“L’amico del popolo”, 29 luglio 2017

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

WETHERBY (Il mistero di Wetherby, Gran Bretagna 1984), scritto e diretto da David Hare. Fotografia: Stuart Harris. Montaggio: Chris Wimble. Musiche: Nick Bicât. Con: Judi Dench, Penny Downie, Ian Holm, Vanessa Redgrave, Joely Richardson, Tom Wilkinson, Stuart Wilson, Marjorie Yates, Suzanna Hamilton, Tim McInnerny. Orso d’oro a Berlino XXIV.

Nell'antefatto - gradualmente ricostruito nel corso della vicenda - Jean Travers, una studentessa che vive a Wetherby nello Yorkshire, è innamorata di Jim Mortimer, ufficiale di Sua Maestà britannica. Ma Jim, che è anche molto preso della sua uniforme, deve trasferirsi in Malesia e restarvi ben sette anni. L'attesa pare alla ragazza intollerabile e i due rinunciano alle nozze (Jim morirà poi in Oriente nella maniera più ingloriosa, dopo essere stato truffato in una bisca locale). Ai nostri giorni, Jean è ora una donna matura, appena appena sfiorita, che vive sola e si dedica all'insegnamento. Ad una cena con due coppie di amici, si presenta in casa sua uno strano ospite: è John Morgan, un giovanotto che, per un curioso equivoco, sia Jean che gli altri credono un invitato. Il giorno dopo, l'ospite viene trovato cadavere sul pavimento della villetta: la sua rivoltella è vicina al corpo, la Polizia esclude presto un omicidio e da allora cominciano le indagini su quell'assurdo decesso. In un gioco continuo di ricordi e di ammissioni larvatissime, di silenzi e di indifferenza, sia Jean che i suoi amici contribuiscono, a beneficio dell'ispettore di polizia, in un mosaico di ipotesi, deduzioni e certezze, a costruire un vago profilo dello sconosciuto, il quale aveva preso per due giorni una stanza nella vicina città, messo piede nella biblioteca locale per fare, a quanto risulta, alcune ricerche e aveva, infine, anche una amichetta. Alla sconvolta Jean Travers, molte cose le dice proprio la ragazza, che lei ha accolto e medicato per una ferita ad una mano: la ragazza ammette che il giovanotto era un solitario, un essere molto assente e come ossessionato dalla propria solitudine. Una sera il poliziotto, che è stato nel frattempo abbandonato dall'amante Chris e che pare deciso a lasciare il servizio, si reca nell'abitazione di Jean (per la quale è insorta in lui una certa tenerezza), sollecitandone una piena confessione. Si apprende così che, la sera della famosa cena, John Morgan si era offerto di salire sul tetto per riparare una tegola: affascinata da quel bizzarro intruso, Jean, salita con lui in soffitta, aveva fatto delle "avances" e l'altro, come in un "raptus", aveva avvinghiato a sé la donna in un abbraccio violento e disperato. Due solitudini si erano incontrate, ma Morgan era stato rifiutato: dal che, probabilmente, il suicidio. Jean continuerà a vivere la sua vita di insegnante, non dimentica del suo sterile passato, ormai appannato dal tempo, ma cosciente di quell'incontro inatteso ed assurdo, che sembra aver riacceso in lei le vampe di una femminilità non estinta.

Wetherby è un film completamente rivolto al passato. Innanzitutto, per il suo tema: un giovane e misterioso straniero si suicida in casa di una maestra di mezz'età (Vanessa Redgrave) senza che, apparentemente, esista una ragione precisa. A partire da una ricostruzione per frammenti del passato dei vari personaggi si cerca allora di ricostituire la personalità dello straniero. Quindi, per la sua forma: il cinema, che è un mezzo nato essenzialmente, come la fotografia, per riprodurre l'istante presente, si è dotato di un noto espediente per filmare il passato, il flash-back. Ossia quello stacco netto, o introdotto da una dissolvenza, che interrompe la cronologia del racconto per mostrarci qualcosa accaduto tempo addietro. Wetherby usa ed abusa di questo procedimento: si direbbe anzi, ed è proprio il limite del film, che nasca e cresca proprio per la seduzione, tutta letteraria, di coniugare questi frammenti cinematografici del passato. David Hare, che ha vinto a Locarno nel 1984 il premio dei TV Movies, è sicuramente un letterario e probabilmente un ambizioso. Tutte qualità che possono facilmente trasformarsi in difetti: così, da un lato, il film incuriosisce e a tratti affascina per la fitta ragnatela di tracciati che l'autore tenta di ricostruire. E con essi dare una forma una logica ad un presente fatto tutto di convenzioni, di amicizie superficiali, di solitudini malcelate, di convenzioni esibite nel microcosmo di un villaggio della campagna inglese. E dall'altro finisce col perdersi ed irritare: perché l'operazione finisce per diventare fine a se stessa. La logica si perde (siamo ben lontani dalla precisione millimetrica di un film al quale si pensa, Providence di Alain Resnais), i raccordi non quadrano esattamente, la comprensione diventa laboriosa. Ci si ritrova al punto di partenza, e cioè senza aver messo dell'ordine all'ambiguità del presente. Che forse voleva essere il tema del film: ma al quale autore e spettatori desideravano sicuramente giungere in modo differente. Orso d'Oro al Festival di Berlino”.

