“L’amico del popolo”, 27 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

ALAMO BAY (USA, 1985) di Louis Malle. Sceneggiatura: Alice Arlen. Fotografia: Curtis Clark. Montaggio: James Bruce. Musiche: Ry Cooder. Con Ed Harris, Amy Madigan, Ho Nguyen, Donald Moffat, Michael Ballard, Gary Basaraba, William Frankfather, Jerry Giggs, Martin Lasalle.

Nell'aprile del '75 finite le ostilità nel Vietnam, circa mezzo milione di Vietnamiti, già alleati degli Americani, si trasferirono negli Stati Uniti. Centomila di essi invasero le coste del Texas, alla ricerca di una vita finalmente pacifica ed operosa. Lavoratori tenaci, portatori di una solida cultura, ma pronti ad identificarsi con il nuovo Paese, poverissimi ma anche coraggiosi, essi erano destinati a scontrarsi con diffidenze, rancori ed una palese ostilità, soprattutto per ragioni economiche: si rilevarono, infatti, pescatori fortunati e provetti, suscitando indubbi problemi di coesistenza con i locali padroncini di pescherecci in una zona non molto ricca. La concorrenza esplose alla fine in un autentico conflitto, non più a sottofondo economico, ma razziale. Da qui risse, riesumazione dei riti del K.K.K., distruzione di battelli, incendi e sparatorie. Gli ospiti indesiderati furono perfino (proprio loro!) tacciati di... comunismo. La quasi totalità degli immigrati fu, in conclusione, obbligata a trasferirsi in altri lidi (ma, probabilmente, con analoghi problemi). Solo negli anni più recenti, attenuatesi la rabbia e la tensione, un dieci per cento dei profughi tornò a vivere ed a lavorare sulla Costa. Il film getta luce su queste tristi vicende, innestandovi quella che coinvolge Dihn, l'onesto, allegro e cocciuto Vietnamita (e la barca che con il proprio sudore e la sua viva intelligenza egli è riuscito ad acquistare), il violento e coniugato Shang, un americano padrone a sua volta di un magnifico battello da pesca e Glory, amante di Shang e proprietaria del magazzino del pesce ed emporio di Alamo Bay. La storia, in un quadro di diffidenze, di risse di odi viscerali, narra di Dinh, che con i compatrioti lavora presso Glory e suo padre Wally, ambedue favorevoli agli immigrati. Ma egli incorre soprattutto nella acerrima opposizione di Shang, a cui non solo la Banca fa sequestrare il battello (è un debitore moroso), ma la stessa Glory, che sempre ha amato, sembra togliere affetto e comprensione. Campeggiano nello sfondo lugubri croci fiammeggianti del K.K.K., finché Shang (sensibile anche alle meno politico- sindacali di un agitatore andato "in loco"), mette in atto un radicale programma di distruzioni e delitti. Nel duello finale, armi alla mano, tra lui e Dinh e nel bel mezzo di un incendio (la barca del Vietnamita, che si era rifiutato di lasciare il paese), questi ha la peggio e sta per essere finito, quando Glory piomba nel suo magazzino e, per salvare Dinh, spara sull'uomo amato.

“Louis Malle si è ispirato ad avvenimenti autenticamente accaduti per realizzare questo dramma d'azione a forte contenuto sociale, in cui ci presenta con precisione una situazione esplosiva e i conflitti razzisti che ne derivano. Un film sobrio e coinvolgente, che si muove con notevole abilità tra documentario e finzione”.

(FilmTV)

“Tra i numerosi vietnamiti emigrati negli Stati Uniti nel '75 dopo la guerra nel Vietnam, c'è Dihn che lavora presso Glory, proprietaria insieme al padre di un emporio di Alamo Bay. L'uomo di Glory, è uno dei tanti americani che si oppongono per odio razziale agli emigrati, ed è fautore di distruzioni e delitti. Costui finisce per scontrarsi in un duello finale con Dihn che, proprio mentre sta per soccombere, viene salvato da Glory. Un intenso film del regista francese emigrato in Usa da tempo”.

