L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...
Un film al giorno
THE LOVED ONE (Il caro estinto, Usa, 1965), regia di Tony Richardson, basato su un romanzo di Evelyn Waugh. Sceneggiatura: Terry Southern, Christopher Isherwood. Fotografia: Haskell Wexler. Montaggio: Hal Hashby, Antony Gibbs, Brian Smedley-Aston. Musica: John Addison. Con Rod Steiger, James Coburn, Dana Andrews, John Gielgud.
Licenziato su due piedi da uno studio cinematografico di Hollywood in cui lavorava da tempo, Sir Francis Hinsley non trova di meglio che uccidersi. Il nipote, Dennis Barlow, viene incaricato dalla colonia inglese di organizzare, per dignità di patria, un sontuoso funerale. Così egli ha modo di conoscere Emy Thanatogenos, estetista nella mastodontica e fastosa industria funeraria che va sotto il nome di "Sentieri melodiosi". Se ne innamora ma ha un rivale nella persona dell'inibito quanto abile dottor Joyboy, imbalsamatore capo. Rimasto senza quattrini, Dennis trova lavoro in un'industria collaterale, che tratta di onoranze funebri riservate agli animali domestici. Qui, mentre Emy tentenna fra i due suoi corteggiatori e chiede consiglio all'avvinazzato redattore d'una rubrica giornalistica di confidenze sentimentali, Dennis ha un'idea originale. Sfruttando le innegabili qualità scientifiche d'un adolescente genialoide, egli dispone che gli animali estinti, per mezzo di razzi casalinghi, siano spediti nello spazio. L'idea piace al prestigioso Wilbur Glenworthy, conosciuto come il "Beato reverendo", l'untuoso e sinistro proprietario di "Sentieri melodiosi" il quale, volendo utilizzare in altro modo il terreno ormai saturo del suo cimitero, non sa come sbarazzarsi delle salme. Il metterle in orbita offrirebbe vantaggi evidentissimi ed aprirebbe nuove possibilità all'industria funeraria. Quando Emy scopre che dietro alla reboante retorica del "Beato reverendo" non v'è che il cinismo d'un uomo d'affari, per di più vizioso, delusa, si uccide. Per soffocare lo scandalo sarà proprio la sua salma ad essere per prima lanciata nello spazio stellare, al posto di quella d'un famoso astronauta, il cui corpo finirà invece, alla chetichella, tra cani e gatti, nel cimitero degli animali.
“Un giovane poeta beat inglese, dopo un breve soggiorno a Hollywood finisce nell’industria funeraria americana. Descrizione grottesca del mondo americano, dal cinema ai cimiteri, dall’esercito alla stampa. Dopo la produzione tipicamente inglese di Sapore di miele e Gioventù amore e rabbia, Richardson assume una tecnica narrativa più complessa anche se meno compatta. E’ in ogni caso, questo, un film la cui satira, elaborando alla luce di un’ideologia totalmente demistificatrice i materiali della polemica superciliosa di Waugh, si avventa non tanto sulla civiltà, quanto, più a fondo, sulla società americana, sulle sue strutture, sul suo sistema di potere”.
