“L’amico del popolo”, 23 marzo 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

WHEN IN ROME (Sinfonia Fatale, Italia, 1946), regia di Victor Stoloff. Soggetto: Victor Stoloff. Sceneggiatura: Oreste Biancoli, Victor Stoloff, Louis Goldwing. Casa di produzione: Scalera Film. Fotografia: Ubaldo Arata. Montaggio: Eraldo Da Roma. Musiche: Renzo Rossellini.
Cast
Douglass Montgomery: John Savage. Marina Berti: Mirella. Sarah Churchill: Iris Savage. Tullio Carminati: Pedro Diaz. Victor Rietti: Beppo. Carlo Romano: Giorgio. Kent Walton: Teddy Malon. John Blythe: Bert Smith. Sergio Capogna: Rocco. Claudio Gora: Rodolfo Marini. Renzo Merusi: tenore d'Errico. Pina Gallini: Nunziata, moglie di Beppo. Pina Piovani: Lina, moglie di Pedro. Cesare Fantoni: sacerdote. Giuseppe Pierozzi: impiegato galleria d'arte. John Payne: pittore Pierre Robert.

Il giovane compositore americano John Savage, separato dalla ricca moglie inglese, vive a Roma finché un giorno, invitato da Pedro, un suo amico pittore, non si trasferisce in un paesino di montagna poco distante dalla capitale. Presto, ispirato dall'amore per Mirella, una bella ragazza del paese con la quale ha intrecciato una relazione, John compone una sinfonia. Ma la guerra costringe i due innamorati a separarsi: dopo che il musicista si è arruolato nell'esercito americano, la ragazza non ha più sue notizie. Il conflitto fa però in modo che John torni al paese dove, ferito, trova aiuto presso i suoi amici di una volta. Mirella, che ancora lo ama profondamente, rischia la vita per procurargli un medico, ma, dopo esserci riuscita, viene catturata dai tedeschi. Ma gli angloamericani avanzano e salvano i due innamorati. L'uomo attraversa quindi un periodo di grave crisi, che riaccende in lui l'amore per l'arte ma anche per la moglie: i due coniugi tornano assieme, mentre le opere del musicista riscuotono tutte un enorme successo. Mirella, rimasta sola con i propri ricordi come unica consolazione, muore in un incidente, mentre ormai è prossima a diventare madre.
 

“Un titolo risalente al lontano 1946 subito dopo il secondo dopoguerra. Nota anche con il nome originale di When in Rome, la pellicola è stata realizzata tra Italia e Gran Bretagna, con la produzione curata in collaborazione da Scalera Film e Società delle Nazioni. Dura circa 90 minuti e il film è stato diretto dal regista di origine russa Victor Stoloff, che si è occupato anche del soggetto e della sceneggiatura con la collaborazione di Oreste Biancoli e Louis Goldwing. Tra i film da lui diretti, vanno segnalati Little Isles of Freedom, Egypt by Three, Intimacy, The 300 Year Weekend, Why e A caro prezzo. È stato anche un apprezzato montatore e produttore esecutivo. La fotografia è di Ubaldo Arata, mentre le musiche sono di Renzo Rossellini, fratello dell’indimenticato regista Roberto.

 

Anche il cast è di primissima categoria. Il ruolo da protagonista principale è stato affidato all’interprete americano Douglass Montgomery, uno dei più amati tra gli anni Trenta e Quaranta. Al suo fianco Marina Berti, moglie del collega Claudio Gora e madre dell’attore Andrea Giordana.

Il cast è completato da Tullio Carminati, Guido Celano, Victor Rietti, Carlo Romano, Pina Gallini, Claudio Gora e Renzo Merusi. Ma ecco in breve la trama del film. È il classico film bellico, anche se dietro si nasconde una storia del tutto particolare e interessante. Protagonista principale è un musicista americano coinvolto nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Tra una battaglia e l’altra, si imbatte in una giovane contadina italiana. Lui si innamora e lei non è indifferente alle sue avances. La ragazza aiuta il compositore a nascondersi dai tedeschi, nel frattempo hanno assalito la città di Roma causando una lunga serie di morti. Dopo la guerra, il musicista torna da sua moglie e la contadina resta da sola e incinta, sedotta e abbandonata.”

(In www.ilsussidiario.net)

"... La regia di Victor Stoloff è sempre attenta e scrupolosa: difetta forse nel coordinare le scene tra loro, che spesso sono discontinue e mancati di mordente. Non sono rari però i momenti di puro linguaggio cinematografico e non mancano notazioni squisite. Gli interpreti sono stati ben scelti e se la cavano tutti con onore (...)".

(E. Comuzio, "Hollywood", n. 49 del 6/12/1947. In www.cinematografo.it)

“Un curioso esempio di produzione "internazionale" ante-litteram, in cui convivono un regista russo e un cast italo-anglosassone, per raccontare una storia che più composita non si può: attraverso vari episodi in flashback che si snodano fra il 1939 e il 1947, un musicista americano viene a contatto con l'Italia, conosciuta prima attraverso i salotto post-dannunziani del Ventennio e poi attraverso i villaggi occupati dai Nazisti durante la guerra, per finire con la Liberazione e l'immancabile trionfo post-bellico, che qui si traduce nella solita tournée dei grandi teatri italiani. Difficile raccontare più in dettaglio la trama, proprio perché generi e atmosfere si alternano continuamente, passando dal dramma decadente al melodramma rurale al film di guerra.
Un mosaico non del tutto riuscito, ma sicuramente interessante. La parte più vivace mi sembra comunque quella dedicata alla vita contadina nelle campagne romane (dove la colonna sonora di Renzo Rossellini rielabora fra l'altro il patrimonio musicale del luogo), ma anche gli altri episodi riservano momenti più o meno riusciti, solo che manca la mano di un regista in grado di tenere insieme atmosfere e stili così disparati.”