(Sky cinema)

“(...) L'approccio di Malle è diretto: il film si apre sull'arrivo del profugo sudvietnamita Dinh a Port Alamo e su una didascalia che ci informa dell'autenticità dei fatti che vengono raccontati. Nei primi 5 minuti abbiamo tutte le informazioni necessarie non solo a individuare il «tema» ma addirittura a immaginarne, almeno per grandi linee, lo svolgimento. Dinh fa l'autostop, una vecchia si ferma ma quando vede che lui è un «giallo» tira via. Un camionista gli dà un passaggio e commenta così le sue impressioni sul Vietnam: «Donne bellissime e droga quanta ne vuoi». Sulla polvere che copre il camion una mano ignota ha disegnato le fatidiche tre K. Dinh smonta dal camion e attraversa un giardino; il proprietario (Shang) gli dice che avrebbe potuto ucciderlo per questo. La moglie di Shang dice che i vietnamiti abitano a Fogna City. Tutto chiaro subito, dunque. Non si tratta nemmeno di quelle che potrebbero essere considerate «anticipazioni», nel senso che non anticipano un vero e proprio svolgimento drammatico, ma al contrario lo esauriscono. Quello che segue è solo ripetizione, variazione sul tema, insistenza, accumulazione, catalogo. Il rapporto è fra la ricerca dell'integrazione passiva di Dinh e il terrorismo degli abitanti di Port Alamo e non cambierà. Non ci stupiscono così le violenze ripetute dei locali né la croce data alle fiamme del Ku Klux Klan. Più avanti, due ragazze vietnamite camminano per strada, un’auto si avvicina e dei ragazzi americani rivolgono loro alcuni commenti «pesanti»; sopraggiunge lo sceriffo e allontana le ragazze dicendo che non devono dar fastidio ai giovani del luogo; poi le osserva allontanarsi, lo sguardo fisso all'altezza del sedere, e commenta fra sé: «Cristo, possibile che non ci sia più un po' di senso morale». In altre occasioni, i vietnamiti sono accusati, di volta in volta, di essere comunisti, sporchi, ladri, approfittatori, e via dicendo. Che gli USA fossero un paese razzista, lo sapevamo. Che la politica protezionista di Reagan trovasse largo ascolto nella popolazione, sapevamo anche questo.

Tutto ciò che Malle ci mostra corrisponde indubbiamente a verità, ma è tanto verosimile da apparire stucchevole. Le ragioni sono probabilmente da ricercarsi nell'estrema, didascalica precisione con cui le diverse pedine vengono mosse, e nell'eccessiva condensazione drammatica che questa disposizione mette in atto. I procedimenti narrativi tendono sempre ad una condensazione dei fatti, che è poi la forma drammatica degli stessi. La struttura fondante del mélo (cui Alamo Bay non è certo estraneo) è la condensazione in scene madri, ovvero una tecnica dell'esplosione semantica che non ha paura di esprimersi nella forma della coincidenza, del riconoscimento fatale e via dicendo; allo stesso modo, nel racconto d'avventure, è questa condensazione a portare protagonista e antagonista di fronte in occasione del duello finale. Tutto ciò è scontato, fa parte delle regole. (...) Non ha niente a che vedere col verosimile, è semmai una questione di stile. Malle, al contrario, non si cura minimamente di questo limite: accumula le «disgrazie della virtù» come se fossero semplici fatti di cronaca, senza trasformarli in storia.

