto 06:32
4. Lento e mesto 08:36
5. Lamento: Lento funebre 11:50
6. Finale: Moderato quasi narrativo 14:01

Athens Philharmonia Orchestra
Byron Fidetzis, direttore

Ioannis Constantinidis, noto anche con lo pseudonimo di Kostas Giannidis (21 agosto 1903 - 17 gennaio 1984) è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra greco. Constantinidis nacque a Smirne (oggi Izmir) nel 1903. Arrivò in Grecia dopo la distruzione di Smirne e continuò i suoi studi a Berlino (1923-1931). Tornò ad Atene e lavorò come direttore e compositore al teatro musicale componendo molte operette, commedie musicali e riviste. Avrebbe firmato e pubblicato le sue opere popolari come Kostas Giannidis e le sue composizioni classiche come nome di nascita. Morì ad Atene nel 1984.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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