“L’amico del popolo”, 30 luglio 2017

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Una nuova rubrica ospiterà il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

DUVAR (Le mur / La rivolta, Francia, 1983), scritto e diretto da Yilmaz Güney. Fotografia: Izzet Akay. Montaggio: Sabine Mamou. Musica: Ozan Garip Sahin, Setrak Bakirel. Con: Ali Berktay, Malik Berrichi, Jean Pierre Colin, Jacques Demanche, Nicolas Hossein, Sema Kuray, Zeynep Kuray, Tuncel Kurtiz, Selahattin Kuzuogli, Ali Dede Altuntas, Ayse Emel Mesci, Necdet Nakiboglu, Isabelle Tissandier, Ahmet Ziyrek.

La rivolta è quella di alcuni ragazzi del Dormitorio numero 4 della prigione di Ankara (Turchia). Nella prigione sono raccolti uomini e donne, detenuti politici e delinquenti comuni, ma l'obiettivo è puntato soprattutto sui giovanissimi, sempre umiliati, bastonati e seviziati. Lo scarso cibo, la mancanza di vetri alle finestre e di acqua, i parassiti e, più che ogni altra cosa, la gragnuola di botte che sadicamente si rovescia ogni giorno su di loro, spinge alcuni ragazzi tra i più animosi ad organizzare una rivolta: la quale ha come unico scopo quello di un trasferimento in altra prigione, che non può, a detta dei promotori, essere peggiore. Ma ad un regime oppressore e carcerario non è dato di sfuggire: dopo che il più giovane dei congiurati viene ucciso, perché desideroso di libertà, egli ha voluto evadere, anche la nuova prigione si presenta agli infelici ragazzi per quella che è, ossia il ben noto ambiente, con scarso cibo e ancora sevizie ed umiliazioni.

