“L’amico del popolo”, 28 agosto 2021

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno V. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

NÄRA LIVET (Alle soglie della vita, Svezia, 1958), regia di Ingmar Bergman. Scritto da Ulla Isaksson (romanzi "Det vänliga, värdiga" e "Det orubbliga"). Fotografia Max Wilen. Montaggio Carl-Olov Skeppstedt. Cast: Eva Dahlbeck nel ruolo di Stina Andersson. Ingrid Thulin interpreta Cecilia Ellius. Bibi Andersson interpreta Hjördis Petterson. Barbro Hiort af Ornäs è l'infermiera Brita. Erland Josephson come Anders Ellius. Max von Sydow come Harry Andersson. Gunnar Sjöberg nel ruolo del dottor Nordlander. Ann-Marie Gyllenspetz come consigliere Gran. Inga Landgré come Greta Ellius.

"Alle Soglie della Vita", che uscì nei cinema italiani nel 1958, fu classificato dalla Commissione per la Revisione cinematografica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali come vietato ai minori di sedici anni. La Commissione diede parere favorevole alla programmazione in pubblico a condizione che la scena in cui Stina (Eva Dahlbeck) appare in preda alle doglie del parto fosse eliminata. Il taglio fu motivato dal carattere impressionante della scena (art.3 del Reg. ammesso al decreto 23/9/1923 n.3287) e il divieto fu giustificato dalla scabrosità della materia controindicata alla particolare sensibilità dei minori. L'autorizzazione alla censura (documento n. 31260) fu controfirmata dal Ministro Domenico Magrì.

Dopo svariate richieste di appello da parte della Società di Distribuzione, il 12 gennaio 1965, la Prima Sezione della Commissione per la Revisione Cinematografica diede parere favorevole per la proiezione in pubblico senza limitazioni di età. Autorizzazione controfirmata dal Ministro Emilio Battista.

(In wikipedia.org)
 

Cecilia è in procinto di partorire e viene portata in ospedale. Accanto a lei c'è il marito Anders, al quale Cecilia chiede se desiderava veramente il figlio che sarebbe dovuto nascere. Ma subito Cecilia viene portata in sala parto, dove abortisce spontaneamente. Ai medici che la rincuorano, Cecilia risponde che non ci sarà una prossima volta. Poi viene portata in una stanza dove ci sono altre due donne: la prima, prossima a partorire, è Stina Andersson che attende con gioia la nascita del primogenito; la seconda è Hjördis, una giovane non sposata che invece non vuole il bambino che dovrà nascere tra qualche mese.

Il marito di Cecilia le porta un mazzo di fiori ma nasce una discussione e lei lo manda via. Le due donne accanto a lei cercano di consolarla. Hjördis intanto guarda con rabbia la stanza dove ci sono i neonati e poi va al telefono e chiama il ragazzo che l'ha messa incinta chiedendogli di andarla a trovare, ma il ragazzo si rifiuta. L'assistente sociale invita la ragazza nel suo studio per un colloquio durante il quale le illustra i numerosi vantaggi previsti dell'assistenza alle ragazze madri e la invita a rivolgersi ai propri genitori, ma Hjördis risponde che non può farlo perché non ha detto loro nulla. Finito il colloquio, la ragazza riesce a trovare conforto nella comprensione dell'infermiera Brita.

Stina intanto balla dalla felicità e non vede l'ora che nasca il bambino. Arriva intanto il marito con i fiori e i due si baciano. A trovare Hjördis viene una collega d'ufficio che le suggerisce di abortire, ma la ragazza rifiuta. L'orario delle visite è terminato e le tre donne rimangono sole, finché Stina inizia ad avere le contrazioni e viene portata in sala parto. Le due donne rimaste parlano tra di loro e anche Cecilia consiglia a Hjördis di confidarsi con sua madre.

Il parto per Stina si presenta molto difficile e le infermiere chiamano il dottore. Si vedono intanto le puerpere con i loro bambini e subito dopo Stina che viene riportata nella stanza. Il bambino non è riuscito a superare l'ultima fase del travaglio ed è morto.

Hjördis intanto, accompagnata da Brita, va a telefonare alla madre e le racconta che aspetta un bambino e che voleva abortire, ma che ora ha deciso di volerlo anche se dovrà allevarlo da sola. La madre le dice di tornare a casa al più presto possibile. Prima di uscire dall'ospedale, Hjördis ascolta Cecilia che le dice di volersi riconciliare con il marito perché «la vera solitudine è un'acrobazia continua: la paura è sempre in agguato dentro di te».

