“L’amico del popolo”, 30 ottobre 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

LE FEU FOLLET (Fuoco fatuo, Francia, Italia, 1963) regia di Louis Malle. Sceneggiatura: Louis Malle. Basato su: Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle. Musiche: Erik Satie. Fotografia: Ghislain Cloquet. Montaggio: Suzanne Baron. Cast: Maurice Ronet (Alain Leroy), Léna Skerla (Lydia), Yvonne Clech (Mademoiselle Farnoux), Hubert Deschamps (D'Averseau), Jean-Paul Moulinot (Dr. La Barbinais), Mona Dol (Madame La Barbinais), Pierre Moncorbier (Moraine), René Dupuy (Charlie/René Dupuis), Bernard Tiphaine (Milou), Bernard Noël (Dubourg), Ursula Kubler (Fanny), Jeanne Moreau (Eva), Alexandra Stewart (Solange).

Distrutto dall'alcol e da una vita in cui non riesce più a riconoscersi, Alain programma il proprio suicidio. Si concede ancora una possibilità, alla ricerca di un motivo per andare avanti, un percorso che compie nei suoi ultimi due intensi giorni di vita, cercando nei ricordi, nelle vecchie amicizie che non ritrova, in uno stile di vita che non gli appartiene più, superato dal tempo e dal peso di un'esistenza ormai inadeguata. Alain sembra essere stato abbandonato dalla sua stessa vita, cerca di comunicare con un mondo che gli riserva solo disprezzo o compassione, cerca di comunicare con se stesso attraverso questo mondo che invece lo rifiuta, che gli propone come unica alternativa un cambiamento impossibile. Assai intensi i dialoghi-monologhi del protagonista e una Parigi in bianco e nero, fatta di scorci, di volti, di pioggia, di auto.

"La vita scorre troppo lentamente su di me. Così la accelero. La metto a posto." - Alain Leroy
 

Vi è un elemento autobiografico in questo quinto film di Louis Malle. Rampollo di una famiglia borghese della Francia del Nord, alla soglia dei 30 anni, dopo un lungo periodo trascorso in dissolutezze notturne, all'insegna dell'alcol e di occasionali incontri amorosi, era giunto a interrogarsi, come il protagonista del film, sul senso di restare "... immerso nell'adolescenza... una promessa e anche una menzogna... Ero io il bugiardo".

A dispetto di alcune irruzioni del quotidiano (come gli accenni alla guerra di Algeria o la processione dei volti dei passanti davanti al bar all'Odéon, che evoca un mal di vivere esistenzialista), la regia di Malle conserva un rigore classico e autonomia nei confronti dei modelli narrativi della Nouvelle vague, caratterizzati da fratture e discontinuità.

Il suicidio finale - soggetto peraltro abbastanza ostico da portare sullo schermo agli inizi degli anni Sessanta - è già inscritto nell'inizio, con il protagonista, uno splendido Maurice Ronet (dandy nella vita, come nel film) che armeggia con la sua pistola di ex ufficiale mentre, nella sua camera della clinica per alcolisti, lunghi piani sequenza raccontano, con oggetti e fotografie, della sua storia. Le conversazioni coi vecchi amici, i racconti delle follie giovanili, il commento di una compagnia di omosessuali non lasciano intravedere altra soluzione a questo disperato viaggio nel passato.

A chi accusava il film di falsità, proprio a partire dalla sua insistenza su un'unica, disperata tonalità narrativa, François Truffaut rispondeva: "... se Ronet fosse stato qualche volta aggressivo o odioso, la nostra adesione sarebbe stata più completa e il film, invece di essere semplicemente commovente, sarebbe stato realmente lacerante... Tutti i comici conoscono il riso per ripetizione, esiste anche il patetico per ripetizione; è il più interessante. Grazie a questo Louis Malle ha messo a segno il suo miglior film" (François Truffaut, I film della mia vita, Saggi Marsilio, 1992 in wikipedia.org).