“Opera doppiamente maledetta, La rivolta: film d'esilio e film (quasi) postumo. Yilmaz Güney si ispira a un fatto avvenuto nel 1976 e che era stato al centro di un racconto di vita carceraria, scritto dal regista, allora prigioniero. Lunghissimo il titolo: “Noi vogliamo una stufa, i vetri per le finestre e due pani al giorno”. L'esperienza carceraria, che Güney patisce per dodici anni tra il 1960 e il 1980, è alla base di molti film dell'autore curdo. Prima di Yol e di La rivolta, compare tutta una galleria di titoli, inediti in Italia, che sembrano tratti di peso da un ambiente di miseria, paura, privazione della libertà: I fuggiaschi, I disperati, Speranza, Dolore, Inquietudine. Tutti film che trovano una solida base documentaristica nel vissuto dell'autore o delle persone con cui ha diviso la prigionia.
“Il muro - dice il regista, spiegando il titolo originale dei suo ultimo film - è quella barriera da scavalcare, o, se necessario, da abbattere, perché l'individuo sia libero non soltanto politicamente, ma socialmente e moralmente”. Per Güney scavalcare il muro ha significato abbandonare il proprio Paese, optare per l'esilio. Ma quest'esilio non equivale all'ingresso in un mondo nuovo, ma alla lancinante riflessione su quello abbandonato che, nella lontananza, s'impone come presenza ineludibile. Ed ecco il regista ricostruire la sua Turchia, la Turchia delle carceri, in una vecchia abbazia francese, e arruolare, quali interpreti, i turchi dell'emigrazione. Forse, attorno alla prigione cinematografica, gli alberi e i tetti hanno un'aria da regione parigina, ma il dato scenografico non muta il sentimento di cui è impregnato il film. Güney redige un messaggio dalla Turchia, anche se per inoltrarlo si affida ai servizi di un Paese terzo (emblematicamente gira il film in duplice versione, turca e francese). Il realismo del regista, in effetti, non ha bisogno di quinte, ma si anima di dati culturali che la lontananza conserva integri e forse potenzia.
(...) L'ambizione di fare di questa prigione una metafora della Turchia, ora governata direttamente dalle caserme ora tutelata dalle forze armate, incontra severi limiti. I propositi del regista si intravedono nella descrizione del mondo dei giovani reclusi e di quello dei carcerieri. I bambini prima vengono colti esitanti di fronte alle regole della segregazione, poi sempre più duttili nell'accettazione di un sistema che all'innocenza preferisce la scaltrezza. Una società in miniatura. Di scorcio il film entra negli alloggi delle guardie cercando di dare spessore umano alle loro figure, affiancando all'aguzzino il guardiano buono, distinguendo tra chi pensa di esercitare un mestiere ingrato, ma necessario alla società, e chi vuole approfittare di un potere che gli è stato delegato. Dentro le mura della prigione il regista cerca veramente di ricostruire tutta la Turchia in grigio-verde, ma fallisce perché veste i panni del militante radicale, pronto all'invettiva e al gesto gratuito, quando solo rivestendo quelli dei poeta avrebbe potuto convincerci. E così il film finisce per toccare le sue corde più vere solo quando si riduce all'espressione della sofferta disperazione del suo autore. Ancora una volta è attorno al personaggio di Shaban che si raccolgono le scene più esemplari: scene di morte. Il ragazzo viene abbattuto mentre fugge dalla prigione correndo senza una meta, come un animale che evade dalla gabbia. Güney, nel suo pessimismo, sembra concepire la libertà come meta impossibile. Anzi, solo come anelito. La libertà, per il regista curdo, è una meta che si staglia oltre l'orizzonte, impossibile da vedere. Ogni gesto, ogni sforzo dei personaggi è diretto ad avvicinarsi a quest'orizzonte, che inevitabilmente s'allontana con l'avvicinarsi dell'osservatore. Più che i germi di libertà espressi dalla rivolta, il regista mostra quest'interminabile corsa verso una linea immaginaria. Güney la mostra ripetutamente, cogliendo la sofferenza in ogni stazione. Rifiuta di ergersi al di sopra dei suoi personaggi, adottando un facile e non gratuito atteggiamento paternalistico, ma divide con essi una stessa disperazione. Anche se questa, nel regista, è più lancinante perché più lucida. Ed è a questo titolo che il film acquista una dignità che una certa facilità di stile rischia non di rado di compromettere. L'urgenza della denuncia, cui forse non è estraneo, oltre che la condizione di esule, il count-down con la morte che lo avrebbe presto stroncato, impedisce a Güney di conferire a La rivolta quelle intonazioni poetiche che aveva saputo dare a Yol e a Il gregge. Il naturalismo e la mancanza di straniamento, al contempo, vietano a quest'opera, uscita postuma in Italia, la possibilità di approdare al delirio. Güney alterna rari momenti di maestosa bellezza (i preparativi dello sposalizio nel reparto femminile, la bimba al suo primo giorno di scuola) a ondate di furore. Il film è chiuso, soffocato, assediato. Un sentimento di paura domina tutti i personaggi: l'oppressione sembra cristallizzarsi su ciascuna persona, quasi a comporre una serie di quadri separati da sbarre, divisi in celle, refettori e cortili. La macchina da presa sta addosso ai personaggi, alle loro facce, ai lividi dei loro corpi. Qualche volta li accarezza. Più spesso li domina dall'alto, quasi fosse piazzata su una delle torrette che circondano il penitenziario. Le inquadrature si ripetono monotone per trasmettere allo spettatore il senso di claustrofobia e di monotonia della vita della prigione. I bambini sono ripresi in piani americani, per rilevare attorno a loro la mancanza di spazio vitale. Molto spesso le stesse sbarre delimitano fisicamente l'inquadratura. Passando da un dormitorio all'altro, la macchina da presa scavalca i muri per trasmettere allo spettatore la sensazione di questa presenza incombente. Anche gli esterni non oltrepassano l'universo carcerario. La campagna che è teatro della fuga di Shaban è inquadrata dall'alto per far incombere sullo schermo la linea dell'orizzonte e negare al massimo la visione del cielo. Il trasferimento dei reclusi protagonisti della rivolta in un altro penitenziario, occasione sognata e ricercata per vedere il mondo e conoscere il mare, è rappresentato solo attraverso l'arrivo del cellulare. La conoscenza del nuovo carcere, nel quale i prigionieri - bambini sperano di trovare docce, tv e un campo di calcio, si risolve nel macabro rito della ripresa delle foto segnaletiche. Con le quali tutto resta immobile. Fisso per sempre”.

(Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 248, 10/1985)

“Ispirato a una sommossa accaduta nel 1976 in un carcere di Ankara, è la storia di una rivolta in un penitenziario turco per ottenere il trasferimento in un carcere meno duro dove "si potesse vedere il mare e la TV". Pur non trascurando gli altri settori (il politico, il femminile, quello dei "comuni" adulti), l'azione si concentra su quello minorile e l'orrore, la compassione, l'indignazione sono incentivati. Occorreva un alto magistero stilistico per dominare una materia così calda e il regista lo mostra soltanto a tratti. È l'ultimo film di Y. Guney (1937-84), attore, sceneggiatore e regista, il n° 1 del cinema turco che passò qualche anno in carcere dove scrisse le sceneggiature di cinque film. Rilasciato con un permesso speciale nel 1982, espatriò clandestinamente e, girandolo in un'abbazia francese nei pressi di Senlis, diresse questo film, il primo dopo dieci anni. Gli interpreti furono trovati tra gli arabi nordafricani della periferia di Parigi e tra i turchi di Berlino”.

(Il Morandini)

DUVAR (Le mur / La rivolta, Francia, 1983), scritto e diretto da Yilmaz Güney

 

Una poesia al giorno

Il pianto della scavatrice (quarta parte), di Pier Paolo Pasolini, 1956 (da “Le ceneri di Gramsci”, Garzanti, Milano, 1957)

IV

Mi stringe contro il suo vecchio vello,
che profuma di bosco, e mi posa
il muso con le sue zanne di verro

o errante orso dal fiato di rosa,
sulla bocca: e intorno a me la stanza
è una radura, la coltre corrosa

dagli ultimi sudori giovanili, danza
come un velame di pollini... E infatti
cammino per una strada che avanza

tra i primi prati primaverili, sfatti
in una luce di paradiso...
Trasportato dall'onda dei passi,

questa che lascio alle spalle, lieve e
misero,
non è la periferia di Roma: "Viva
Mexico!" è scritto a calce o inciso

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii,
decrepiti, leggeri come osso, ai confini
di un bruciante cielo senza un brivido.