 

"È una meditazione sulla nascita. Al contrario di Il settimo sigillo, Alle soglie della vita è realizzato con estrema semplicità. Lo sfondo è sempre secondario rispetto alle tre eroine, proprio come la regia di Bergman si è messa in secondo piano rispetto alla sceneggiatura di Ulla Isaksson. Eva Dahlbeck, Ingrid Thulin e soprattutto Bibi Andersson sono notevoli per precisione e sentimento. Non c'è accompagnamento musicale in questo film, i cui elementi vanno tutti nel senso della purezza".

(François Truffaut)

 

Un film tutto al femminile che si rivela un inno alla vita nascente, sceneggiato da Ulla Isaksson a partire da due sue novelle e realizzato con l’appoggio del governo svedese che aveva in corso una campagna per il contenimento delle pratiche abortive (il che può spiegarne “la semplicità e l’esilità filosofica”, specie se paragonato alla complessità delle due opere precedenti, Il settimo sigillo e Il posto delle fragole). Lasciando gli uomini sullo sfondo, “manichini inutili nella loro boria o nella loro superficialità”, Bergman esalta i valori della solidarietà femminile (specie attraverso la figura dell’infermiera) e apre la propria riflessione alla presenza dell’elemento spirituale, se non proprio religioso, nel rapporto con il mistero della vita. Mentre non risparmia dure frecciate al mito dell’assistenzialismo statale. Premio per la regia ed ex aequo alle quattro attrici al festival di Cannes.”

(in www.cicibi.ch)

 

 

Un’attrice: Barbro Hiort af Ornäs

“Barbro Margareta Eriksdotter Hiort af Ornäs, per un tempo Nathorst-Böös, nata il 28 agosto 1921 nella parrocchia della cattedrale di Göteborg, morta il 27 novembre 2015 nella parrocchia di Västerled a Stoccolma, è stata un’attrice svedese.

Barbro Hiort af Ornäs era la figlia dell'ingegnere civile Erik Hiort af Ornäs e di sua moglie Alma Ärnström nel suo secondo matrimonio. Lei è stata nella compagnia Dramaten nel periodo 1945-1947. Successivamente, ha lavorato in vari teatri fino al 1970, quando è stata nuovamente legata alla Dramaten. Ha fatto il suo debutto cinematografico nel 1943 in Women in Captivity di Olof Molander e ha partecipato a circa 60 ruoli televisivi e cinematografici.

Per il grande pubblico, Hiort af Ornäs è riconosciuta dal Sällskapsresanfilmerna come la madre di Stig-Helmer Olsson.

Nel 1958 Hiort af Ornäs ha vinto il premio come migliore attrice al Festival di Cannes per il suo lavoro in Close to Life di Ingmar Bergman (il premio è stato condiviso con Bibi Andersson, Eva Dahlbeck e Ingrid Thulin) e nel 1989 ha ricevuto il Litteris et Artibus premio.

Barbro Hiort af Ornäs è stata sposata nel 1945-1972 con l'avvocato Ernst Nathorst-Böös (1918-1988) e ha avuto i figli Jörgen (nato nel 1947), Thomas (nato nel 1951) ed Ernst (nato nel 1960). Nel 1976 sposò l'avvocato Fritz Belfrage (1917-1983). Infine, conviveva con l'uomo di teatro Hans Ullberg (1920-1996).”

(Da wikipedia.org)

 

Una poesia al giorno

Je rêve que je dors, di Philippe Léotard

Je rêve que je dors
Je voudrais te parler encore
Mais voilà que tu t’endors
Tu sais
Tu parles en dormant
Pas avec moi
Mais parfois même tu ris
Ou tu chantes
Alors moi j’attends
Dans les phrases, les mots absents
L’illumination terrible
D’un son d’une merveille
Et je dis encore je t’aime
Mais c’est pour laisser mon souffle
Traîner dans tes cheveux
Tu souris en rêve
Tu dors
Oh peut-être qu’il ne faut pas
Trop souvent dire je t’aime
Oui, c’est comme vouloir s’assurer
Du cœur et des baisers
Douter de soi-même
Pourtant je continue
Je te le dis encore: je t’aime
Je veux encore parler
Mais voilà que tu t’endors
Alors
Je rêve que je dors

 

(Traduzione di Ugo Brusaporco)

Sogno di dormire

Sogno di dormire
Vorrei parlare di nuovo con te
Ma ora ti addormenti
Sai
Parli mentre dormi
Ma non con me
Ma a volte tu ridi
e canti
Allora io aspetto
Nelle frasi, le parole assenti
La terribile illuminazione
Con un suono di meraviglia
E dico ancora che ti amo
Ma è per lasciarmi senza fiato
Trascinandomi tra i tuoi capelli
Sorridi in un sogno
Tu dormi
Oh può essere che non dovremmo
Troppo spesso dire ti amo
Sì, è come voler essere sicuri
Del cuore e dei baci
Per dubitare di te stesso
Eppure continuo
Te lo ripeto: ti amo
ho ancora voglia di parlare
Ma ora ti addormenti
Allora
Io sogno di dormire

 

Philippe Léotard, nato il 28 agosto 1940 a Nizza e morto il 25 agosto 2001 a Parigi, è un attore, poeta e cantante francese. È apparso in più di 70 film.