(In www.dvdessential.it)

  • Il film: "Sinfonia Fatale" (Douglass Montgomery, Marina Berti, Sarah Churchill) 1947

 

Un grande direttore della fotografia: Ubaldo Giacomo Tommaso Arata, nato a Ovada (Alessandria) il 23 marzo 1895 e morto a Roma il 7 dicembre 1947. Professionista di talento, Arata operò nel periodo che va dagli anni del muto fino all'immediato dopoguerra, concorrendo alla nascita del cinema sonoro italiano. Il suo nome resta legato alle immagini di Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, girato in condizioni assai precarie, utilizzando energia elettrica rubata e rulli di pellicola fotografica recuperati in maniera avventurosa, anche se A. aveva già fornito prova di grande maestria agli albori del sonoro italiano, in particolare nelle atmosfere delicate di Rotaie (1930) di Mario Camerini, rileggendo e aggiornando la lezione dei maestri della fotografia tedesca degli anni Venti.

I suoi genitori erano camerieri personali del ministro guardasigilli del Regno Giacomo Costa, e faticosamente s'impegnarono per consentire al figlio di studiare; A. tuttavia abbandonò il liceo per lavorare, sin dal 1911, all'Aquila Film di Torino, società presso la quale iniziò la carriera di operatore nel 1915 al fianco del regista Roberto Roberti. Il primo film nel quale si trova traccia del suo lavoro è però Il matrimonio di Olimpia, diretto da Gero Zambuto nel 1918 per la Itala Film.

Negli anni del muto fu operatore per le più importanti case cinematografiche torinesi, ma collaborò soprattutto con il regista Mario Almirante e nei primi anni Venti venne considerato l'operatore preferito della diva Italia Almirante Manzini. Illuminò anche molte altre star dell'epoca, imposto sul set da registi come Baldassarre Negroni e Gennaro Righelli.

Nella seconda metà degli anni Venti, il periodo più duro della crisi produttiva italiana, non rimase mai disoccupato, ma girò alcuni film anche in Germania, collaborando per Manolescu (1929) di Viktor Tourjansky con Carl Hoffman, operatore di Fritz Lang e Friedrich W. Murnau, alla cui lezione si ispirò più tardi per Rotaie, ove riuscì a reinterpretare in chiave intimista il gusto espressionista per i contrasti più decisi.

Il produttore Stefano Pittaluga lo volle con sé a Roma nei teatri della rinata Cines, dove gli operatori della scuola piemontese sbarcarono in forze. Qui girò, insieme a Massimo Terzano, La canzone dell'amore (1930), diretto da Righelli e considerato il primo film sonoro italiano, pur essendo stato realizzato dopo Resurrectio (1931) di Alessandro Blasetti, girato prima ma distribuito più tardi.

Negli anni della rinascita fu uno dei più attivi operatori italiani. Con Camerini realizzò i film fotograficamente più coraggiosi dei primi anni Trenta, L'ultima avventura (1932) e T'amerò sempre (1933), quest'ultimo vicino al gusto fotografico dei film tedeschi della Neue Sachlichkeit. Già famoso, nel 1934 pubblicò sul settimanale "Cinema Illustrazione" una serie di articoli dedicati alle condizioni di lavoro sul set negli anni del muto.

A metà degli anni Trenta, ormai perfettamente padrone della tecnica, sperimentò uno sguardo più realistico, fotografando il mélo Aldebaran (1935) di Blasetti e il film bellico Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini. Nello stesso periodo, insieme ad Anchise Brizzi, firmò la fotografia del più impegnativo kolossal del periodo fascista, Scipione l'Africano (1937), diretto da Carmine Gallone. Subito dopo venne scritturato per 14.000 lire al mese, cifra iperbolica per l'epoca, dalla Scalera Film, che gli affidò anche le immagini delle sue coproduzioni internazionali più importanti, interpretate dalla star francese Viviane Romance, come Rosa di sangue (1939) di Jean Choux, e la Carmen (1944) di Christian-Jaque. E fu ancora lui a fotografare la celebre cantante e ballerina di flamenco Imperio Argentina in Tosca (1941), iniziato da Jean Renoir e finito dal tedesco Carl Koch, e in genere a connotare lo stile della Scalera dei primissimi anni Quaranta.

Dopo l'8 settembre A. non seguì il cinema fascista al Nord e rimase inattivo fino al 1945, quando - insieme agli altri operatori rimasti a Roma - girò le immagini della fuga dei nazisti e dell'arrivo delle truppe americane; poco dopo venne coinvolto da Rossellini nel progetto di Roma città aperta. Nello stesso anno fotografò in maniera ben più convincente un mélo neorealista di Mario Mattoli, La vita ricomincia. Ma la partecipazione di A. alla rinascita del cinema italiano fu di breve durata. L'operatore piemontese morì alla fine del 1947, mentre era impegnato nelle riprese di una delle prime coproduzioni internazionali allestite nell'Italia del dopoguerra, Black magic (1949; Cagliostro) di Gregory Ratoff, con Orson Welles e Valentina Cortese. Il film venne portato a termine dal suo amico e collega Brizzi.”

(Stefano Masi - Enciclopedia del Cinema, 2003, in www.treccani.it)
 

 

Una poesia al giorno

Gondola no Uta, di Isamu Yoshii (8 ottobre 1886 - 9 novembre 1960)

 

いのち短し

恋せよ少女

朱き唇

褪せぬ間に

熱き血潮の

冷えぬ間に

明日の月日の

ないものを

 

いのち短し

恋せよ少女

いざ手をとりて

彼の舟に

いざ燃ゆる頬を

君が頬に

ここには誰れも

来ぬものを

 

いのち短し

恋せよ少女

波に漂う

舟の様に

君が柔手を

我が肩に

ここには人目も

無いものを

 

いのち短し

恋せよ少女

黒髪の色

褪せぬ間に

心のほのお

消えぬ間に

今日はふたたび

来ぬものを

 