“Le ultime ventiquattr’ore di vita d’un uomo di trent’anni (Maurice Ronet) che ha deciso di suicidarsi. L’azione del romanzo da cui è stato tratto il film si svolgeva alla fine degli anni ‘20. Louis Malle la trasferì nella Parigi del 1963, facendovi vagare un borghese finito, disperato, dedito all’alcol, dopo l’avventura senza pensieri d’una vita che ora, dopo i 30, gli ha mostrato la sua vacuità. Senso vivissimo della atmosfera e dei personaggi. Maurice Ronet ha saputo identificarsi in modo straziante coll’infelice protagonista.”

(Georges Sadoul)

“Le ultime ventiquattro ore di un suicida trentenne, un tempo idolo e animatore del bel mondo parigino, oggi alcolizzato, abbandonato dalla moglie americana in una clinica per malattie nervose. Il romanzo di Drieu La Rochelle è degli anni Venti; Malle lo ha ambientato nella Parigi 1963. Un film raccontato con dolcezza angosciosa, formalmente elegante ma senza compiacimenti o sbavature. Fuoco fatuo non è la storia di una scelta, è il ritratto di un uomo che ha già deciso di uccidersi e dei suoi amici di un tempo: lui è debole, sensibile, incapace di affrontare la maturità, un ragazzo invecchiato poco divertente per gli amici, falsi ribelli o convinti integrati, che non riconoscono la sua crisi.”

(Massimo Magri in www.mymovies.it)

“Alain Leroy, trentenne d'estrazione borghese, esce da una clinica dopo una cura disintossicante dall'alcol. In preda alla depressione, visita alcuni vecchi amici: Dubourg, accasato con moglie e due figli; Jeanne, che lo porta a una riunione di intellettuali in cui Alain è protagonista di un diverbio; alcuni ex camerati della guerra in Algeria, ora membri dell'OAS. A cena da Cyrille e Solange Lavaud, Alain si abbandona a uno sfogo in cui tira fuori tutto il suo disagio. Non è riuscito a trovare una sola valida motivazione per vivere: torna alla clinica e si spara un colpo al cuore.

 

LE FEU FOLLET (Fuoco fatuo, Francia, Italia, 1963) regia di Louis Malle

 

Favorito da una fortuna personale non trascurabile, discendente di una grande famiglia borghese, Louis Malle provò sempre una sorta di disagio, quasi un senso di colpa, rispetto alle proprie origini sociali. Nottambulo e, secondo le sue stesse parole, un poco "eterno adolescente", all'epoca il giovane regista conduceva una vita intensa fatta di locali notturni, brevi incontri occasionali, alcol in abbondanza... Così egli ricorda questo periodo della sua vita, dal quale sarebbe nato il progetto di Le feu follet: "Avevo l'impressione che i trent'anni fossero l'età della pensione. Mi chiedevo che fare della mia vita, se non fosse arrivato il momento di diventare adulto. Cioè di accettare il mondo così com'è, cosa che mi sono sempre rifiutato di fare". Per esprimere questo malessere Louis Malle decide quindi di adattare un romanzo di Pierre Drieu La Rochelle, opera letteraria molto vicina al reportage che racconta le ultime quarantotto ore di Alain Leroy, fino al colpo di pistola finale. Benché ideologicamente vicino alla sinistra, Louis Malle appartiene a una generazione di giovani di origine borghese, affascinati da una corrente di pensiero di destra caratterizzata da un senso di inutilità della vita e dall'impressione che nulla permetterà loro di realizzarsi. Di conseguenza il suicidio sembra l'ultima possibilità rimasta. È questo il sentimento, l'impressione che Le feu follet tenta con successo di descrivere. Malle sembra interessato esclusivamente a mostrare i momenti di deriva di un personaggio piacevole, bello, che avrebbe potuto riuscire in tutto, ma che, minato dal proprio stato di depressione, sprofonda nell'alcol e in una sorta di follia che, in fondo, non intende abbandonare.