 

Una poesia al giorno

Il pianto della scavatrice (terza parte), di Pier Paolo Pasolini, 1956 (da “Le ceneri di Gramsci”, Garzanti, Milano, 1957)

III

E ora rincaso, ricco di quegli anni
così nuovi che non avrei mai pensato
di saperli vecchi in un'anima

a essi lontana, come a ogni passato.
Salgo i viali del Gianicolo, fermo
da un bivio liberty, a un largo alberato,

a un troncone di mura - ormai al termine
della città sull'ondulata pianura
che si apre sul mare. E mi rigermina

nell'anima - inerte e scura
come la notte abbandonata al profumo
una semenza ormai troppo matura

per dare ancora frutto, nel cumulo
di una vita tornata stanca e acerba...
Ecco Villa Pamphili, e nel lume

che tranquillo riverbera
sui nuovi muri, la via dove abito.
Presso la mia casa, su un'erba

ridotta a un'oscura bava,
una traccia sulle voragini scavate
di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia

di distruzione - rampa contro radi palazzi
e pezzi di cielo, inanimata, una scavatrice...
Che pena m'invade, davanti a questi attrezzi

supini, sparsi qua e là nel fango,
davanti a questo canovaccio rosso
che pende a un cavalletto, nell'angolo

dove la notte sembra più triste?
Perché, a questa spenta tinta di sangue,
la mia coscienza così ciecamente resiste,
si nasconde, quasi per un ossesso
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista?
Perché dentro in me è lo stesso senso

di giornate per sempre inadempite
che è nel morto firmamento
in cui sbianca questa scavatrice?

Mi spoglio in una delle mille stanze
dove a via Fonteiana si dorme.
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze

passioni. Ma non su queste forme
pure della vita... Si riduce
ad esse l'uomo, quando colme

siano esperienza e fiducia
nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia,
che io credevo persi in una luce

di necessità, e che ora so così liberi!
Insieme al cuore, allora, pei difficili
casi che ne avevano sperduto

il corso verso un destino umano,
guadagnando in ardore la chiarezza
negata, e in ingenuità

il negato equilibrio - alla chiarezza
all'equilibrio giungeva anche,
in quei giorni, la mente. E il cieco

rimpianto, segno di ogni mia
lotta col mondo, respingevano, ecco,
adulte benché inesperte ideologie...

Si faceva, il mondo, soggetto
non più di mistero ma di storia.
Si moltiplicava per mille la gioia

del conoscerlo - come
ogni uomo, umilmente, conosce.
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce,

furono vivi nelle vive esperienze.
Mutò la materia di un decennio d'oscura
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò

che più pareva essere ideale figura
a una ideale generazione;
in ogni pagina, in ogni riga
che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia,
c'era quel fervore, quella presunzione,
quella gratitudine. Nuovo

nella mia nuova condizione
di vecchio lavoro e di vecchia miseria,
i pochi amici che venivano

da me, nelle mattine o nelle sere
dimenticate sul Penitenziario,
mi videro dentro una luce viva:

mite, violento rivoluzionario
nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva

 

Un fatto al giorno

29 luglio 1900: l'anarchico Gaetano Bresci uccide a Monza Umberto I di Savoia, re d'Italia, poco dopo le 22, sparandogli contro.