Gondola no Uta (The Gondola Song)

life is brief

fall in love, maidens

before the crimson bloom

fades from your lips

before the tides of passion

cool within you,

for there is no such thing

as tomorrow, after all

 

life is brief

fall in love, maidens

before his hands

take up his boat

before the flush of

his cheeks fades

for there is not a person

who comes hither

 

life is brief

fall in love, maidens

before the boat drifts away

on the waves

before the hand resting on your shoulder

becomes frail

for there is no reach here

for the sight of others

 

life is brief

fall in love, maidens

before the raven tresses

begin to fade

before the flame in your hearts

flicker and die

for today, once passed,

is never to come again
  

La canzone della gondola (traduzione di Ugo Brusaporco)

la vita è breve

innamoratevi, fanciulle

prima che la fioritura cremisi

svanisca dalle vostre labbra

prima delle maree della passione

rinfrescate dentro di voi,

perché non esiste una cosa del genere

come domani, dopotutto

 

la vita è breve

innamoratevi, fanciulle

davanti alle sue mani

prendete la sua barca

prima che rossore

delle sue guance svanisca

perché non c'è una persona

che venga qui

 

la vita è breve

innamoratevi, fanciulle

prima che la barca vada alla deriva

sulle onde

prima che mano appoggiata sulla tua spalla

diventi fragile

perché non arrivi qui

per la vista degli altri

 

la vita è breve

innamoratevi, fanciulle

davanti alle trecce di corvo

che iniziano a svanire

davanti alla fiamma nei vostri cuori

uno sfarfallio e muori

per oggi, e una volta passato,

non tornerà mai più

 

Il conte Isamu Yoshii (吉 井 勇, Yoshii Isamu, 8 ottobre 1886 - 9 novembre 1960) fu un poeta e drammaturgo giapponese tanka attivo nel periodo Taishō e Shōwa in Giappone.

Con il testo scritto da Isamu Yoshii e la melodia di Shinpei Nakayama, questa composizione è stata usata nella colonna sonora nel film "Ikiru" del 1952, di Akira Kurosawa.

  • Il film: Ikiru, di Akira Kurosawa (1952)


  

Akira Kurosawa fu regista e sceneggiatore cinematografico giapponese, nato a Tokyo il 23 marzo 1910 e morto ivi il 6 settembre 1998. A K. spetta innanzi tutto il merito di aver aperto al cinema giapponese le porte dell'Occidente, grazie all'inatteso Leone d'oro che il suo Rashōmon (1950; Rashomon) ottenne alla Mostra del cinema di Venezia del 1951, inaugurando così una stagione di importanti riconoscimenti attribuiti ad altri film giapponesi in diversi festival internazionali. Appartenente alla generazione dei registi del secondo dopoguerra più impregnati di spirito umanistico, K. concentrò la sua opera sul personaggio, spesso un uomo in caparbia lotta contro i mali e le ingiustizie della società. Gli eroi del regista, tuttavia, non sono mai dei personaggi piatti o manichei, al contrario si caratterizzano per la loro complessità e contraddittorietà, per l'impulso quasi irrazionale che li spinge ad agire e che talvolta si confonde con una dimensione oscura e ambigua.

Regista di uomini, più che di donne - come invece fu per molti altri maestri del cinema giapponese -, K. realizzò sia gendaigeki (drammi contemporanei) sia jidaigeki (drammi storici), anche se la sua fama internazionale è soprattutto dovuta a questi ultimi. A differenziarlo dai suoi colleghi è anche il carattere spesso spettacolare, il ritmo sostenuto, il dinamismo quasi esasperato che caratterizza molti suoi film. L'influenza del cinema americano e dei modelli occidentali è chiara, così come lo è, nello stesso tempo, la capacità di guardare alle forme della tradizionale estetica giapponese. Si pensi, per es., e solo in ambito teatrale, al nō, da cui riprende certi effetti di ieraticità, stilizzazione, recitazione e narrazione ellittica, e al kabuki, cui s'ispira per i toni picareschi, gli effetti comico-burleschi, le atmosfere espressionistiche. Questa varietà di fonti e forme non è, del resto, che uno dei tanti elementi che determinano la forte tensione del cinema di K. e che dà vita a quel dinamismo che è, forse, il marchio di stile e poetica più importante del regista. Ed è proprio attraverso il suo ruvido e diseguale montaggio, le frequenti e costanti giustapposizioni di primi piani e campi lunghi, l'alternanza di inquadrature statiche e altre piene di movimento, i raccordi che giocano su conflitti di linee e direzione, che K. riesce a dar vita a uno stile assai peculiare pari, per intensità espressiva e originalità di risultati, a quello dei grandi maestri della tradizione, come Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji. Il premio ottenuto da Rashōmon non fu che il primo di una lunga serie di riconoscimenti attribuiti al regista (tra cui la Palma d'oro vinta a Cannes per Kagemusha (1980, Kagemusha - L'ombra del guerriero), che culminarono nel Leone d'oro alla carriera, conferitogli alla Mostra del cinema di Venezia nel 1982, e nell'Oscar, sempre alla carriera, del 1990.

Dopo aver studiato pittura occidentale e aver lavorato come illustratore per alcune riviste popolari, K. entrò, nel 1936, negli studi della casa di produzione PCL (Photo Chemical Laboratory, successivamente assorbita dalla Tōhō), dove lavorò come assistente di Yamamoto Kajirō e scrisse alcune sceneggiature, attività, quest'ultima, che continuò per tutta la carriera. Risale al 1943 il suo film d'esordio, Sugata Sanshirō. Si apriva così il periodo bellico del cinema di K., in cui il regista, pur già rivelando le sue indubbie qualità, non poté sottrarsi alle esigenze della politica nazionale e dei suoi dettami, in particolare quelli relativi all'esaltazione della fedeltà, dell'abnegazione, dello spirito di sacrificio, del senso del gruppo. Ne è un esempio lo stesso Sugata Sanshirō, dove l'allievo di un maestro di judo, per ottenere la fiducia di quest'ultimo e dimostrare il proprio temperamento, trascorre un'intera notte immerso in uno stagno. Eppure, già in questo film, la battaglia finale tra il protagonista e il suo rivale, in mezzo a un campo battuto dal vento, è contrassegnata da quella dialettica di stasi e movimento che avrebbe contribuito a rendere grande l'opera futura del regista.