Tutta la bellezza del film deriva dal suo tono incompiuto e disilluso. In nessuna scena Malle cerca di comunicarci qualcosa in particolare. Per tutto il film non facciamo altro che seguire questo personaggio disperato; i minuti si aggiungono ai minuti, mentre l'emozione viene ricreata quasi unicamente attraverso l'accumulo dei primi piani neutri che descrivono le varie situazioni. Così avviene, per esempio, nella discussione intorno al teatro dell'Odéon, dove la durata ci viene presentata nella sua assoluta continuità, facendoci avvertire che Alain prende - ma soprattutto perde - il proprio tempo. L'aspetto patetico della ripetizione temporale è percepibile anche quando il protagonista evoca la routine quotidiana: "A letto alle tre del mattino, a cavallo dalle nove alle undici, poi è l'ora della Borsa: qualche milione vinto, perduto, detto fatto; pranzo di lavoro, un po' di ufficio, una donna, qualche bicchiere, a cena in città, un locale e poi si ricomincia". Il tempo non ha più alcuna funzione o utilità, si riduce a una durata che bisogna riempire fino al tedio estremo. Soltanto il personaggio di Jeanne riuscirà a dare ad Alain, per un breve attimo, l'illusione della pace della vita quotidiana. Tutto l'interesse di Le feu follet deriva dal fatto che il suo protagonista sembra costantemente rifiutare la vicenda che gli viene proposto di seguire. Racconto di un non-racconto, il film non potrà far altro che terminare sul viso di Alain, irrigidito nella morte. La sua voce risuona per l'ultima volta, come rivolgendosi allo spettatore: "Mi sono ucciso perché non mi avete amato, perché non vi ho amato... Su di voi lascerò un'impronta indelebile".

Per mettere in scena il ritratto di un essere umano ossessionato e spossato dal disgusto nei confronti della vita, Malle utilizza i nuovi mezzi tecnici dell'epoca (come la pellicola ultrasensibile), ma, contrariamente ai cineasti della Nouvelle vague, non ricerca mai la novità o l'invenzione. La sua regia rimane semplice, il suo montaggio classico. Quando entriamo nella stanza di Alain, la data scritta sulla lavagna nera, la pistola che viene maneggiata e il suicidio abbozzato prefigurano immediatamente l'esito della giornata. Le immagini di Malle, risultato di un lavoro a regola d'arte, testimoniano una ricerca quasi ossessiva dell'inquadratura perfetta, plasticamente priva di difetti, ma che può esistere soltanto a costo di una certa perdita di spontaneità. Si potrebbe quasi affermare che, per quanto impeccabile, la regia di Le feu follet a volte manchi drammaticamente di ciò che costituisce il vero stile: una riflessione profonda. Rimane la presenza unica di Maurice Ronet. Il regista ebbe l'intelligenza di offrirgli la parte di Alain, personaggio che corrispondeva alla vera personalità di Ronet, dandy elegante e sottilmente distaccato nel dissimulare un pessimismo ironico, che trova in questa occasione il suo ruolo migliore. È lui che 'tiene in piedi' il film, conferendogli un fascino particolare. Nell'interpretazione di Ronet, il personaggio di Alain è commovente fin dall'inizio. E questa è anche una delle differenze essenziali rispetto ai protagonisti dei film della Nouvelle vague. Nel cinema di Godard, Truffaut o Chabrol i protagonisti ci colpiscono soltanto strada facendo, mentre le emozioni risultano più forti e pure perché ottenute nonostante tutto. Se ogni tanto Alain fosse stato aggressivo o detestabile (pensiamo al Michel Poiccard di À bout de souffle, anch'egli in un certo senso suicida), la nostra adesione sarebbe stata più totale e il film, invece di essere semplicemente commovente, sarebbe stato davvero straziante. Premio speciale della giuria al Festival di Venezia del 1963.”