L’antefatto: “L'insurrezione milanese durò vari giorni, dal 6 al 9 maggio 1898. Essa fu repressa nel sangue da reparti dell'esercito comandati dal generale Fiorenzo Bava Beccaris; nella repressione militare vi furono, secondo i dati ufficiali (sicuramente sottostimati, dato che testimoni oculari parleranno di circa 300 vittime), ottanta persone uccise, di cui solo due tra la forza pubblica, e quattrocentocinquanta feriti, dei quali ventidue furono militari; tra le vittime vi furono anche vari mendicanti che si trovavano in fila per ricevere la minestra dei frati in via Monforte, sui quali si sparò col cannone. Bava Beccaris, per tale azione di ordine pubblico, fu insignito con la Croce di Grand'Ufficiale dell'Ordine Militare di Savoia dal re Umberto I, il quale per l'occasione inviò a Bava Beccaris un telegramma, reso pubblico, in cui scriveva fra l'altro che l'onorificenza gli era conferita «per rimeritare il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della Patria». Inoltre Umberto I lo nominò senatore un mese dopo, con un decreto reale del 16 giugno 1898. Gaetano Bresci intendeva vendicare l'eccidio, rendendo giustizia, e perciò decise di ritornare in Italia con l'obiettivo di uccidere re Umberto, ritenendolo responsabile massimo di quei tragici avvenimenti”

(Wikipedia)

“Gaetano Bresci uccise a Monza, la sera di domenica 29 luglio 1900, sparandogli contro tre colpi di pistola (o quattro, le fonti storiche non concordano) re Umberto I di Savoia. Il sovrano stava rientrando in carrozza nella sua residenza monzese dopo una premiazione in una società sportiva. L’omicidio - immortalato in una celebre tavola del pittore Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» - avvenne sotto gli occhi della popolazione festante che salutava il monarca. Bresci si lasciò catturare senza opporre resistenza.

Il processo contro Bresci fu istruito in brevissimo tempo. Il 29 agosto 1900, cioè un mese esatto dopo il delitto, Bresci comparve nella corte d’Assise di Piazza Beccaria a Milano. La sentenza era scontata in partenza. Gaetano Bresci aveva chiesto come difensore il deputato socialista Filippo Turati, ma questi aveva declinato l’incarico e fu sostituito dall’avvocato anarchico Francesco Saverio Merlino.
L’imputato mantenne un contegno conforme al personaggio che rappresentava. Freddo e distaccato, quasi sereno, ascoltò la lettura del capo d’accusa (per la verità retorico fino all’inverosimile) senza mostrare né pentimento né spavalderia.

Ecco il testo del suo interrogatorio in aula:
Presidente: «L’imputato ha qualcosa da aggiungere alla sua deposizione testé letta?»
Bresci: «Il fatto l’ho compiuto da me, senza complici. Il pensiero mi venne vedendo tante miserie e tanti perseguitati. Bisogna andare all’estero per vedere come sono considerati gli italiani! Ci hanno soprannominati “maiali“...»
Presidente: «Non divaghi...»
Bresci: «Se non mi fa parlare mi siedo.»
Presidente: «Resti nel tema.»
Bresci: «Ebbene, dirò che la condanna mi lascia indifferente, che non mi interessa punto e che sono certo di non essermi sbagliato a fare ciò che ho fatto. Non intendo neppure presentare ricorso. Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione proletaria.»
Presidente: «Ammettete di avere ucciso il re?»
Bresci: «Non ammazzai Umberto; ammazzai il Re, ammazzai un principio! E non dite delitto ma fatto!»
Presidente: «Perché lo avete fatto?»
Bresci: «Ho attentato al Capo dello Stato perché è responsabile di tutte le vittime pallide e sanguinanti del sistema che lui rappresenta e fa difendere. Concepii tale disegnamento dopo le sanguinose repressioni avvenute in Sicilia in seguito agli stati d'assedio emanati per decreto reale. E dopo avvenute le altre repressioni del ‘98 ancora più numerose e più barbare, sempre in seguito agli stati d'assedio emanati con decreto reale.»
Quando il Presidente gli chiese perché aveva compiuto quel gesto, Bresci rispose:
«I fatti di Milano, dove si adoperò il cannone, mi fecero piangere e pensai alla vendetta. Pensai al re perché oltre a firmare i decreti premiava gli scellerati che avevano compiuto le stragi.»