(Alberto Abruzzese)
"Il film con qualcosa che offende chiunque": con questo slogan la MGM ha distribuito il primo lavoro americano di Richardson, forte del successo internazionale ottenuto con Tom Jones. Con l'aiuto di una serie di sceneggiatori (un po' troppi, a giudicare dalla frammentarietà del risultato), dei quali sono stati poi accreditati solo Christopher Isherwood e Terry Southern, Richardson trae dal romanzo di Evelyn Waugh una commedia nera dalle risonanze sinistre che spara cinicamente su tutto: religione e culto dei morti, televisione, mondo del cinema, perbenismo borghese, politica, esercito, consumismo, ecc. Sebbene discontinuo, il film presenta sequenze di una cattiveria esemplare e non teme di raggiungere livelli paradossali nelle sue caricature (come in tutta l'idea dei funerali spaziali, che non c'era nel romanzo). Richardson ha il merito di non mettersi sopra a nessuno (nel suo primo film statunitense demolisce i miti americani, ma non è tenero nemmeno con la madrepatria) e di non mettere nessun personaggio sopra gli altri: il protagonista è infatti un inetto perdigiorno che spaccia per suoi versi che copia da un'antologia di poesia solo per far colpo su un'ingenua e svampita imbalsamatrice, come se la amasse perdutamente, senza però battere ciglio quando poi la giovane si uccide. Il caro estinto presenta una galleria di interpreti sorprendente, tra i quali spiccano uno splendido John Gielgud nei panni dello zio da seppellire e Rod Steiger in quello di Joyboy, un maturo truccatore di cadaveri edipicamente dipendente dalla madre obesa. Tra gli altri compaiono anche Tab Hunter nel ruolo di una guida del cimitero e Liberace in quella di un venditore di bare (è la sua unica partecipazione cinematografica in cui non suona il pianoforte). Sebbene non vi sia nulla di esplicito, molti commentatori hanno intravisto in vari personaggi allusioni omosessuali, e in effetti è facile leggere in questo senso il pittore interpretato da Gielgud o l'effeminato venditore di bare di Liberace, per tacere di Joyboy, che non ha padre, è morbosamente attaccato alla madre e, benché corteggi una ragazza, difetta di machismo (cosa singolare per Steiger, che a tratti sembra una caricatura di Peter Sellers). Insomma, un "film con qualcosa di ambiguo per chiunque", che oltretutto presenta un singolare assortimento di attori gay ed è frutto anche di uno sceneggiatore gay e di un regista bisessuale, senza contare che Evelyn Waugh, prima di sposarsi, negli anni '20 era un ben noto "frequentatore" della scena gay e ai suoi amanti si ispirò per i numerosi personaggi omosessuali delle sue opere, particolarmente Brideshead Revisited (trasformata poi in una miniserie di successo nel cui cast figura ancora Gielgud).
(Mauro Giori in "Il caro estinto" - CulturaGay.it)
- Estratti in: www.youtube.com 1 e www.youtube.com 2
Una poesia al giorno
Anniversario, di Ada Negri
Non chiamarmi, non dirmi nulla
Non tentare di farmi sorridere.
Oggi io sono come la belva
che si rintana per morire.
Abbassa la lampada, copri il fuoco,
che la stanza sia come una tomba.
Lascia ch’io mi rannicchi nell’angolo
con la testa sulle ginocchia.
L’ore si spengano nel silenzio.
Salga in torbide onde l’angoscia
e m’affoghi: altro non chiedo
che di perdere la conoscenza.
Ma non è dato. Quel volto,
quel riso l’ho sempre davanti.
Giorno e notte il ricordo m’è uncino
confitto nella carne viva.
Forse morire io non potrò
mai: condannata in eterno
a vegliare il mio strazio in me,
piangendo con occhi senza palpebre.
Un fatto al giorno
23 luglio 1942: il poeta bulgaro e leader comunista Nikola Vaptsarov viene giustiziato. Nikola Vaptzarov è nato a Bansko, un paese della Bulgaria sud-occidentale, il 7 dicembre 1909 ed è caduto sotto il piombo fascista del plotone d'esecuzione il 23 luglio del 1942. Aveva dunque solo 33 anni. La sua breve vita è ricca di esperienze: studente di liceo, allievo della Scuola Nautica di Varna, operaio, macchinista di locomotive, fabbricatore di ordigni esplosivi per la lotta contro i nazisti che avevano invaso il suo paese, dirigente politico del Partito operaio bulgaro. La sua prima e unica raccolta di versi, I canti del motore (Motorni Pesni), vede la luce nel 1940. Ma come poeta era già noto almeno dal 1935 col nome di Nicola Ioncov.