(Jean Douchet - Enciclopedia del Cinema, 2004, in www.treccani.it)

 

Il 30 ottobre 1932 nasce Louis Malle, regista, produttore e sceneggiatore francese (morto nel 1995)

“Regista cinematografico francese, nato a Thumeries il 30 ottobre 1932 e morto a Los Angeles il 23 novembre 1995. Pur essendo coetaneo di registi che avrebbero dato vita in Francia al movimento della Nouvelle vague, ne rimase ai margini, anche se condivise con François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Jacques Rivette, Eric Rohmer, Roger Vadim, il gusto per il rinnovamento estetico, l'orizzonte letterario, l'amore per la libertà espressiva, la propensione musicale e la passione, viva fin dall'infanzia, per l'arte cinematografica. La sua impazienza, la sua voglia di 'scandalizzare' poeticamente, la sua compiaciuta instabilità formale ed esistenziale lo portarono ben presto a sperimentare la strada dell'eclettismo estetico.

Maestro di stile cinematografico (ma anche grande appassionato di letteratura e di musica jazz) passò infatti, di opera in opera, da un tema all'altro, da una scelta formale all'altra, da un modo di fare cinema a un altro, disorientando anche il critico più attento, in un itinerario filmico fatto di parti che sembrano non congiungersi mai, di sequenze difformi, antitetiche, tese a mostrare l'impossibilità di un montaggio armonico per quel film 'assoluto' che costituisce (come in Ingmar Bergman, in Truffaut e in Alfred Hitchcock) la perfetta identità tra cinema e vita. Fu lo stesso M. a rivelare il solo aspetto che sembra tenere unite le sue opere, sostenendo di avere trovato in Zazie dans le métro (1960; Zazie nel metrò) il suo tema principale, ossia quello dell'incontro degli adolescenti con la corruzione e il caos del mondo adulto. Venne premiato due volte con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia, nel 1980, ex aequo, per Atlantic City (Atlantic City U.S.A.) e nel 1987 per Au revoir les enfants (Arrivederci ragazzi).

Fin da bambino deciso a fare cinema, si iscrisse all'IDHEC, debuttando nel 1959 con il cortometraggio Fantaisie de vendeuse. Codiresse quindi con il comandante Jacques-Yves Cousteau il film Le monde du silence (1956; Il mondo del silenzio), Palma d'oro al Festival di Cannes come miglior documentario, ed ebbe modo di collaborare alla sceneggiatura di Un condamné à mort s'est échappé (1956; Un condannato a morte è fuggito) di Robert Bresson. Quando la Nouvelle vague esplose con i primi capolavori, Les quatre cents coups (1959; I quattrocento colpi) di Truffaut e À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) di Godard, M. aveva già al suo attivo due film fra i più importanti, entrambi con Jeanne Moreau: Ascenseur pour l'échafaud (1957; Ascensore per il patibolo), un noir che alterna classiche scene da film poliziesco a riprese che seguono il vagabondaggio notturno della protagonista per le strade di Parigi, con musiche originali di Miles Davis, e Les amants (1958), dramma intimista di ambiente borghese sulla passione tra una signora benestante e un giovane. Il film, amato da Truffaut, venne mutilato dalla censura.