Ancor più legato alle necessità di un Paese in guerra è Ichiban utsukushiku (1944, La più bella), che verte sul duro lavoro di un gruppo di operaie in una fabbrica di forniture militari. Il periodo bellico di K. si chiuse con Tora no o o fumu otokotachi (1945, Gli uomini che calpestano la coda della tigre), anomalo adattamento di un austero classico della letteratura teatrale giapponese sul tema della fedeltà del servo al suo padrone, che, parzialmente, K. irrise, inserendo nel cast Enomoto Ken'ichi (noto come Enoken), un attore comico di grande successo. Il film fu prima bloccato dalle autorità giapponesi e poi da quelle americane: per le prime era troppo irriverente, per le seconde troppo feudale.

Fu con la fine della guerra che K. poté finalmente esprimersi con maggior libertà, anche se Waga seishun ni kui nashi (1946, Senza rimpianto per la mia giovinezza), storia delle vicissitudini della figlia di un professore antifascista negli anni Trenta, è un evidente tributo pagato agli ideali democratici imposti al Paese dagli occupanti americani. Fu con Yoidore tenshi (1948; L'angelo ubriaco) e Nora inu (1949; Cane randagio) che K. dimostrò finalmente appieno il proprio talento. I due film, che coniugano insolitamente Neorealismo ed Espressionismo, rappresentano la realtà di degrado e miseria del Giappone del dopoguerra, attraverso la storia del rapporto fra un anziano dottore e uno yakuza (affiliato alla mafia giapponese) malato di tubercolosi, il primo, e quella di un detective alla ricerca dell'uomo che gli ha rubato la pistola, il secondo. Yoidore tenshi sancì anche l'incontro di K. con Mifune Toshirō, l'attore che, a partire dalla sua nervosa recitazione, sarebbe divenuto parte integrante del cinema del regista nei suoi anni più felici.

Del 1950 è Rashōmon, tratto da due racconti di Akutagawa Ryūnosuke, che narra la storia dell'omicidio di un samurai, raccontata più volte attraverso gli occhi di coloro che hanno partecipato al fatto o ne sono stati testimoni. Il carattere discordante delle diverse versioni è l'evidente segno dell'impossibilità dell'uomo di guardare in modo oggettivo a ciò che gli accade. Il successo del film spinse K. a cimentarsi in un altro jidaigeki, questa volta di ampie proporzioni produttive, Shichinin no samurai (1954; I sette samurai). La storia è quella di un gruppo di samurai che sceglie di difendere un villaggio contadino da una banda di briganti. Il carattere spettacolare del film - memorabile la battaglia finale sotto la pioggia battente e in mezzo a un mare di fango - non impedì l'attenta caratterizzazione dei vari personaggi e l'acuta rappresentazione di una classe, quella dei guerrieri, nel momento del suo ineluttabile declino. Il successo fu tale che gli americani ne girarono un remake western con The magnificent seven (1960) di John Sturges.

Fra questi due grandi jidaigeki, K. realizzò prima Hakuchi (1951, L'idiota), una trasposizione del romanzo di F.M. Dostoevskij, e poi uno dei suoi più importanti gendaigeki, quasi un'opera manifesto del suo umanesimo: Ikiru (1952, Vivere). Il film è la storia di un umile e servile impiegato che, scopertosi malato e vicino alla fine dei suoi giorni, intraprende una disperata battaglia contro la burocrazia per trasformare un campo paludoso in un parco giochi per i bambini poveri del quartiere.

Alla metà degli anni Cinquanta, K. godeva ormai di un'indiscussa fama sia nel proprio Paese sia in Occidente. Tra i film che egli realizzò nella seconda metà del decennio e nei primi anni di quello successivo, si possono citare, nell'ambito del jidaigeki, Kumonosu jō (1957; Il trono di sangue), dal Macbeth di W. Shakespeare, Kakushi toride no san akunin (1958; La fortezza nascosta), Yōjinbō (1961; La sfida del samurai) e Tsubaki Sanjurō (1962; Sanjuro), film, questi ultimi, in cui K. fece appello a un'ancora inedita vena comico-umoristica e che influenzarono i primi western di Sergio Leone.

Nell'ambito del gendaigeki, invece, si collocano Ikimono no kiroku (1955, Testimonianza di un essere umano), sulla paura per la bomba atomica, Warui yatsu hodo yoku nemuru (1960; I cattivi dormono in pace), sulla corruzione nel mondo dell'alta finanza, e Tengoku to jigoku (1963; Anatomia di un rapimento), da un romanzo di E. McBain. Sempre in questo periodo girò anche Donzoko (1957; Bassifondi), dal dramma di M. Gor′kij.  

Nel frattempo, dopo la realizzazione di Kakushi toride no san akunin, K. aveva lasciato la Tōhō per dar vita a una propria casa di produzione indipendente, la Kurosawa Production. Del 1965 è Akahige (Barbarossa), che riprende il tema classico del rapporto fra maestro e allievo, ambientandolo in un lazzaretto. Il film determinò la clamorosa rottura fra K. e Mifune Toshirō, e il suo parziale insuccesso aprì un momento di difficoltà nella carriera del regista. K. reagì fondando, insieme a Kinoshita Keisuke, Ichikawa Kon e Kobayashi Masaki, una nuova casa di produzione indipendente, la Yonki no kai (Società dei quattro cavalieri), che portò alla realizzazione di Dodesukaden (1970; Dodes'ka-den), un film corale ambientato in una bidonville, in cui lividi toni espressionistici, ma anche vivaci e fiabeschi colori, danno vita a una grottesca rappresentazione del mondo dei diseredati. L'insuccesso del film determinò una grave crisi nel regista, che arrivò addirittura a tentare il suicidio. Quasi dimenticato in patria, K. riuscì a realizzare i suoi film successivi grazie all'intervento di finanziamenti provenienti dall'estero: nacquero così gli epici Dersu Uzala (1975; Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure), sulla vita di un solitario cacciatore mongolo; quindi Kagemusha, storia di un brigante che deve prendere il posto di un importante signore feudale; Ran (1985), libero adattamento del Re Lear di Shakespeare; infine Konna yume o mita (1990; Sogni), un film a episodi che il regista costruisce intorno alle proprie personali ossessioni: dalla paura dell'ignoto a quella della bomba atomica. Dopo questi film di ampio respiro spettacolare, K. chiuse la propria carriera con due opere più intimiste: Hachigatsu no kyōshikyoku (1991; Rapsodia in agosto), ancora una riflessione sul tema dell'atomica, e Maada da yo (1993; Madadayo - Il compleanno), che rievoca la vita di un anziano professore vicino ormai alla fine dei suoi giorni. Ha lasciato un libro di memorie, Gama no abura: jiden no yō na mono (Olio di rospo: qualcosa come un'autobiografia, 1983; trad. it. dall'ingl. “L'ultimo samurai: quasi un'autobiografia”, 1995).”