Ascoltati i testimoni, i giurati si ritirarono per decidere e dopo pochi minuti il capo giuria ragionier Carione lesse il verdetto che dichiarava l’imputato colpevole e lo condannava ai lavori forzati.
Scontò la pena nel penitenziario di S. Stefano, presso Ventotene (Isole Ponziane) e per poterlo controllare a vista venne edificata per lui una speciale cella di tre metri per tre, priva di suppellettili.
Morì il 22 maggio 1901 “suicidato” dallo Stato e probabilmente venne ucciso anche prima di questa data ufficiale. Le autorità divulgarono la notizia del suo suicidio: impiccato per mezzo di un lenzuolo o un asciugamani.
Alcune coincidenze: un carcerato di Santo Stefano condannato all’ergastolo ottenne la grazia, il direttore raddoppiò il suo stipendio.
Vi è incertezza anche sul luogo della sua sepoltura: secondo alcune fonti, fu seppellito assieme ai suoi effetti personali nel cimitero di S. Stefano; secondo altre, il suo corpo venne gettato in mare. Le sole cose rimaste di lui sono il suo cappello da ergastolano (andato distrutto durante una rivolta di carcerati nel dopoguerra) e la rivoltella con cui compì il regicidio.

(www.nuovatlantide.org)

 

Una frase al giorno

“Con gli occhi chiusi | hanno tutti | una faccia onesta; | li divide il risveglio; | diventano buoni e cattivi. | Cattivi, buoni... | Non si nasce tali per natura. | Tali si diventa. | È soprattutto l'educazione”.

(Hồ Chí Minh, 1890-1969, rivoluzionario e politico vietnamita)

 

Un brano al giorno

Kalinka, canzone popolare russa: www.youtube.com

Kalinka è considerata la canzone russa più famosa di tutti i tempi. È stata scritta nel 1860 dal compositore Ivan Petrovič Larënov (Иван Петрович Ларëнов) e suonata per la prima volta nella città di Saratov come parte di uno spettacolo teatrale.
«Kalìna» («калина») è l’albero di viburno ed anche la sua bacca. «Kalinka» («калинка») cioè un piccolo viburno, diminutivo di kalina, letteralmente «viburnino» o «viburnetto». Nella lingua russa il viburno, cioè kalinka, è il sostantivo femminile perciò si canta: Kalinka, kalinka, kalinka mia. La seconda parola che si incontra nel testo è «malìnka». «Malìna» («малина») è il lampone, l’arbusto e la sua bacca. «Malinka» è il diminutivo di «malina», cioè «lamponcino». Anche questo sostantivo in russo è femminile.
(Dal sito Arcarussa.it, dove si trova un’altra versione storica della canzone: www.arcarussa.it)

«КАЛИНКА» («KALINKA»)

Калинка, калинка, калинка моя!
Kalìnka, kalìnka, kalìnka mia
В саду ягода малинка, малинка моя!
Nel giardino c’è malìnka, malìnka mia!

Ах, под сосною, под зеленою,
Ah, sotto il pino, sotto verde,
Спать положите вы меня!
Mettetemi a dormire!
Ай-люли, люли, ай-люли,
Ah, ljuli, ljuli, ah, ljuli, ljuli
Спать положите вы меня.
Mettetemi voi a dormire!

Калинка, калинка, калинка моя!
Kalìnka, kalìnka, kalìnka mia
В саду ягода малинка, малинка моя!
Nel giardino c’è malìnka, malìnka mia!

Ах, сосенушка ты зеленая,
Ah, il piccolo pino verde,
Не шуми же надо мной!
Non stormire sopra di me!
Ай-люли, люли, ай-люли,
Ah, ljuli, ljuli, ah, ljuli, ljuli
Не шуми же надо мной!
Non stormire sopra di me!

Калинка, калинка, калинка моя!
Kalìnka, kalìnka, kalìnka mia
В саду ягода малинка, малинка моя!
Nel giardino c’è malìnka, malìnka mia!

Ах, красавица, душа-девица,
Ah, bella ragazza di cuore,
Полюби же ты меня!
Amami invece!
Ай-люли, люли, ай-люли,
Ah, ljuli, ljuli, ah, ljuli, ljuli
Полюби же ты меня!
Amami invece!

Калинка, калинка, калинка моя!
Kalìnka, kalìnka, kalìnka mia
В саду ягода малинка, малинка моя!
Nel giardino c’è malìnka, malìnka mia!

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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