Nel 1960, con Zazie dans le métro, dal romanzo di R. Queneau, opera fresca e stilisticamente innovativa, dalla comicità visiva e surreale, incentrata su una stravagante bambina di provincia che si perde per le strade di Parigi, M. si dimostrò all'altezza degli altri giovani maestri della nuova scuola francese.La sua ricca filmografia annovera - accanto alla commedia La vie privée (1962; La vita privata), sorta di biografia immaginaria di Brigitte Bardot, e al drammatico Le feu follet (1963; Fuoco fatuo), dal romanzo omonimo di P. Drieu la Rochelle, in cui M. adotta uno stile volontariamente freddo e glaciale nel ritrarre gli ultimi giorni di vita di un uomo prima del suo suicidio - molte opere di impianto fortemente documentaristico (una passione delle origini che non lo avrebbe mai abbandonato nel corso della sua carriera) come Bons baisers de Bangkok, trasmesso in televisione nel 1964, Vive le Tour (1962), Place de la République (1974), Alamo bay (1985), God's country (1986), And the pursuit of happiness (1986). E ancora, oltre al delirante, onirico episodio di Histoires extraordinaires (1968; Tre passi nel delirio), dal titolo William Wilson, tratto da un racconto di E.A. Poe, realizzò alcuni esempi di cinema 'diretto' come Humain trop humain (1974), Close up (1976), un documentario sull'attrice Dominique Sanda, e opere di natura sociologica come Calcutta, île fantôme (1969; Calcutta). Dal divertissement registico rappresentato da Viva Maria (1965), parodia del genere western, con Brigitte Bardot e Jeanne Moreau, M., grande direttore di attori, passò con sorprendente facilità al calligrafico Le voleur (1967; Il ladro di Parigi), al trasgressivo e sentimentale Le souffle au cœur (1971; Soffio al cuore), in cui affrontò il tema dell'incesto, a Lacombe Lucien (1974; Cognome e nome: Lacombe Lucien), sospeso tra dramma intimista e film di guerra, in cui ricostruì il clima della Francia di H. Ph. O. Pétain nel periodo dell'occupazione tedesca, fino al favolistico Black Moon (1975; Luna nera).

Nel 1977 si trasferì negli Stati Uniti dove, venuto a contatto con una società aperta, multietnica e policulturale come quella americana, ampliò ancor più la sua gamma espressiva. Realizzò così la commedia-scandalo Pretty baby (1978), esordio della giovanissima Brooke Shields; il noir 'rivisitato' Atlantic City, in cui vengono riattualizzati i ritmi del gangster film in una dimensione più malinconica, offrendo un ritratto del luogo (la città termale di Atlantic City) disegnato con la precisione del documentarista ma anche affidato alla soggettività di un cineasta che valorizza la città in quanto cuore pulsante della storia e al contempo dirige con intelligente sensibilità un bravissimo Burt Lancaster; un ulteriore esperimento di Cinéma vérité, My dinner with André (1981; La mia cena con André), film sul rapporto tra realtà e rappresentazione considerato un vero cult movie. Dopo Crackers (1984; I soliti ignoti made in USA), un poco riuscito remake di I soliti ignoti di Mario Monicelli, tornò in Francia per realizzare i film più belli della sua maturità: lo straziante Au revoir les enfants, storia di tre ragazzini ebrei clandestinamente ospitati in un collegio cattolico, che recupera le cupe atmosfere già colte in Lacombe Lucien; Milou en mai (1990; Milou a maggio), una commedia caustica e leggera, interpretata da Michel Piccoli, sui giorni che sconvolsero la Francia nel joli mai del 1968, ispirata alle atmosfere del cinema di Jean Renoir e di Luis Buñuel; Fatale (1992; Il danno), intensa e profonda analisi della società borghese; e infine Vanya on 42nd Street (1994; Vanya sulla 42a strada), tragicommedia piena di grazia sulla messa in scena di Zio Vania di A.P. Čechov ambientata nel New Amsterdam Theatre di New York e basata sulla sceneggiatura di David Mamet.

Fra verità e finzione, dramma e commedia, documento e sogno, il cinema di M., anche nel periodo americano, sembra indicare una via disordinata, frammentata, continuamente interrotta. È un cinema che si rigenera incessantemente, come una fenice, sempre nuovo e sempre classico, che ritorna al punto di partenza proprio quando sembrava aver imboccato un percorso definito. Dunque un cinema dell'incertezza, dell'angoscia, del vuoto, dell'assenza, un interrogativo profondo sull'uomo e sulla tragica impossibilità di avere risposte. Rievocando le pagine di scrittori come Queneau, Drieu la Rochelle, Čechov, Poe, utilizzando la musica di J. Brahms, E. Satie, Davis, egli si è posto il compito di provocare nello spettatore intense emozioni e shock, paura e malinconia, sensualità e angoscia, tristezza e tenerezza. Nel 1993 è stata pubblicata l'intervista Malle on Malle (trad. it. 1994), a cura di Ph. French.”