(Dario Tomasi - Enciclopedia del Cinema, 2003, in www.treccani.it)

  • Un altro suo film: Stray Dog (1949), Akira Kurosava, Full Movie Eng Subbed

 

Un fatto al giorno

23 marzo 1950: Sanguinaria rivoluzione proletaria a San Severo repressa nel sangue con diverse vittime. La rivolta sanseverese del 23 marzo 1950.

"Il 23 marzo che giorno di coraggio, / uomini e donne siamo stati coraggiosi. / Alle 10 eravamo in sezione / e gli scelbini salivano dal balcone, / col mitra ci hanno fatto alzare le mani, / di parole siamo stati insultati. / Alle 10 il maresciallo e i suoi uomini / ci hanno aggrediti, ma non siamo spaventati, / perché loro lo sanno, siamo coraggiosi. / Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà. / Con autoblindo e carrarmati ci hanno trasportati / e alle carceri di Lucera ci hanno portati. / Siamo stati consegnati al presidente. / Noi tutti coraggiosi siamo stati spontanei: / signor presidente, siamo innocenti, / sono stati i fascisti a infamarci. / Ma la lotta continuerà e bandiera rossa trionferà".

Il venditrè di màrzo / succèssë ‘na rruwínë pë ddu bbèllë Sanzëvírë. / Nnànd’â Càmmëra del lavórë vulèvënë ccídë a li lavoratórë. / ‘U cummëssàrjë e Ffratèllë / hànnë pèrzë ‘i cërëvèlle a ndërrugà li fëmënèllë. / Avèvën’a dícë ccúmë dëcévë jìssë / pë rrëstà li comunìstë. / Alleghèt’è jjút’a Rrómë, / purtètë ‘i connutètë dë li pòvërë carcërètë, / ha ppëgghjètë la parólë: / - Caccètë fórë li lavoratórë. / Ha ppëgghjètë la parólë: / - L’avítë mìssë jìndë pë ppèn’e llavórë.

 

Si veniva fuori dalla II guerra mondiale ed il meridione d’Italia aveva subito notevoli perdite e distruzioni. Inoltre, il sistema economico, prettamente agricolo fondato sul latifondo e su una classe di braccianti che chiedeva lavoro “alla giornata”, era al collasso. A quei tempi in nome del cerignolano Giuseppe Di Vittorio (eletto il 4 giugno del 1949, Segretario della Federazione Mondiale dei Sindacati), diveniva sempre più conosciuto, a tal punto che le folle di contadini partecipavano in massa ai suoi comizi.

I risultati delle elezioni sancirono, come ben noto, la vittoria assoluta della Democrazia Cristiana, a cui fu affidato il compito di guidare il processo di ricostruzione del Paese, ed occuparsi della piaga della disoccupazione. Tra le cose più discutibili attuate dalla DC ci fu la creazione da parte del Ministro degli Interni, Mario Scelba, di un corpo speciale antisommossa di polizia chiamato la “Celere”, questi svolgevano un ruolo primario nella repressione delle lotte bracciantili e operaie.

Le disposizioni del ministro nei confronti dei dirigenti delle varie Camere del Lavoro erano severissime.

Nel frattempo, fra queste incertezze politiche e sociali, si susseguivano i fatti di sangue contro braccianti e operai. A seguito di ciò venne proclamato dalla CGIL lo sciopero generale per il 22 marzo, fissato dalle ore 6 alle 18 secondo un diritto sancito e garantito dall’art. 40 della Costituzione. In San Severo, ai tempi a maggioranza comunista, era diffusa una profonda e inquieta aria di malessere dovuta sia alle basse paghe sia alla presenza di grossi latifondi in mano a poche famiglie.

Il 22 marzo, dunque, anche la Camera del Lavoro di San Severo aderì in massa allo sciopero generale. Il Segretario della Camera del Lavoro, Carmine Cannelonga, diede il via alla manifestazione, invitando però i presenti all’autocontrollo e al senso di responsabilità.

Si svolse, dunque, fino a mezzogiorno un corteo non autorizzato ma comunque ordinato e senza incidenti. La polizia si tenne in disparte. Nel pomeriggio circolò la notizia che durante un’analoga manifestazione a Parma si erano verificati incidenti gravi con l’uccisione di un operaio. Questo infervorò gli animi dei braccianti, degli organi di partito e dei sindacati, tanto da promulgare lo sciopero per il giorno successivo.

I dirigenti locali, specialmente Carmine Cannelonga e Matteo D’Onofrio, avevano esternato una certa perplessità rispetto a tale decisione imposta dai dirigenti provinciali. Dopo un’accesa discussione Carmine Cannelonga prese atto delle decisioni foggiane e promulgò lo sciopero anche al giorno successivo.

Durante la notte del 23 marzo si cercò di preparare il tutto, predisponendo dei posti di blocco (senza, però, ostruzioni o sbarramenti di strade) lungo le vie di accesso alla città. Il Commissario locale di PS, il dr. Gaetano Ricciardi, chiese rinforzi alla Questura di Foggia, da dove partirono 70 agenti al comando di Gioacchino Ventura. Dalle ore 5.00 alle ore 7.00, su ordine del Commissario dr. Ricciardi e del Capitano della locale Stazione dei Carabinieri dr. Mollo, si provvide a smantellare i posti di blocco arrestando i più resistenti. L’atmosfera, intanto, si andava surriscaldando.