La sua famiglia si componeva di sette figli, quattro femmine, poi tre maschi, di cui Philippe era il maggiore. È nipote della pioniera della fotografia, Ange Tomasi, figlio del sindaco di Fréjus, André Léotard e fratello del politico François Léotard. Si presentò come "il trisnipote del pagliaccio in calzamaglia che fondò il circo di Bouglione e inventò l'arte del trapezio volante e del body per ballerini". Ma Jules Léotard non era un clown, non aveva niente a che fare con il circo di Bouglione e non aveva un nipote.
Da bambino soffrì della malattia di Bouillaud, che lo lasciò costretto a letto, con sua nonna ad Ajaccio. Ciò gli offrì l'opportunità di leggere molto, attingendo alla biblioteca di famiglia. Legge poeti e gli piacciono particolarmente Baudelaire, Lautréamont, Rimbaud, Cendrars... Legge Victor Hugo, Flaubert...

A 18 anni, nel 1958, si arruolò nella legione straniera a Bonifacio, ma non vi rimase. Studente di hypokhâgne al Lycée Henri-IV, nel 1958-1959, Philippe Léotard non si iscrisse all'École normale supérieure ma proseguì i suoi studi alla Sorbona dove si laureò in lettere. Fu lì, nell'ambito dell'ATEP (Associazione teatrale degli studenti di Parigi), che conobbe Ariane Mnouchkine con la quale fondò il Théâtre du Soleil nel 1964. Allo stesso tempo, fu professore di lettere e filosofia al Collège Sainte-Barbe fino al 1968. Lasciò il Théâtre du Soleil e cominciò ad esibirsi con il popolare Teatro Nazionale Les Anges meurtriers nel 1970.

Poi, pur continuando il teatro, si rivolse al cinema grazie a Claude Sautet e François Truffaut. Apparso in Domicilio coniugale nel 1970, ha continuato il suo apprendistato con François Truffaut che gli ha offerto un piccolo ruolo in Les Deux Anglaises e le Continent nel 1971. A 20 anni in Aurès di René Vautier ha segnato il suo primo ruolo importante. Il suo primo grande successo fu Le Chat et la Souris di Claude Lelouch nel 1975. Nello stesso anno, apparve nella distribuzione americana di French Connection 2 di John Frankenheimer. Nel 1977 è stato nominato per il César del miglior attore non protagonista per Le Juge Fayard dit “le Shériff” di Yves Boisset. Ha ricevuto il César come miglior attore nel 1983 per il suo ruolo in The Balance di Bob Swaim. Lo stesso anno, interpretò il commissario impegnato nelle indagini su diversi omicidi sullo sfondo del traffico di droga in Tchao Pantin, di Claude Berri. Questo periodo corrisponde all'apice della sua carriera.

Successivamente, si dedicò ad un cinema più intimo con film come Adieu Blaireau, Rouge-gorge, Le Paltoquet, Jane B. di Agnès V. e Le Sud.

Alla fine degli anni '90, ha intrapreso la carriera di cantante con l'aiuto del compositore e fisarmonicista Philippe Servain. I suoi primi due album A love as in war e Philippe Léotard canta Léo Ferré, un anno dopo la morte di Ferré, hanno ricevuto il Premio Charles-Cros. Ha ricevuto il Gran Premio per i Poeti dalla SACEM nel 1997. Nello stesso anno ha interpretato il suo ultimo ruolo nel cortometraggio La Momie à mi-mots di Laury Granier.

La droga e l'alcolismo hanno fortemente influenzato questo artista. La sua voce sempre più danneggiata ne portava le tracce. Nel 1993, al Printemps de Bourges, quando suo fratello era ministro della Difesa, si autoproclamò "Ministro dello sballo ". Nel 1995, è stato condannato a 18 mesi di reclusione con sospensione della pena per traffico di cocaina. Nel 1999, a causa del suo stile di vita, è stato brevemente ricoverato in ospedale a seguito di uno svenimento durante una ripresa.