(Vittorio Giacci - Enciclopedia del Cinema, 2003, in www.treccani.it)

 

Una poesia al giorno

Ainsi le jeune amant, di André Chénier

Ainsi le jeune amant, seul, loin de ses délices,
S’assied sous un mélèze au bord des précipices,
Et là, revoit la lettre où, dans un doux ennui,
Sa belle amante pleure et ne vit que pour lui.
Il savoure à loisir ces lignes qu’il dévore ;
Il les lit, les relit et les relit encore,
Baise la feuille aimée et la porte à son cœur.
Tout à coup de ses doigts l’aquilon ravisseur
Vient, l’emporte et s’enfuit. Dieux ! il se lève, il crie,
Il voit, par le vallon, par l’air, par la prairie,
Fuir avec ce papier, cher soutien de ses jours,
Son âme et tout lui-même et toutes ses amours.
Il tremble de douleur, de crainte, de colère.
Dans ses yeux égarés roule une larme amère.
Il se jette en aveugle, à le suivre empressé,
Court, saute, vole, et l’œil sur lui toujours fixé,
Franchit torrents, buissons, rochers, pendantes cimes,
Et l’atteint, hors d’haleine, à travers les abîmes.

 

Così il giovane amante (traduzione di Ugo Brusaporco)

Così il giovane innamorato, solo, lontano dalle sue delizie,
Siede sotto un larice sull'orlo dei precipizi,
E lì, rivedi la lettera dove, in una dolce noia,
La sua bellissima amante piange e vive solo per lui.
Gode a suo piacimento queste righe che divora;
Li legge, li rilegge e li rilegge di nuovo,
Bacia l'amato foglio e lo porta al suo cuore.
All'improvviso dalle sue dita il vento del nord rapitore
Viene, vince e fugge. Dei! si alza, grida,
Vede dal vallone, dall'aria, dal prato,
Fuggire con questa carta, caro sostegno dei suoi giorni,
La sua anima e tutto se stesso e tutti i suoi amori.
Trema di dolore, di paura, di rabbia.
Nei suoi occhi smarriti scorre una lacrima amara.
Si getta alla cieca, lo segue frettolosamente,
Corre, salta, vola, e l'occhio su di lui sempre fisso,
Torrenti, cespugli, rocce, cime pendenti,
E lo raggiunge, senza fiato, attraverso gli abissi.

 

André CHÉNIER, poeta francese, nato il 20 ottobre 1762 a Galata (Costantinopoli), morto il 25 luglio 1794 a Parigi. Il padre, Louis, commerciante a Costantinopoli, ove tenne anche l'ufficio di console, aveva sposato la levantina Elisabetta Santi-Lomaca, colta e amica delle arti, dalla quale lo Chénier trasse primamente la passione del greco e della poesia. Stabilitosi con la famiglia a Parigi (1765), nel 1782 si avviò alla carriera militare, che abbandonò dopo sei mesi per un breve viaggio in Italia e in Svizzera (1783-1784). Nei tre anni che seguirono poté liberamente abbandonarsi alle sue inclinazioni, nella fervida città, alla brillante vigilia della Rivoluzione: Brunck, l'editore degli Analecta veterum Graecorum, l'ellenista Guys, il pittore David, l'abate Barthélemy, frequentatori della sua casa, alimentavano la sua passione per l'antico, il lirico Lebrun (Lebrun-Pindaro) gli mostrava la via degli ardimenti poetici; Alfieri, conosciuto nell'87, gli apparve come un generoso armato della penna contro la miseria della patria; gli amici, che conoscevano i suoi saggi poetici, lo incitavano. A tratti poi, lasciati i libri, viveva brevi, calde passioni, non senza scendere nell'orgia elegante; cantava l'amore per Camilla (M.me de Bonneuil), ma anche celebrava altre donne. Lo scolaro dei Greci, che aveva cominciato con le Bucoliques, scriveva le Élegies, spesso mondane e parigine.