Furono ricostituiti i posti di blocco, mentre le vie di San Severo andavano riempiendosi di braccianti, donne e bambini, e s’imponeva ai negozi di chiudere i battenti. Verso le ore 7.30 un gruppo di scioperanti ordinò la chiusura della macelleria di Francesco Schingo, nella quale tre agenti di PS stavano effettuando la loro spesa. Questi ultimi cercarono di impedirne la chiusura, ma finirono con l’essere aggrediti e disarmati. Uno di questi, svincolandosi dalla presa della gente, entrò nella macelleria, afferrò un coltello e lo lanciò sulla folla, ferendo tre lavoratori. Nel frattempo sopraggiunsero altri agenti di PS, che tentarono di prelevare i loro malcapitati colleghi. Ad essi, però, non fu concessa alcuna reazione, anzi vennero costretti a retrocedere. Intanto cominciavano a udirsi i primi spari dai tetti con la conseguente paura sia per chi stava in strada sia per chi decise di rimanere in casa. Quattro, fra poliziotti, agenti di custodia e un vigile urbano furono disarmati.

Cannelonga e Ferrara (dei PSI) e l’assessore Giuseppe Cellini, intuendo il peggio, allo scopo di concordare uno sblocco della situazione ed evitare così prevedibili drammatiche conseguenze, si recarono alla caserma dei carabinieri, dove vennero arrestati e pestati.

I fatti ormai stavano sfuggendo al controllo di ogni ragionevolezza.

Alcuni scioperanti assalirono le armerie di Matteo Sansone e Cosimo Santoro, dalle quali sottrassero fucili, pistole e cartucce. Nel frattempo, mentre si andavano rafforzando i posti di blocco con carri rovesciati, per le strade si eressero barricate (con tronchi d’albero, lamiere…), tutte presidiate da lavoratori armati di fucili, pistole, mazze, pietre e zappe. Polizia e carabinieri si asserragliarono presso la locale caserma. Intanto da Foggia ancora nessun rinforzo fino alle ore 10.30 e, quando finalmente giunsero, furono costretti a fermarsi a Porta Foggia. Nel frattempo le forze dell’ordine tentarono di rompere l’assedio dei dimostranti, ma inutilmente. Alcuni agenti di PS entrarono lo stesso in città, ma attraverso la campagna.

Dopo mezzogiorno, sempre da Foggia, arrivò, fermandosi all’altezza del macello, un’autocolonna composta da una batteria del 14° Reggimento Artiglieri (150 uomini), da agenti di PS (150 uomini) e da una sezione di carri armati (nel numero di 4). A questo punto non fu difficile rimuovere gli sbarramenti e fiaccare così la resistenza degli scioperanti.

Rapidamente l’autocolonna si diresse verso le sedi del PCI (allora in Corso Gramsci) e della CGIL: qui trovarono e arrestarono una settantina di persone (tranne i ragazzi), vennero messi a soqquadro i locali, rinvennero e sequestrarono denaro, qualche fucile, tre bombe e alcune mazze. Certamente si sparava da alcune parti, ma non era una guerra: quanti morti si sarebbero contati se fosse stato così. Gli arrestati, nel frattempo, scortati dai carri armati furono trasferiti al carcere di Lucera.

A sera, sul tardi, ritornò finalmente la calma. Il triste bilancio di quella terribile giornata fu di un morto (Michele Di Nunzio, di 33 anni, padre di 4 bambini) e 40 feriti (tra i quali 25 lavoratori e un ragazzino di 10 anni). Il giorno dopo, il 24 marzo, il sen. Allegato, tornato repentinamente da Roma dopo essere messo a conoscenza dell’accaduto, si recò in Prefettura con i nomi dei militanti del MSI in possesso di armi, indicando in essi i veri provocatori della situazione. I dirigenti locali più coinvolti nella vicenda erano Carmine Cannelonga, Matteo D’Onofrio, Antonio Berardi (Segretario della IV sezione del PCI) e l’avv. Erminio Colaneri. Il 3 aprile 1950 il rapporto dei carabinieri fu inviato di competenza, per la fase istruttoria, alla Procura di Foggia. I quattro dirigenti su indicati rientravano fra quelli punibili in base all’art. 284 che prevedeva la pena capitale (tramutata da un altro articolo in ergastolo) per chi dirigeva le insurrezioni. Dalla Procura di Foggia venne confermata l’ipotesi di reato di insurrezione armata e la Corte di Bari, confermò la tesi dell’insurrezione, respingendo la posizione del Pubblico Ministero che propendeva per “concorso in violenza e resistenza alla forza pubblica”. Il 5 aprile 1952, dopo 62 udienze e 17 ore di discussione in Camera di Consiglio, la Corte emetteva la sentenza di assoluzione per Cannelonga, Colaneri, D’Onofrio e Berardi; 49 venivano condannati a pene varie per reati minori; rimanevano in carcere 12 imputati su 110. Usciti dal carcere lucerino, gli ex detenuti assolti, preceduti da motociclisti appositamente giunti da San Severo, arrivarono in Città con due pullman e furono accolti da una folla entusiasta e festante. Così terminò quella triste vicenda.

Giustamente, nell’intervista rilasciata a Raffaele Iacovino, Matteo D’Onofrio precisava: “Non eravamo eroi, ma solo povera gente fra gente come noi”.

Daunia Stupor Mundi vi invita a leggere lo scritto completo di N. Michele Campanozzi (www.campanozzi.netsons.org) da cui e stato tratto questo testo, ed in occasione del XIV anniversario, pur condannando tutti gli episodi di violenza, vuole ricordare gli uomini e le donne che in tutte le epoche hanno lottato e lottano con dignità per i diritti e per la nostra terra.”

(In www.fondazionefoa.it)
 

“Il 23 marzo 1950 i lavoratori di San Severo, all’indomani di uno sciopero generale (2 morti a Lantella il 21 marzo, 1 a Parma e ad Avezzano il 22, nelle proteste per l’eccidio scelbiano), insorgono contro le forze di polizia, innalzando barricate e assaltando le armerie e la sede del MSI. Gli scontri causarono un morto, Michele Di Nunzio, 33 anni e circa quaranta feriti tra civili e militari. Per fermare gli insorti l’esercito non esitò a occupare con i carri armati le principali vie della città. Nei giorni seguenti, con l’accusa di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, un reato da ergastolo, furono arrestate 184 persone.