Ecco, in cima a una collina
fra le ondulazioni, miste alle nubi,
di una vecchia catena appenninica,

la città, mezza vuota, benché sia l'ora
della mattina, quando vanno le donne
alla spesa - o del vespro che indora

i bambini che corrono con le mamme
fuori dai cortili della scuola.
Da un gran silenzio le strade sono invase:

si perdono i selciati un po' sconnessi,
vecchi come il tempo, grigi come il tempo,
e due lunghi listoni di pietra

corrono lungo le strade, lucidi e spenti.
Qualcuno, in quel silenzio, si muove:
qualche vecchia, qualche ragazzetto

perduto nei suoi giuochi, dove
i portali di un dolce Cinquecento
s'aprano sereni, o un pozzetto

con bestioline intarsiate sui bordi
posi sopra la povera erba,
in qualche bivio o canto dimenticato.

Si apre sulla cima del colle l'erma
piazza del comune, e fra casa
e casa, oltre un muretto, e il verde

d'un grande castagno, si vede
lo spazio della valle: ma non la valle.
Uno spazio che tremola celeste

o appena cereo... Ma il Corso continua,
oltre quella familiare piazzetta
sospesa nel cielo appenninico:

s'interna fra case più strette, scende
un po' a mezza costa: e più in basso
- quando le barocche casette diradano

ecco apparire la valle - e il deserto.
Ancora solo qualche passo
verso la svolta, dove la strada

è già tra nudi praticelli erti
e ricciuti. A manca, contro il pendio,
quasi fosse crollata la chiesa,

si alza gremita di affreschi, azzurri,
rossi, un'abside, pesta di volute
lungo le cancellate cicatrici

del crollo - da cui soltanto essa,
l'immensa conchiglia, sia rimasta
a spalancarsi contro il cielo.

È lì, da oltre la valle, dal deserto,
che prende a soffiare un'aria, lieve, disperata,
che incendia la pelle di dolcezza...

È come quegli odori che, dai campi
bagnati di fresco, o dalle rive di un fiume,
soffiano sulla città nei primi
giorni di bel tempo: e tu
non li riconosci, ma impazzito
quasi di rimpianto, cerchi di capire

se siano di un fuoco acceso sulla brina,
oppure di uve o nespole perdute
in qualche granaio intiepidito

dal sole della stupenda mattina.
Io grido di gioia, così ferito
in fondo ai polmoni da quell'aria

che come un tepore o una luce
respiro guardando la vallata

 

Un fatto al giorno

30 luglio 1863: rappresentanti degli Stati Uniti e dei leader tribali, tra cui il capo Pocatello (della tribù degli Shoshoni), firmano il trattato di Box Elder, promettendo di fermare gli assalti alle carovane di emigranti nell'Idaho meridionale e nello Utah settentrionale.

“Gli Shoshoni hanno avuto origine dalla mescolanza di vari popoli indigeni che avevano vissuto nella parte occidentale del Nordamerica per migliaia d'anni. Una delle loro caratteristiche principali era la lingua, di famiglia uto-azteca: la sua diffusione era così capillare che, nonostante la presenza di vari dialetti, i membri di tribù lontane potevano conversare con facilità. Nel momento di massima ascesa gli Shoshoni occupavano una regione che andava dal nord dell'Idaho all'Arizona e dalla California orientale al Montana. I primi contatti con gli uomini bianchi risalgono al passaggio della spedizione di Lewis e Clark nella parte settentrionale delle loro terre nel 1805 e l'arrivo di trapper e commercianti nelle Montagne Rocciose negli anni '20 dell'Ottocento. Agli esploratori bianchi fecero seguito i pionieri, in particolare i mormoni che si insediarono nello Utah intorno al Grande Lago Salato, nel cuore dei territori tribali Shoshoni. Per le tre generazioni successive i capi Shoshoni combatterono contro la perdita dei terreni di caccia, la distruzione della loro cultura e il trasferimento forzato da parte dell'esercito americano. Ma queste lotte, per quanto valorose, si dimostrarono inutili: nel 1890 gli ultimi Shoshoni erano stati ormai rinchiusi nelle riserve amministrate dall'Agenzia degli Affari Indiani statunitense”.

(In CIVILOPEDIA online: degli Shoshoni)

 

Una frase al giorno

"Non parlo il tuo linguaggio e tu non parli il mio. Ma ugualmente io ti capisco. Non devo camminare nelle tue orme se posso vedere le orme che ti sei lasciato dietro!"

(Proverbio degli Shoshoni)

 

Un brano al giorno

Uriah Heep, July Morning, 1971 

At the sound
Of the first bird singing
I was leaving for home
With the storm...

 

Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k