È stato sposato, poi divorziato dall'attrice Liliane Caulier dalla quale ha due figli (Frédéric, decoratore cinematografico e pittore, conosciuto con il nome di Frédéri Léotard, e Laetitia). Nel 1972 conosce l'attrice Nathalie Baye: lascia poi moglie e figli per vivere con lei fino al 1981. In piena depressione, nel 1986, conosce Emmanuelle Guilbaud che gli restituisce il gusto della vita e con cui ebbe una figlia, Faustine.

Morì il 25 agosto 2001 per insufficienza respiratoria in una clinica parigina dove era ricoverato da due mesi. Il suo funerale ha avuto luogo nel cimitero di Père-Lachaise dove è stato cremato. Le sue ceneri furono successivamente deposte nel cimitero di Montparnasse.”

(Da wikipedia.org)

 

  • Un film con lui protagonista: Hiver 60 (1982), Philippe Léotard, Ronny Coutteure

Nazionalità: Belgio
Regia: Thierry Michel
Attori: Philippe Léotard, Christian Barbier, Jenny Clève, Bert André, Ronny Coutteure
Genere: Drammatico
Anno: 1983
Durata: 1h 34

Nel 1960, l'annuncio delle misure di regressione sociale decise dal governo belga ha innescato uno sciopero selvaggio dei lavoratori. Albert e Fred sono in prima linea in una lotta che si preannuncia calda e rischiosa. Il grande sciopero vallone scuoterà poi il Belgio nel profondo di se stesso. Violenza, manifestazioni, internazionali, bandiere rosse, bandiere vallone. Per cinque settimane il Paese sarà paralizzato da un movimento che spesso si darà aria di insurrezione.

28 agosto 1940 nasce Philippe Léotard, attore, cantante e poeta francese (morto nel 2001)

 

Un fatto al giorno

28 agosto 1879: Cetshwayo, ultimo re degli Zulu, viene catturato dai britannici

Cetshwayo kaMpande (1826 circa - Eshowe, 8 febbraio 1884) è stato re degli Zulu dal 1872 al 1879 e il loro leader durante la guerra Zulù. Il suo nome è stato trascritto anche come Cetawayo, Cetewayo, Cetywajo e Ketchwayo.

Cetshwayo era figlio del re zulù Mpande, fratellastro del re zulù Shaka. Nel 1856 sconfisse e uccise in battaglia il fratello minore Mbuyazi, favorito di Mpande, e divenne l'effettivo governante degli zulù. Tuttavia, non ascese realmente al trono perché il padre era ancora in vita.

L'altro fratello, Umtonga, era ancora un potenziale rivale e Cetshwayo lo sapeva bene. Per cui, nel 1861, Umtonga si rifugiò presso i Boeri e Cetshwayo dovette trattare con loro per riaverlo indietro. Nel 1865 Umtonga fece la stessa cosa, ed apparentemente fece pensare a Cetshwayo che avrebbe potuto sostituirlo come suo padre aveva rimpiazzato il suo predecessore Dingane.

Mpande morì nel 1872 e Cetshwayo fu incoronato re il 1º settembre. Come da tradizione fondò una nuova capitale per la nazione e la chiamò Ulundi (il luogo alto). Ingrandì l'esercito, ripristinò molte delle usanze di Shaka e dotò i suoi Impi di moschetti, per la maggioranza vecchi Brown Bess inglesi. Bandì i missionari europei dalla sua terra. Potrebbe aver incitato altri popoli nativi africani a ribellarsi ai Boeri nel Transvaal.

Nel 1878 Sir Henry Bartle Frere, commissario britannico per il Sudafrica, cominciò a richiedere azioni riparatorie per gli sconfinamenti zulù. Queste richieste irritarono molto Cetshwayo che mantenne la calma fino a che Frere non gli richiese di disperdere completamente il suo esercito. Il suo rifiuto condusse alla Guerra Anglo-Zulu nel 1879. Dopo alcune sconfitte iniziali, come la battaglia di Isandlwana, i britannici incominciarono ad accumulare successi su successi fino a che la capitale Ulundi fu catturata e messa a ferro e fuoco il 4 luglio. Dopo la battaglia Cetshwayo cercò rifugio nella foresta di Ngoma, ma finì catturato dalle forze inglesi il 26 agosto. Fu deposto, bandito dallo Zululand ed esiliato agli arresti domiciliari a Città del Capo. Tre anni dopo fu portato a Londra, dove venne addirittura presentato alla Regina Vittoria, cui fece una buona impressione. Cetshwayo ritornò in Sudafrica solo nel 1883. Nel 1882 i contrasti fra due fazioni zulù, quella pro-Cetshwayo e quelle di tre capi rivali Usibepu, sfociarono in una faida di sangue e nella guerra civile. Nel 1883, gli Inglesi provarono a ristabilire Cetshwayo come re almeno del suo territorio precedente, ma fallirono. Il capo Usibepu iniziò una guerra per contestare la successione e con l'aiuto della cavalleria mercenaria boera, il 22 luglio del 1883 attaccò il nuovo palazzo di Cetshwayo a Ulundi. Cetshwayo fu ferito ma riuscì a scappare nella foresta di Nkandla. A seguito delle richieste del Commissario Residente, sir Melmoth Osborn, il re si trasferì a Eshowe, dove morì alcuni mesi dopo, all'età di cinquantasette anni, probabilmente avvelenato. Il suo corpo è stato sepolto all'interno della foresta, nascosto alla vista, a sud del fiume Nkunzane.