Sette morti in sette giorni

La rivolta di San Severo conclude una settimana drammatica. Il 14 marzo la Celere spara sugli operai della Breda di Porto Marghera in sciopero. Nella memoria operaia si radicherà il falso ricordo di due operai morti (celebrati anche da una canzone di Gualtiero Bertelli) ma in realtà entrambi, feriti gravissimi, si riprenderanno. Il 17 marzo a Torino l’assalto alla sede del Msi, responsabile di gravi provocazioni, si conclude con la morte infarto di un cittadino che non aveva preso parte alla manifestazione ma era sceso in piazza a “vedere che stava succedendo”. La situazione precipita il 21 marzo: uno sciopero alla rovescia in un paesino abruzzese, Lentella, finisce con due braccianti uccisi e 10 feriti dal fuoco dei carabinieri. La Cgil proclama lo sciopero generale e Scelba risponde ordinando il pugno di ferro.

Le forze dell’ordine eseguono con dedizione. Il 22 marzo il disoccupato 32enne Attila Alberti cade sotto gli spari della polizia al termine di una manifestazione organizzata dalla Camera del Lavoro di Parma. Alberti muore sul colpo, all’angolo di strada Repubblica con Borgo Sant’Ambrogio. Ma c’è un’altra vittima: Luciano Filippelli, condotto in carcere, morirà a causa del diabete che i secondini non gli permisero di curare. La polizia spara ancora in Abruzzo ad Avezzano contro i dimostranti: ucciso Francesco Laboni. La lotta per la socializzazione delle terre del Fucino porterà altri morti. Intanto, il 23 marzo, è la volta di San Severo: 1 morto, 40 feriti, più di 100 arrestati che resteranno in carcere per un anno e mezzo. E questo episodio di brutale repressione innescherà uno straordinario episodio di solidarietà proletaria.

Il processo

Al termine di un processo lungo due anni e assai combattuto, che vedrà protagonista il leader della sinistra socialista Lelio Basso come avvocato difensore il 5 aprile 1952, gli imputati vengono assolti e rilasciati. Nei due anni che intercorrono tra l’arresto e la liberazione, i figli dei prigionieri, circa 70 bambini, sono “adottati” da famiglie di lavoratori del centro-nord, in segno di solidarietà sociale e politica con le lotte del Mezzogiorno.

Alle origini della rivolta una drammatica condizione di miseria e sfruttamento per i braccianti agricoli.  Nei giorni “fortunati” in cui riusciva a trovare un lavoro al mercato, il “giornaliero” riscuoteva appena 740 lire, un salario assolutamente insufficiente a nutrire una famiglia. La proprietà del 55% della campagna sanseverese era in mano a pochi latifondisti mentre i contadini poveri e i braccianti nullatenenti costituivano il 63% della popolazione attiva della città.

La solidarietà proletaria

L’eccezionale movimento collettivo di accoglienza dei figli degli incarcerati di San Severo, è solo un tassello. Un più vasto movimento nazionale già dal ’46 operava in Italia. Organizzato dai partiti della sinistra e da organizzazioni femminili come l’UDI. Le famiglie emiliano romagnole, marchigiane e toscane, della rete dei comitati di Solidarietà Democratica accolsero come figli adottivi i più poveri bambini del Sud. Una grande esperienza di massa portò, nei “treni della felicità”, circa 70.000 bambini a vivere l’adozione familiare dal 1946 al 1952”.

(Ugo Maria Tassinari in www.ugomariatassinari.it)
 

Immagini:

 

Una frase al giorno

Le ricerche di questi ultimi cinquant'anni hanno stabilito che la maggior parte delle affermazioni dogmatiche che passavano come espressione della verità, non la contenevano. Ed è già qualche cosa, in mancanza del possesso della verità, aver ben riconosciuto i luoghi in cui non si trovava.”

(Roger Martin du Gard, scrittore francese, Neuilly-sur-Seine 1881 - Bellême, Orne, 1958)
 

Nato in una famiglia dell'alta borghesia cattolica, Roger Martin du Gard si diplomò in paleografia all'École des chartes, derivando da questa formazione la propensione al rigore dell'analisi e alla documentazione scientifica. Dopo ricerche erudite (L'abbaye de Jumièges, 1909) e tentativi romanzeschi (Devenir, 1909; L'une de nous, 1910), si fece conoscere con un romanzo sociale in parte ispirato all'affare Dreyfus, Jean Barois (1913).

Accolto nell'ambito della Nouvelle revue française, conquistò la fama (consacrata nel 1937 dall'assegnazione del premio Nobel per la letteratura) a mano a mano che venne pubblicando gli otto romanzi del ciclo Les Thibault (Le cahier gris, 1922; Le pénitencier, 1922; La belle saison, 1923; La consultation, 1928; La sorellina, 1928; La mort du père, 1929; L'été 1914, 3 voll., 1936; Épilogue, 1940), opera che appartiene essenzialmente alla grande tradizione del romanzo realista francese (racconta le vicende di due famiglie borghesi, una cattolica, l'altra protestante, fino alla conclusione della prima guerra mondiale), ma con un senso doloroso della storia e dell'inquietudine moderna.

Nutrì un vivo interesse anche per il teatro, per il quale scrisse due farse contadinesche (Le testament du père Leleu, messa in scena nel 1914 da J. Copeau; La gonfle, 1928) e un dramma incentrato sull'omosessualità, Un taciturne, rappresentato nel 1932 da L. Jouvet. Scrisse inoltre due brevi racconti, Confidence africaine (1931), storia di un incesto, e Vieille France (1933).

Durante l'occupazione tedesca si trasferì a Nizza, dove nel 1942 cominciò la stesura di un nuovo ciclo romanzesco, apparso incompiuto dopo la sua morte (Le Lieutenant-colonel de Maumort, 1983). Postumi sono apparsi anche i suoi carteggi con A. Gide (3 voll., 1968-71) e con J. Copeau (2 voll., 1972). Nel 1979 è cominciata la pubblicazione della Correspondance générale, giunta al VII vol. nel 1992, e sempre nel 1992 è apparso il I vol. (1892-1919) del suo Journal.”