Da un lato abbiamo sempre l'integrazione passiva (la fuga dei vietnamiti dopo le angherie dei texani) o quella critica di Dinh che vuole conoscere le regole, vuole lavorare e diventare americano nel senso più positivo del processo. Dall'altro abbiamo il rifiuto dei locali, ora isterico (la crisi della cassiera al supermarket), ora terroristico (la guerra di Shang), ora politico (le attività del KKK). La sola figura «dialettica» è quella di Glory che fa della emancipazione dei vietnamiti una parafrasi della propria emancipazione di donna. La struttura oscilla su questo bipolarismo manicheista e su un duplice processo di spettacolarizzazione di chiara derivazione televisiva. I modelli sono infatti il docu-drama e la soap opera: nel primo si insiste sulla drammatizzazione di elementi reali e documentabili dalla messa in scena stessa; nella seconda sulla riconoscibilità del quotidiano come forma essenziale di stereotipizzazione. Non sempre i personaggi sono chiaramente motivati, agendo in realtà più da funzioni argomentative che da personaggi, e questo perché lo stereotipo non tollera ambiguità. Non c'è mai provocazione, ma una continua autodichiarazione di autenticità. Alamo Bay è indubbiamente «fatto bene» (ci sarebbe da stupirsi del contrario), ma, come tanti film di denuncia americani e come tanta televisione, si affida interamente alla sceneggiatura; la messa in scena è solo un'accurata illustrazione, condotta con un buon ritmo, ottimamente fotografata, con una musica che a tratti sembra uscita da Nashville, ma non aggiunge nulla a quella che potrebbe essere la trascrizione dei dialoghi. In questo sembra trovarsi quel parallelismo cui si accennava con i modelli televisivi che, come ben sappiamo, sono semplicemente una «radio con figure» e poggiano su un abbassamento del livello di spettacolarità che non è solo dovuto alla pochezza tecnica del mezzo, ma ad un più generale procedimento di semplificazione narrativa.

La prospettiva di Malle è apparentemente provocatoria soprattutto in quanto, raccontando la storia dei profughi vietnamiti dall'interno, induce ad una possibile identificazione fra questa e la propria storia di immigrato; il significato dell'operazione è tuttavia puramente cronachistico, e oltretutto lo spettatore potrebbe non dimenticare che Malle ha sposato Candice Bergen e che forse questo gli ha risolto qualche difficoltà. In ogni caso si tratta di una identificazione che si sovrappone dall'esterno, che possiamo individuare nel «detto» del film, ma certo non nel modo di dirlo. Malle ci aveva abituati a una rilettura garbatamente ironica di alcune moderne mitologie, in particolare americane (si pensi a Viva Maria, 1965, a Pretty Baby, ma soprattutto ad Atlantic City). Anche in Alamo Bay è riconoscibile un approccio culturalmente mediato attraverso l'adozione di modelli narrativi cinematografici. Se in Atlantic City il modello di riferimento era il gangster film, qui esso è il western. Non c'è solo, a dircelo, il riferimento ad Alamo; non c'è solo la struttura narrativa che rimanda alle già viste dispute fra allevatori e contadini; non c'è solo l'immancabile duello finale con fucile e rivoltella; non c'è solo l'arrivano i nostri (la Guardia Costiera in elicottero) a impedire lo scontro a fuoco. Verso la fine l'informazione, per paura di non essere stata compresa, si fa esplicita. Quando gli altri vietnamiti fuggono da Port Alamo, Dinh dichiara: «Non mi piacciono quelli che vogliono spaventarmi» (non era così anche il Van Heflin di Shane?). Allora Glory commenta: «Tu devi essere uno degli ultimi cowboy rimasti nel Texas». È qui probabilmente la grande occasione mancata del film: il rovesciamento che porta Dinh a interpretare, lui, lo straniero, il ruolo tipicamente americano, non ribalta il significato dello stereotipo, ma lo conferma ulteriormente. Se è vero che gli americani possono avere dei difetti (ma vengono puniti per questo), l'America è tanto grande da riassorbirli tranquillamente e la democrazia è tanto forte che persino uno straniero (vietnamita o francese che sia) non può che fare il suo gioco. Non solo nel finale Glory uccide l'amante per salvare la vita a Dinh ed ovviamente la faccia all'America, ma la didascalia di chiusura ci comunica che «oggi più di 15.000 vietnamiti vivono e lavorano sulla costa del Texas». In Atlantic City il rovesciamento dello stereotipo portava ad una conclusione fluttuante, intrisa di malinconia e d'impotenza. Qui conduce al trionfalismo. Non è sufficiente a produrre ambiguità e sospensione di giudizio il brusìo che nel finale accompagna la disfatta Glory verso una casa che presumibilmente non sarà più home. La didascalia-pistolotto chiude inesorabilmente il film in una delle tante autocritiche che diventano autocelebrazioni cui ci hanno abituati il cinema e la televisione USA. Tutto questo ci riporta all'iniziale discorso sull'integrazione, la quale in Malle sembra essere economica e non culturale, passiva quindi e non critica. La sua accettazione del made in USA è superficiale, simile a quella del suo protagonista che arriva a Port Alamo con una bandierina a stelle e strisce in mano, che vuole la birra Stella del Texas, che chiede gli sia dato il «libro delle regole» perché non vuole sgarrare, che compra un cappellone da cowboy e gioca a baseball. Ma mentre Dinh viene salvato dagli sceneggiatori che ne fanno un nuovo Shane, Malle rimane un estraneo, intento ad imitare con buona calligrafia un modello che non è suo ma dal quale non riesce a distanziarsi ironicamente o criticamente. Il suo confronto con la cultura americana diventa così di accettazione disinteressata anche (o proprio) laddove si veste dei panni della denuncia (...)”.