Moriva così nel febbraio del 1884, ultimo re di una nazione Zulù indipendente. Il figlio di Cetshwayo, Dinuzulu, come erede al trono, fu proclamato re il 20 maggio 1884, sostenuto da (altri) mercenari boeri.”

(In wikipedia.org)
 

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Una frase al giorno

“Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1, 5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos'è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?”

(Agostino d'Ippona, da La Trinità 8, 2.)

Agostino nasce il 13 novembre del 354 a Tagaste, in Africa. Viene educato dalla madre Monica alla fede cattolica, ma non ne segue l’esempio. Adolescente vivace, arguto ed esuberante, intraprende lo studio della retorica e il suo rendimento è eccellente. Ama la vita e i suoi piaceri, coltiva amicizie, sperimenta le passioni amorose, adora il teatro, cerca divertimenti e svaghi. A Cartagine, dove prosegue gli studi, si innamora di una ragazza; poiché di rango inferiore al suo, può renderla soltanto sua concubina. Frutto di questa relazione è Adeodato. Agostino, padre a soli 19 anni, resta fedele alla sua donna e si assume la responsabilità del ménage “familiare”. Ma la lettura dell’Ortensio di Cicerone cambia il suo modo di vedere le cose. La felicità, scrive il grande oratore, consiste nei beni che non periscono: la sapienza, la verità, la virtù. Agostino decide così di volgersi alla loro ricerca.

 

La ricerca della Verità

Comincia dalla Bibbia, ma, abituato com’è a testi altisonanti, la trova grossolana e illogica. Si accosta allora al manicheismo. Rientrato a Tagaste apre una scuola di grammatica e retorica con l’aiuto di un benefattore, ma la vita che conduce non lo appaga e torna a Cartagine sperando in un futuro migliore. E invece continua a essere insoddisfatto. La sua sete di verità non è placata dalla dottrina manichea. Il giovane e promettente retore cerca così nuovi lidi e nel 382 si trasferisce a Roma con la compagna e il figlio, all’insaputa della madre che intanto lo aveva raggiunto a Cartagine. Nella capitale Agostino mantiene però i contatti con i manichei, dai quali riceve sostegni e appoggi. Capirà, poi, che la Provvidenza opera anche nelle scelte sbagliate. La sua carriera va a gonfie vele, nel 384 ottiene la cattedra di Retorica a Milano, eppure l’inquietudine interiore lo tormenta ancora.

La conversione: “Prendi e leggi”

L’ambizione viene saziata ma non il cuore. Per affinare la sua “ars oratoria” ascolta i sermoni del vescovo Ambrogio. Vuole carpirne le capacità dialettiche, e invece le parole del presule lo toccano nel profondo. Intanto la madre, Monica, si trasferisce a Milano; gli resta accanto soprattutto con le sue preghiere. Accostatosi sempre più alla Chiesa cattolica, Agostino si definisce ormai catecumeno: ora gli ci vuole una moglie cristiana più che una concubina. La donna che con lui ha convissuto per anni torna in Africa. Ancora travagliato, Agostino divora testi di filosofia e si immerge nella Sacra Scrittura. E’ tentato dall’esperienza dei pensatori greci, attratto dallo stile di vita degli asceti cristiani, ma non riesce a decidere. É un giorno dell’agosto 386, quando, disorientato e confuso, lasciatosi andare a un pianto dirotto e disperato, gli pare di sentire una voce: “Prendi e leggi!”. La considera un invito a volgersi alle lettere di Paolo riposte su un tavolo e ad aprirle a caso. “Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Rm 13, 13-14). Questa lettura lo folgora. Decide di cambiare vita e di dedicare tutto sé stesso a Dio. Viene battezzato da Ambrogio nella notte fra il 24 e il 25 aprile del 387 e desiderando tornare in Africa parte alla volta di Roma per imbarcarsi ad Ostia. Qui muore la madre Monica.

