“L’amico del popolo”, 30 luglio 2017

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DUVAR (Le mur / La rivolta, Francia, 1983), scritto e diretto da Yilmaz Güney. Fotografia: Izzet Akay. Montaggio: Sabine Mamou. Musica: Ozan Garip Sahin, Setrak Bakirel. Con: Ali Berktay, Malik Berrichi, Jean Pierre Colin, Jacques Demanche, Nicolas Hossein, Sema Kuray, Zeynep Kuray, Tuncel Kurtiz, Selahattin Kuzuogli, Ali Dede Altuntas, Ayse Emel Mesci, Necdet Nakiboglu, Isabelle Tissandier, Ahmet Ziyrek.

La rivolta è quella di alcuni ragazzi del Dormitorio numero 4 della prigione di Ankara (Turchia). Nella prigione sono raccolti uomini e donne, detenuti politici e delinquenti comuni, ma l'obiettivo è puntato soprattutto sui giovanissimi, sempre umiliati, bastonati e seviziati. Lo scarso cibo, la mancanza di vetri alle finestre e di acqua, i parassiti e, più che ogni altra cosa, la gragnuola di botte che sadicamente si rovescia ogni giorno su di loro, spinge alcuni ragazzi tra i più animosi ad organizzare una rivolta: la quale ha come unico scopo quello di un trasferimento in altra prigione, che non può, a detta dei promotori, essere peggiore. Ma ad un regime oppressore e carcerario non è dato di sfuggire: dopo che il più giovane dei congiurati viene ucciso, perché desideroso di libertà, egli ha voluto evadere, anche la nuova prigione si presenta agli infelici ragazzi per quella che è, ossia il ben noto ambiente, con scarso cibo e ancora sevizie ed umiliazioni.