(Giorgio Cremonini, in Cineforum n. 249 novembre 1985)

Non è d’accordo con Cremonini il nostro Giovanni Grazzini, che dopo aver ricordato quello che era accaduto “fra il 1979 e il 1981 nel Texas, dove numerosi profughi vietnamiti, che in Asia avevano combattuto al fianco degli americani, come nemici furono combattuti o perseguitati dagli stessi americani, insofferenti della concorrenza fatta ai locali dai nuovi venuti”, ricorda che il film “ha una forte tenuta spettacolare, e superando l’occasione polemica fa riflettere su certi paradossi della storia ... il film piace per la cura con cui nell’ambientazione riassume anche un conflitto culturale, per la stringatezza del ritmo e l’espressività delle inquadrature”.

ALAMO BAY (USA, 1985) di Louis Malle

 

Una poesia al giorno

Il pianto della scavatrice (prima parte), di Pier Paolo Pasolini, 1956 (da “Le ceneri di Gramsci”, Garzanti, Milano, 1957)

I

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato,
non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato
amore. L’anima non cresce più.
Ecco nel calore incantato

della notte che piena quaggiù
tra le curve del fiume e le sopite
visioni della città sparsa di luci,

echeggia ancora di mille vite,
disamore, mistero, e miseria
dei sensi, mi rendono nemiche

le forme del mondo, che fino a ieri
erano la mia ragione d’esistere.
Annoiato, stanco, rincaso, per neri

piazzali di mercati, tristi
strade intorno al porto fluviale,
tra le baracche e i magazzini misti

agli ultimi prati. Lì mortale
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi,
alla stazione di Trastevere, appare

ancora dolce la sera. Ai loro rioni,
alle loro borgate, tornano su motori
leggeri - in tuta o coi calzoni

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore –
i giovani, coi compagni sui sellini,
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori

chiacchierano in piedi con voci
alte nella notte, qua e là, ai tavolini
dei locali ancora lucenti e semivuoti.

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi

vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire
ciò che, in ognuno, era il mondo.

Una luna morente nel silenzio,
che di lei vive, sbianca tra violenti
ardori, che miseramente sulla terra

muta di vita, coi bei viali, le vecchie
viuzze, senza dar luce abbagliano
e, in tutto il mondo, le riflette

lassù, un po’ di calda nuvolaglia.
È la notte più bella dell’estate.
Trastevere, in un odore di paglia

di vecchie stalle, di svuotate
osterie, non dorme ancora.
Gli angoli bui, le pareti placide

risuonano d’incantati rumori.
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa
- sotto festoni di luci ormai sole -

verso i loro vicoli, che intasano
buio e immondizia, con quel passo blando
da cui più l’anima era invasa

quando veramente amavo, quando
veramente volevo capire.
E, come allora, scompaiono cantando.