La prima comunità agostiniana e il ministero episcopale

È a Tagaste che Agostino fonda la sua prima comunità. Tra la fine del 390 e l’inizio del 391 si trova casualmente ad Ippona, nella basilica dove il vescovo Valerio sta parlando ai suoi fedeli della necessità di un presbitero per la sua diocesi. A furor di popolo Agostino viene sospinto dinanzi al presule e ordinato sacerdote. Convinto di dover vivere votato a Dio, studiando e meditando le Scritture, comprende di essere chiamato ad altro. Diviene vescovo di Ippona, succedendo a Valerio, e lascia innumerevoli scritti dove riesce a conciliare fede e ragione. Tra questi Il libero arbitrio, La Trinità, La città di Dio. Una menzione a sé meritano Le confessioni, in cui Agostino si racconta lasciando emergere in modo magistrale la sua interiorità, la storia del suo cuore.”

(In www.vaticannews.va)

  • Immagini: Sant'Agostino
  • Un film: Agostino d'Ippona, Roberto Rossellini
    Regia Roberto Rossellini. Soggetto Roberto Rossellini, Marcella Mariani, Luciano Scaffa. Sceneggiatura Roberto Rossellini, Marcella Mariani, Luciano Scaffa, Jean-Dominique de la Rochefoucauld, Carlo Cremona.

28 agosto 430: Sant'Agostino muore a Ippona, in Numidia

 

Un brano musicale al giorno

Richard Wagner, Furtwangler: Preludio all'atto I del Lohengrin

Vienna Philharmonic, Wilhelm Furtwangler direttore
Registrazione in studio, marzo 1954

Lohengrin, Eroe del ciclo del Graal, figlio di Parsifal. Non è escluso che all'origine della sua leggenda sia un errore di trascrizione: le chevalier au signe sostituito da le chevalier au cygne. La leggenda comunque già si trova in un poemetto medievale francese del 13° sec. e si è diffusa di qui in terra germanica ispirando tra l'altro Der Schwanritter del poeta tedesco Corrado di Würzburg (1220 circa - 1287). Vi si accenna anche nel Parzifal, composto tra il 1200 e il 1210 dal tedesco Wolfram von Eschenbach (n. 1170 circa - m. 1220 circa), e nel Der jüngere Titurel (1270) del poeta di origine bavarese Albrecht.

Lohengrin, su ordine del Graal, va in soccorso di Elsa di Brabante per difenderla da Telramunt, vassallo di suo padre, che vuole averla in sposa. Lohengrin, che poeticamente arriva dal mare su un cigno, vince Telramunt e sposa Elsa a una condizione: che non gli chieda mai le sue origini. Dopo aver compiuto prodigi di valore contro gli Ungari e i Saraceni, torna ed è costretto da Elsa a rispondere alla domanda fatale: Lohengrin dichiara allora davanti a tutti di essere figlio di Parsifal. Compiuta così la sua missione in difesa dei deboli, Lohengrin scomparirà di nuovo sul suo cigno, simbolo del dovere e della fedeltà a un ideale.

La leggenda, con qualche variazione, fu ripresa da R. Wagner nell'opera omonima in tre atti, rappresentata al teatro di corte di Weimar sotto la direzione di F. Liszt il 28 agosto 1850.”

(In www.treccani.it)

 

Lohengrin è un'opera romantica tedesca scritta e composta da Richard Wagner; si tratta della sua sesta composizione di questo genere in ordine cronologico. Ne è la fonte il poema epico medievale tedesco Parzival di Wolfram von Eschenbach. Lohengrin, il cavaliere del cigno, uno dei custodi del Santo Graal, è infatti figlio di Parsifal, mitico cavaliere della Tavola rotonda, a sua volta protagonista dell'ultimo dramma di Wagner, scritto trent'anni dopo.

La prima rappresentazione si tenne a Weimar nel 1850 e fu curata da Franz Liszt, amico e sostenitore di Wagner, all'epoca in esilio perché coinvolto nei moti del 1849.

Considerato l'ultimo dei lavori giovanili di Wagner, Lohengrin è da ascrivere a un periodo di profonda insicurezza della vita del compositore. Dopo il trionfo ottenuto alcuni anni prima col tradizionale Rienzi, ancora legato agli stilemi della grand opéra, Wagner aveva sperato di condurre facilmente l'entusiasmo del pubblico verso la sua grande rivoluzione artistica, già inaugurata nella stesura de L'olandese volante e del Tannhäuser, ma l'insuccesso riscontrato con queste due opere aveva arrestato e rimesso in discussione i vari progetti compositivi.
Richard Wagner scrisse a tale proposito: «Mi sentii spinto a chiedere: da dove vieni, perché? E per lungo tempo la mia arte sparì davanti a queste domande.»
 