(In www.treccani.it)

Immagini e suoni: CONTRO LA GUERRA

 

Un brano musicale al giorno

Franz Bendel, Mondscheinfahrt nach der Liebesinsel (da "Am Genfer See", Op. 139/3)

Franz Bendel (23 marzo 1833 - 3 luglio 1874) pianista e compositore boemo tedesco, nato a Schönlinde, Boemia, Impero austriaco. È stato allievo di Franz Liszt per cinque anni a Weimar. Dal 1862 visse a Berlino e insegnò all'Accademia di musica di Theodor Kullak, Neue Akademie der Tonkunst. Fu anche autore di oltre quattrocento composizioni, molte delle quali per pianoforte, incluso un concerto per pianoforte.

Bendel fu un pianista superbo che viaggiò molto fino alla sua morte per febbre tifoide a Boston durante un tour americano. Aveva 41 anni. Franz Bendel era figlio di un insegnante di scuola elementare. Dopo le prime istruzioni di suo padre, divenne uno studente di Josef Proksch. Tramite il suo maestro, che lo incoraggiava moltissimo, Bendel andò in seguito da Franz Liszt a Weimar, dove conobbe anche Wendelin Weißheimer.

Nel 1848, il conte Otto von Westphal assunse Bendel come insegnante di casa e musica. Ha ricoperto questa carica per 14 anni. Bendel era già emerso come compositore nel 1885, quando Proksch eseguì una sua messa a Praga. Nel 1862 Bendel si stabilì a Berlino e divenne docente alla Neue Akademie der Tonkunst. Visse e lavorò lì fino alla sua morte, interrotta solo da diversi piccoli tour di concerti, come quello di Praga nel 1863, che furono lodati dalla stampa. Nel 1866 lavorò per qualche tempo anche alla Schule des höheren Klavierspiels di Carl Tausig.

Come performer oltre che come artista creativo, Bendel ha perseguito la direzione del serio e solido, ei suoi numerosi viaggi accompagnati dal miglior successo (l'ultimo lo ha portato anche in America occasionalmente al Boston Music Festival) non sono stati in grado di sminuire l'idealità della sua ricerca. Riuscì persino a partecipare come pianista al National Peace Jubilee di Patrick Gilmore a Boston nel 1872. Bendel era impegnato con gli Steinways per una serie di ottanta concerti nel 1874, ma la febbre tifoide ha causato la sua morte dopo quattro giorni di malattia a luglio. 1873. La sua tomba si trova a Berlin-Mitte, Oranienburg. Primo cimitero francese.

Dopo la sua morte, la musica di Bendel ha perso gran parte del meritato riconoscimento, arrivando come hanno fatto in un momento in cui Wagner stava rivoluzionando. Uno degli editori di Bendel, Augener & Co., con sede a Londra, e la loro rivista, The Monthly Musical Record, hanno continuamente rivisto la sua musica dopo la morte di Bendel. Per quanto riguarda la sua morte, il giornale ha dichiarato, "molto di cui essere pentito, e lo sarà sempre di più, per le qualità delle sue composizioni stanno diventando sempre più rare nella musica per pianoforte."  Alcuni degli studenti di rilievo di Bendel erano Silas Pratt, Edward Morris Bowman e Max Schwarz.

Bendel è stato molto attivo come compositore. Delle sue composizioni, comprese quattro messe, sinfonie, un concerto per pianoforte e un trio con pianoforte; le opere per pianoforte in stile salone e numerose canzoni hanno trovato largo impiego. Il numero delle sue composizioni per pianoforte (brani leggeri e descrittivi, Fantasie, Idilli, ecc.) È di oltre cento. Le più ammirate sono le Fantasie su un tema tratto da "Faust e Margaret" di Gounod, "Afrikanerin" di Meyerbeer e le canzoni nazionali della Boemia (Op. 8, 45 e 47). Nelle poesie tonali di Bendel emerge anche la predilezione di Franz Liszt per il trattamento sinfonico. Anche il potente modo di esibirsi come virtuoso del pianoforte era diventato il suo. L'insegnamento di Bendel sotto Proksch ha mantenuto un residuo di inclinazione per la serietà e la solidità nella sua composizione.

Simile ai notturni di John Field, Bendel ha scritto molti Stimmungsbilder (immagini dell'umore). La sua preferenza per i viaggi in montagna è stata espressa con una serie di questo tipo di brani, con esempi tratti da Schweizer Bilder, op. 137 e libri Am Genfer See op. 139. Alcuni di questi brani sono stati accompagnati da una breve spiegazione del contenuto. Nel descrivere questi pezzi, C.F. Weitzman dice: “Bendel ritrae le impressioni dei suoi viaggi nell'aria fresca delle valli e delle alture della Svizzera; e nelle "Sechs deutsche Märchenbilder" (Op. 135, Amburgo, Hugo Pohle), illustrate con colori più sorprendenti, le scene oniriche, bizzarre e bizzarre di questi Fantasiestücke passano davanti alla nostra visione interiore con un'animazione drammatica. "

Per un periodo di tempo, The Monthly Musical Record ha esaminato le opere di Bendel, descrivendo i suoi diversi approcci al proprio stile. Il diario ha introdotto il suo Rococo-Tanz con questa citazione: “Ora, Franz Bendel non ha simulato qualità che non possedeva; ma, al contrario, si dedicò allegramente alla coltivazione dei doni di cui era stato dotato, i quali, inoltre, valevano almeno quanto tanti doni di natura più orgogliosa e pretenziosa. Quello che troviamo nelle sue opere è l'eleganza, la grazia, la disinvoltura e il fascino nel pensiero, nei sentimenti e nell'espressione, e insieme a questo un linguaggio pianistico sempre efficace.”

(Traduzione di Ugo Brusaporco da: wikipedia.org)

23 marzo 1833 nasce Franz Bendel, pianista e compositore tedesco (morto nel 1874)

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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