 

Un fatto al giorno

27 luglio 1929: La Convenzione di Ginevra, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, per il miglioramento della sorte dei feriti e malati degli eserciti di campagna, è firmata da 53 nazioni.

“La convenzione firmata a Ginevra il 27 luglio 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra (v. guerra, XVIII, p. 55) costituiva, sì, il frutto dell'esperienza della prima Guerra mondiale, ma era anche l'espressione di una concezione del fenomeno bellico quale era possibile nel momento storico in cui l'ideale dell'organizzazione giuridica della comunità internazionale e della pace fra i membri della comunità stessa sembrava aver raggiunto, in virtù della Società delle Nazioni, una sicura attuazione. Non solo la guerra era concepita come una forma assolutamente eccezionale di risoluzione delle controversie fra gli stati, ma l'esclusione di essa quale strumento di politica internazionale era stata solennemente proclamata (patto Briand-Kellog, 1928). E, anche nella deprecata ipotesi che gli stati avessero dovuto ricorrere alla guerra, questa doveva restare come un insieme di rapporti fra essi rigorosamente mantenuti nei limiti prestabiliti dal diritto internazionale bellico. Tra tali limiti avrebbe dovuto inserirsi, con la convenzione del 1929, una più moderna ed organica disciplina giuridica dello status del prigioniero di guerra. Come sono noti gli eventi politici che condussero dalla situazione internazionale del 1929 a quella dello scoppio della seconda Guerra mondiale, così sono noti i caratteri che tale conflitto assunse in effetti, e che non poterono non ripercuotersi sulla sorte dei prigionieri bellici. Il dilatarsi del teatro di guerra a tutti i continenti ed a tutti gli oceani; la concezione della guerra come guerra totale che aggredisce il paese nemico anche oltre la linea di combattimento; il sistema della terra bruciata innanzi alle forze avversarie avanzanti; le deportazioni in massa; le fucilazioni di interi reparti di soldati nemici, da un momento all'altro non più riconosciuti come legittimi belligeranti; i campi di concentramento; l'impiego di armi cieche, di inaudite possibilità micidiali; e, finalmente, le paci derogatrici a fondamentali principî di diritto e di morale internazionale: questi ed altri caratteri della seconda Guerra mondiale non potevano essere tenuti presenti dagli estensori della convenzione di Ginevra. Sicché questa - sottoposta ad una interpretazione rigorosamente restrittiva da parte degli stati firmatari di essa, ed ignorata da una delle principali potenze belligeranti, in quanto estranea alla convenzione stessa - non ha potuto offrire ai prigionieri tutte quelle garanzie che pur erano nello spirito degli autori di essa”.

(Adolfo Maresca, Enciclopedia Treccani)

 

Una frase al giorno

“La disciplina di scrivere parole punisce sia la stupidità sia la disonestà”.

(John Ernst Steinbeck, 1902-1968, grande e indimenticabile scrittore statunitense. Nel 1962 gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "Per le sue scritture realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la percezione sociale acuta". Da leggere e rileggere: “Al Dio sconosciuto” e “La luna è tramontata”)

John Ernst Steinbeck

 

Un brano al giorno

Valentina Lisitsa: Warsaw Concerto
Il Concerto di Varsavia (Warsaw Concerto) è stato scritto da Richard Addinsell (Londra, 13 gennaio 1904-Brighton, 14 novembre 1977), in origine per un film drammatico del 1941, “Dangerous Moonlight” sottotitolato "Suicide Squadron"; è un film di guerra del regista britannico Brian Desmond Hurst.

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k