Venuto a conoscenza della leggenda del cavaliere del cigno a Parigi, nel 1841, Wagner ebbe l'idea per il libretto del Lohengrin nell'estate del 1845, durante un soggiorno presso le terme a Marienbad, in Boemia. In pochi giorni stese in prosa l'intero progetto e anche alcuni passaggi chiave del libretto, terminato nell'autunno di quell'anno. Nel novembre lesse in pubblico il testo, suscitando un'impressione assai favorevole negli amici Julius Schnorr von Carolsfeld e Friedrich Pecht. Critico fu invece Robert Schumann, che riteneva il soggetto impossibile da mettere in musica.

La musica fu composta tra i mesi estivi del 1846 e la primavera 1848, durante l'ultimo periodo di permanenza del compositore a Dresda, dove deteneva l'incarico di direttore del Teatro di corte. Consapevole delle difficoltà che sarebbero sorte nel secondo atto, l'autore cominciò la composizione del terzo e poi del primo, lasciando per ultimi il secondo atto e il preludio dell'opera, portata a termine il 28 aprile 1848.

Nel settembre dello stesso anno diresse un'esecuzione in forma di concerto del finale del primo atto.

La vicenda storica che fa da sfondo all'opera è l'arruolamento, nei pressi di Anversa, nel ducato di Brabante, dell'esercito che re Enrico I di Sassonia l'Uccellatore (876 - 936) volle opporre all'invasore ungaro. Il sovrano riuscì a catturare un nobile magiaro e a ottenere, con la corresponsione di tributi, una tregua decennale (926). Il periodo di pace fu sfruttato per costruire fortezze (fatto richiamato anche nel libretto dell'opera), armare un numeroso esercito con cavalleria pesante e assoggettare le tribù slave insediate a est dell'Elba. Molte di queste fortificazioni divennero in seguito città, motivo per cui Enrico è spesso detto "il fondatore".

Il re, nell'opera, si rivolge al popolo tedesco, affinché sia salvaguardata l'unità dell'impero di fronte alla minaccia delle "orde dell'est":

(DE)

«ob Ost, ob West, das gelte allen gleich!
Was deutsches Land heisst, stelle Kampfesscharen,
dann schmäht wohl niemand mehr das Deutsche Reich!»

(IT)

«a oriente o a occidente, la causa valga per tutti!
Quel che si chiama terra tedesca, levi schiere a battaglia;
allora per certo nessuno più insulterà l'Impero tedesco!»

(Lohengrin, atto I, scena I)

Quest'immagine di Enrico I quale unificatore della Germania deriva da una letteratura che risale a Friedrich Ludwig Jahn e culmina, successivamente al periodo di composizione dell'opera, con il ritratto-immedesimazione del sovrano operato dal gerarca nazista Heinrich Himmler. Secondo costoro fu Enrico I, e non Carlo Magno, il fondatore dello stato-nazione tedesco. Himmler si spinse oltre, considerando la missione delle SS un'eredità del sovrano sassone. Il fatto che l'unità del popolo tedesco sia invocata in opposizione ad un nemico e che esso sia indicato con la generica espressione "popoli dell'est", conferisce all'opera elementi militaristi e nazionalisti che costituiscono in parte un problema per il pubblico moderno. Più volte infatti, successivamente al periodo di composizione dell'opera, la Germania diresse le proprie mire espansionistiche verso paesi "a est", come le attuali Polonia e Russia.

Wagner ebbe modo di consultare vari trattati, tra i quali Sulla contesa della Wartburg (Über den Krieg von Wartburg, 1838) di Christian Theodor Ludwig Lukas, gli studi di Jacob Grimm, Antichità legali tedesche (Deutsche Rechtsaltertümer, 1828), Antica saggezza (Weisthümer), oltre che Lo Stato delle Fiandre e la storia del diritto fino all'anno 1305 (Flandrische Staats - und Rechtsgeschichte bis zum Jahr 1305), opera di entrambi i fratelli Grimm….

Come scrive il critico Carl Dahlhaus, Lohengrin si presenta sotto l'aspetto di una fiaba dal finale tragico, addobbata nelle forme di un dramma storico: estremi che parrebbero escludersi tra loro. In realtà le spoglie sgargianti del dramma storico e le grandi scene di massa che ricordano la grand opéra servono solo per giustificare il finale tragico della vicenda, nella prima metà dell'Ottocento appannaggio di questo genere operistico. Il fatto che il musicista avesse bisogno di simili giustificazioni rivela la residua dipendenza dalla tradizione contro cui egli stesso andava polemizzando (Wagner stesso definiva Lohengrin “un'opera romantica” nel senso convenzionale del termine).