Avendo preso parte all'azione per la pace all'inizio della guerra, è arrestato una prima volta nel 1941. Rilasciato per mancanza di prove a suo carico, riprende l'attività di cospiratore e dì artificiere al fianco del colonnello Zvetan Radoinov, uno dei capi della Resistenza. Il secondo arresto avviene al principio dell'anno seguente. Per quattro mesi è torturato perché denunci i compagni, ma Vaptzarov parla solo per assumere su di sé ogni responsabilità:
"Sono un antifascista, un figlio della mia Patria e odio gli invasori hitleriani: per questo faccio parte della Resistenza".
La sentenza di morte è eseguita al campo di tiro della Scuola Ufficiali nei pressi di Sofia.
Il periodo della sua maturità poetica coincide con gli ultimi sette anni della sua vita. I suoi versi persuadono per la foga dei sentimenti, per la forza morale che li sostiene. Vaptzarov è un poeta ricco di fervore giovanile, di generosa purezza. Della gioventù ha la grazia, l'acerbità, lo slancio. Anche quando gli elementi costitutivi della visione sono aspri, duri, realistici, l'onda della sua ispirazione li sommuove, li intride di sogno, di rapita emozione. Scrivendo i suoi versi egli ha sempre cercato la parola viva, parlata, l'espressione che ha radice nella lingua quotidiana, popolare. Essere conciso, naturale: scrivere col tono diretto, con la vivacità e la passione del discorso rivolto a un amico, a un compagno, a un operaio, questo è il concetto che sta alla base della sua poetica. Per queste ragioni, senza dubbio, egli deve essere considerato la voce più fresca e viva nella nuova poesia bulgara.
(Biografia tratta da "21 poeti bulgari fucilati", a cura di M. De Micheli, Milano-Roma Edizioni Avanti! 1960, Collana omnibus "Il gallo")
Un sua poesia:
FEDE (ВЯРА)
Ecco: io respiro, lavoro, vivo
e scrivo versi,
così come posso.
Io e la vita ci guardiamo rabbiosi,
di traverso e contro la vita
io lotto
sino all'estremo.
Sono in conflitto con la vita
ma tu non pensare che io la disprezzi:
anche alle soglie della morte
continuerei ad amare la vita,
le sue brutali mani d'acciaio.
Ancora l'amerei.
E se mi stringessero al collo
un nodo scorsoio,
chiedendomi se ancora per un'ora
volessi restare in vita,
io griderei senza indugio:
"Via questa corda,
o carnefici!"
Per la vita affronterei ogni prova:
volerei dentro una macchina senza collaudo,
entrerei in un razzo esplosivo
per cercare da solo nello spazio
lontani pianeti.
E anche così
sentirei un sottile fremito
vedendo com'è azzurro il cielo
lassù,
proverei l'incantevole brivido
d'essere ancora in vita,
d'esistere ancora domani.
Ma se voi mi prendete,
quanto?
un solo grano della mia fede,
allora getterò un grido,
urlerò di tormento
come pantera ferita al cuore.
Che resterebbe allora di me?
Un attimo dopo la vostra rapina
sarei distrutto,
o più esattamente, più
chiaramente,
un attimo dopo la vostra rapina
di me non resterebbe
altro che il nulla.
Voi forse volete abbattere
la mia fede nei giorni felici,
in un domani dove la vita
sarà più saggia e serena?
Ma come potrete abbatterla, dite?
Con raffiche di proiettili?
No, non i conviene tentare,
sarebbe tempo perduto.
La mia fede è difesa saldamente
dentro il mio petto
e il piombo capace
di penetrare questa corazza,
ancora non è stato trovato,
nessuno l'ha ancora scoperto!
Una frase al giorno
“Non mi sento per niente vecchio. Al massimo, leggermente anziano”.
(Marcello Vincenzo Domenico Mastroianni, 1924-1996, attore italiano)
Un brano al giorno
“Ma ndo vai se la banana...” da “Polvere Di Stelle”, scritto, diretto e interpretato da Alberto Sordi con Monica Vitti, 1973.
Ugo Brusaporco
Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.
INFORMAZIONI
Ugo Brusaporco
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web www.brusaporco.org