“Opera doppiamente maledetta, La rivolta: film d'esilio e film (quasi) postumo. Yilmaz Güney si ispira a un fatto avvenuto nel 1976 e che era stato al centro di un racconto di vita carceraria, scritto dal regista, allora prigioniero. Lunghissimo il titolo: “Noi vogliamo una stufa, i vetri per le finestre e due pani al giorno”. L'esperienza carceraria, che Güney patisce per dodici anni tra il 1960 e il 1980, è alla base di molti film dell'autore curdo. Prima di Yol e di La rivolta, compare tutta una galleria di titoli, inediti in Italia, che sembrano tratti di peso da un ambiente di miseria, paura, privazione della libertà: I fuggiaschi, I disperati, Speranza, Dolore, Inquietudine. Tutti film che trovano una solida base documentaristica nel vissuto dell'autore o delle persone con cui ha diviso la prigionia.
“Il muro - dice il regista, spiegando il titolo originale dei suo ultimo film - è quella barriera da scavalcare, o, se necessario, da abbattere, perché l'individuo sia libero non soltanto politicamente, ma socialmente e moralmente”. Per Güney scavalcare il muro ha significato abbandonare il proprio Paese, optare per l'esilio. Ma quest'esilio non equivale all'ingresso in un mondo nuovo, ma alla lancinante riflessione su quello abbandonato che, nella lontananza, s'impone come presenza ineludibile. Ed ecco il regista ricostruire la sua Turchia, la Turchia delle carceri, in una vecchia abbazia francese, e arruolare, quali interpreti, i turchi dell'emigrazione. Forse, attorno alla prigione cinematografica, gli alberi e i tetti hanno un'aria da regione parigina, ma il dato scenografico non muta il sentimento di cui è impregnato il film. Güney redige un messaggio dalla Turchia, anche se per inoltrarlo si affida ai servizi di un Paese terzo (emblematicamente gira il film in duplice versione, turca e francese). Il realismo del regista, in effetti, non ha bisogno di quinte, ma si anima di dati culturali che la lontananza conserva integri e forse potenzia.
(...) L'ambizione di fare di questa prigione una metafora della Turchia, ora governata direttamente dalle caserme ora tutelata dalle forze armate, incontra severi limiti. I propositi del regista si intravedono nella descrizione del mondo dei giovani reclusi e di quello dei carcerieri. I bambini prima vengono colti esitanti di fronte alle regole della segregazione, poi sempre più duttili nell'accettazione di un sistema che all'innocenza preferisce la scaltrezza. Una società in miniatura. Di scorcio il film entra negli alloggi delle guardie cercando di dare spessore umano alle loro figure, affiancando all'aguzzino il guardiano buono, distinguendo tra chi pensa di esercitare un mestiere ingrato, ma necessario alla società, e chi vuole approfittare di un potere che gli è stato delegato. Dentro le mura della prigione il regista cerca veramente di ricostruire tutta la Turchia in grigio-verde, ma fallisce perché veste i panni del militante radicale, pronto all'invettiva e al gesto gratuito, quando solo rivestendo quelli dei poeta avrebbe potuto convincerci. E così il film finisce per toccare le sue corde più vere solo quando si riduce all'espressione della sofferta disperazione del suo autore. Ancora una volta è attorno al personaggio di Shaban che si raccolgono le scene più esemplari: scene di morte. Il ragazzo viene abbattuto mentre fugge dalla prigione correndo senza una meta, come un animale che evade dalla gabbia. Güney, nel suo pessimismo, sembra concepire la libertà come meta impossibile. Anzi, solo come anelito. La libertà, per il regista curdo, è una meta che si staglia oltre l'orizzonte, impossibile da vedere. Ogni gesto, ogni sforzo dei personaggi è diretto ad avvicinarsi a quest'orizzonte, che inevitabilmente s'allontana con l'avvicinarsi dell'osservatore. Più che i germi di libertà espressi dalla rivolta, il regista mostra quest'interminabile corsa verso una linea immaginaria. Güney la mostra ripetutamente, cogliendo la sofferenza in ogni stazione. Rifiuta di ergersi al di sopra dei suoi personaggi, adottando un facile e non gratuito atteggiamento paternalistico, ma divide con essi una stessa disperazione. Anche se questa, nel regista, è più lancinante perché più lucida. Ed è a questo titolo che il film acquista una dignità che una certa facilità di stile rischia non di rado di compromettere. L'urgenza della denuncia, cui forse non è estraneo, oltre che la condizione di esule, il count-down con la morte che lo avrebbe presto stroncato, impedisce a Güney di conferire a La rivolta quelle intonazioni poetiche che aveva saputo dare a Yol e a Il gregge. Il naturalismo e la mancanza di straniamento, al contempo, vietano a quest'opera, uscita postuma in Italia, la possibilità di approdare al delirio. Güney alterna rari momenti di maestosa bellezza (i preparativi dello sposalizio nel reparto femminile, la bimba al suo primo giorno di scuola) a ondate di furore. Il film è chiuso, soffocato, assediato. Un sentimento di paura domina tutti i personaggi: l'oppressione sembra cristallizzarsi su ciascuna persona, quasi a comporre una serie di quadri separati da sbarre, divisi in celle, refettori e cortili. La macchina da presa sta addosso ai personaggi, alle loro facce, ai lividi dei loro corpi. Qualche volta li accarezza. Più spesso li domina dall'alto, quasi fosse piazzata su una delle torrette che circondano il penitenziario. Le inquadrature si ripetono monotone per trasmettere allo spettatore il senso di claustrofobia e di monotonia della vita della prigione. I bambini sono ripresi in piani americani, per rilevare attorno a loro la mancanza di spazio vitale. Molto spesso le stesse sbarre delimitano fisicamente l'inquadratura. Passando da un dormitorio all'altro, la macchina da presa scavalca i muri per trasmettere allo spettatore la sensazione di questa presenza incombente. Anche gli esterni non oltrepassano l'universo carcerario. La campagna che è teatro della fuga di Shaban è inquadrata dall'alto per far incombere sullo schermo la linea dell'orizzonte e negare al massimo la visione del cielo. Il trasferimento dei reclusi protagonisti della rivolta in un altro penitenziario, occasione sognata e ricercata per vedere il mondo e conoscere il mare, è rappresentato solo attraverso l'arrivo del cellulare. La conoscenza del nuovo carcere, nel quale i prigionieri - bambini sperano di trovare docce, tv e un campo di calcio, si risolve nel macabro rito della ripresa delle foto segnaletiche. Con le quali tutto resta immobile. Fisso per sempre”.

(Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 248, 10/1985)

“Ispirato a una sommossa accaduta nel 1976 in un carcere di Ankara, è la storia di una rivolta in un penitenziario turco per ottenere il trasferimento in un carcere meno duro dove "si potesse vedere il mare e la TV". Pur non trascurando gli altri settori (il politico, il femminile, quello dei "comuni" adulti), l'azione si concentra su quello minorile e l'orrore, la compassione, l'indignazione sono incentivati. Occorreva un alto magistero stilistico per dominare una materia così calda e il regista lo mostra soltanto a tratti. È l'ultimo film di Y. Guney (1937-84), attore, sceneggiatore e regista, il n° 1 del cinema turco che passò qualche anno in carcere dove scrisse le sceneggiature di cinque film. Rilasciato con un permesso speciale nel 1982, espatriò clandestinamente e, girandolo in un'abbazia francese nei pressi di Senlis, diresse questo film, il primo dopo dieci anni. Gli interpreti furono trovati tra gli arabi nordafricani della periferia di Parigi e tra i turchi di Berlino”.

(Il Morandini)

 

Una poesia al giorno

Il pianto della scavatrice (quarta parte), di Pier Paolo Pasolini, 1956 (da “Le ceneri di Gramsci”, Garzanti, Milano, 1957)

IV

Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro

o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa

dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini... E infatti
cammino per una strada che avanza

tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso...
Trasportato dall'onda dei passi,

questa che lascio alle spalle, lieve e
misero,
non è la periferia di Roma: "Viva
Mexico!" è scritto a calce o inciso

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.

Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,

la città, mezza vuota, benché sia l'ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa - o del vespro che indora

i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.
Da un gran silenzio le strade sono invase:

si perdono i selciati un po' sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il tempo,
e due lunghi listoni di pietra

corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto

perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s'aprano sereni, o un pozzetto

con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.

Si apre sulla cima del colle l'erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde

d'un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.
Uno spazio che tremola celeste

o appena cereo... Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta
sospesa nel cielo appenninico:

s'interna fra case più strette, scende
un po' a mezza costa: e più in basso
- quando le barocche casette diradano

ecco apparire la valle - e il deserto.
Ancora solo qualche passo
verso la svolta, dove la strada

è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,
quasi fosse crollata la chiesa,

si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un'abside, pesta di volute
lungo le cancellate cicatrici

del crollo - da cui soltanto essa,
l'immensa conchiglia, sia rimasta
a spalancarsi contro il cielo.

È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata,
che incendia la pelle di dolcezza...

È come quegli odori che, dai campi
bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primi
giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire

se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito

dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell'aria

che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata

 

Un fatto al giorno

30 luglio 1863: rappresentanti degli Stati Uniti e dei leader tribali, tra cui il capo Pocatello (della tribù degli Shoshoni), firmano il trattato di Box Elder, promettendo di fermare gli assalti alle carovane di emigranti nell'Idaho meridionale e nello Utah settentrionale.

“Gli Shoshoni hanno avuto origine dalla mescolanza di vari popoli indigeni che avevano vissuto nella parte occidentale del Nordamerica per migliaia d'anni. Una delle loro caratteristiche principali era la lingua, di famiglia uto-azteca: la sua diffusione era così capillare che, nonostante la presenza di vari dialetti, i membri di tribù lontane potevano conversare con facilità. Nel momento di massima ascesa gli Shoshoni occupavano una regione che andava dal nord dell'Idaho all'Arizona e dalla California orientale al Montana. I primi contatti con gli uomini bianchi risalgono al passaggio della spedizione di Lewis e Clark nella parte settentrionale delle loro terre nel 1805 e l'arrivo di trapper e commercianti nelle Montagne Rocciose negli anni '20 dell'Ottocento. Agli esploratori bianchi fecero seguito i pionieri, in particolare i mormoni che si insediarono nello Utah intorno al Grande Lago Salato, nel cuore dei territori tribali Shoshoni. Per le tre generazioni successive i capi Shoshoni combatterono contro la perdita dei terreni di caccia, la distruzione della loro cultura e il trasferimento forzato da parte dell'esercito americano. Ma queste lotte, per quanto valorose, si dimostrarono inutili: nel 1890 gli ultimi Shoshoni erano stati ormai rinchiusi nelle riserve amministrate dall'Agenzia degli Affari Indiani statunitense”.

(In CIVILOPEDIA online: degli Shoshoni)

 

Una frase al giorno

"Non parlo il tuo linguaggio e tu non parli il mio. Ma ugualmente io ti capisco. Non devo camminare nelle tue orme se posso vedere le orme che ti sei lasciato dietro!"

(Proverbio degli Shoshoni)

 

Un brano al giorno

Uriah Heep, July Morning, 1971 

At the sound
Of the first bird singing
I was leaving for home
With the storm...

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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