Per quanto riguarda l'elemento fiabesco, Rubens Tedeschi osserva come Lohengrin sia la naturale conclusione di un ciclo cominciato con Le fate, la cui felicità si trasforma ora nella malinconia della rinuncia, nella vaghezza del sogno che non può essere realtà. Mentre nell'opera giovanile l'identità sconosciuta e il divieto di scoprirla figuravano solo quali moventi drammaturgici iniziali, essi si rivelano ora fattori distruttivi che porteranno al tragico finale. Il cavaliere del cigno è l'incarnazione della speranza negata e tuttavia irrinunciabile: Lohengrin è infatti l'unica opera wagneriana che non finisce con una redenzione trasfigurata bensì nel desiderio e nella nostalgia. Messo di fronte a Tannhäuser, Lohengrin se ne distacca appunto per la sua rinuncia al carattere marziale e bellicoso.

Nella Comunicazione ai miei amici (1851), Wagner ha individuato come chiave ermeneutica dell'opera la metafora dell'“artista assoluto”. Come nella trama dell'opera il protagonista impone a Elsa di amarlo per come egli si presenta, senza voler conoscere la sua origine, l'artista prova l'inesprimibile e doloroso desiderio di amare ed essere riamato, senza bisogno di giustificarsi o di rivelare al mondo la sua diversità (l'opera è stata per questo avvicinata alla poesia di Charles Baudelaire L'albatros e ad alcuni passaggi del romanzo di Thomas Mann, I Buddenbrook: decadenza di una famiglia). A Lohengrin-Wagner si oppone il conte di Telramondo, il cavaliere che lotta per l'onore e per il “conformismo borghese” legalmente riconosciuto. Ma l'ombra del dubbio si instaura a poco a poco nel cuore di Elsa, costringendo Lohengrin ad allontanarsi. A fronte di questa lettura, passa dunque in secondo piano la pur presente componente “cristiano-romantica” (rapporto tra la sfera divina e terrena, fra la cristianità primitiva e medievale e gli dei germanici). Con Lohengrin Wagner ha definitivamente adottato la tecnica del durchkomponiert, la composizione non è cioè divisa secondo la struttura tradizionale in arie, recitativi e cori, ma si sussegue senza interruzione. Troviamo tuttavia dei frammenti, piuttosto estesi e complessi, come il sogno di Elsa, che ricordano ancora la forma dell'aria.

L'aura luminosa della partitura è creata dalla lunghezza belliniana della melodia, dove l'azione dei leitmotiv è assai ridotta. I temi conduttori, che caratterizzeranno di lì a poco la Tetralogia, sono enunciati come citazioni occasionali (ad esempio, il leitmotiv del Graal e il motivo del divieto della domanda) ripetendo il modello del Tannhäuser e de L'olandese volante. È perciò tradizione indicare il Lohengrin come l'ultimo dei lavori di Wagner per il quale può essere utilizzato il termine "opera", in antitesi alla produzione successiva per la quale è preferibile usare il termine "dramma musicale".

Per contro, sempre dal punto di vista musicale, in Lohengrin è presente una scena che si rivela essere già autenticamente “wagneriana”. Si tratta del dialogo tra Ortruda e Telramondo all'inizio del secondo atto, confermando come in Wagner la modernità stilistica appartenga al mondo dei “cattivi” (Venere, Ortrud, Beckmesser, Klingsor). Carl Dahlhaus osserva che nella parte centrale di questo dialogo - “Du wilde Seherin” - la condotta melodica della voce oscilla tra il recitativo e l'arioso senza soluzione di continuità. Ritmicamente tale condotta è irregolare: il principio di corrispondenza ritmica è abbandonato. A bilanciare la dissoluzione della quadratura e a coagulare la struttura compositiva intervengono però i temi conduttori: la melodia è continuamente intessuta dai leitmotiv, proprio come accade nella Tetralogia”.

(In wikipedia.org)

 

  • L’opera completa: Richard Wagner (1813 - 1883): "Lohengrin" (Bayreuth, 1982)

Siegfried Vogel (Konig Heinrich), Peter Hofmann (Lohengrin), Karan Armstrong (Elsa), Leif Roar (Telramund), Elizabeth Connell (Ortrud), Bernd Weikl (Harald)
Orchestra e coro del Festival di Bayreuth
Direttore: Woldemar Nelsson
Regia: Gotz Friedrich

28 agosto 1850: prima messa in scena del Lohengrin, opera di Richard Wagner.

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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