Alla fine dell'87, per desiderio della famiglia, andò segretario all'ambasciata di Londra, e, con frequenti gite a Parigi, vi rimase fino al '90, solitario e triste, pure osservando gl'Inglesi e la loro poesia, e ammirando il diffuso sentimento della libertà. Presto lo occuparono i grandi fatti della patria, l'avvento della libertà, cui era preparato. Nel Journal de la Societe de 1789 (28 agosto 1790) lanciò l'Avis au peuple français sur ses veritables ennemis, denunziando i pericoli che minacciavano la Francia e la Rivoluzione; la sua passione e la sua speranza di uomo dell'89 disse nell'ode Lejeu de paume, oratoria e pindarica, la prima poesia che consentì a pubblicare. Ormai nella lotta, antigiacobino, costituzionale, non esitò a stampare anche l'Hymne sur l'entrée triomphale des Suisses revolteś de Châteauvieux (15 aprile '92), ironico e veemente, e salutò la morte di Marat nell'ode Å Charlotte Corday. Lontano da Parigi durante i massacri del Settembre, con Malesherbes si offerse poi a difendere il re, stese progetti di difesa, scrisse un Manifeste àtous les citoyens français. Dopo il supplizio di Luigi XVI, lo Ch., molto sofferente, forse anche per fuggire il pericolo che lo minacciava in Parigi, si ritirò a Versailles, ove rimase quasi tutto il '93.

Nella pace ritrovata, compose gli ultimi e più delicati versi d'amore per Fanny (M.me Lecoulteux), e riprese il poema dell'Hermès. Alla fine del '93 era di nuovo a Parigi, mentre imperversava il terrore. Il 7 marzo '94 i commissarî incaricati di arrestare la signora Pastoret, nella sua casa a Passy, vi trovarono, col marito e il padre di lei, lo Ch., e lo arrestarono come sospetto di aver favorito la fuga della donna. Nella prigione di Saint-Lazare, mentre i capi di accusa si andavano accumulando contro di lui, egli vibrava i suoi Ïambes contro gli uomini che insanguinavano la Francia. Un passo imprudente del disperato padre dello Ch. forse affrettò il processo: il poeta fu condannato la mattina del 7 termidoro, come partigiano del tiranno, e giustiziato il pomeriggio, due giorni prima della caduta di Robespierre.

La critica recente pone lo Ch. tra i poeti di Luigi XVI, eleganti, epicurei, presi da vivo amore per l'antico; ma anche aperti alle idee moderne, che pensano di cantare in vasti poemi. Pur curioso di ogni poesia più lontana, egli resta sempre francese: commenta Malherbe, è pieno di Racine e rimane perplesso davanti agl'Inglesi, anche se qualche spunto deve a Shakespeare, a Thomson, a Young. Predilige gli elegiaci, Parny, Bertin, e gli anticheggianti come Lebrun-Pindaro. Omaggio ai maestri antichi sono le prime composizioni, continuate anche più tardi, che avrebbe chiamate Bucoliques: brevi poemi che introducono Omero narrante ai giovani pastori (L'aveugle), o rifanno l'arrivo di Odisseo presso i Feaci (Le mendiant); idillî da Callimaco, da Teocrito, da Bione, dall'Antologia, da Virgilio, da Gessner, spesso intessuti di spunti diversi (Le malade, La jeune Tarentine, Oaristys, ecc.). Sono le cose più celebrate dell'autore, e tra la più delicata poesia del neoclassicismo. Le Élégies, con frequenti note derivate dai Greci, appaiono spesso un adattamento di Properzio, Tibullo, Ovidio alla più elegante vita moderna: l'artista, più che l'innamorato, si rivela con l'epicureismo malinconico, l'amore dei campi e dei libri, il culto dell'amicizia, che ha poi teneri accenti nelle Épîtres.

Nel poema L'invention, condannata la vana imitazione, raccomanda i soggetti attuali, la scienza e le sue meraviglie; solo, poiché gli antichi avevano costumi e modi più convenienti all'arte, bisogna prendere i loro colori: "Sur des pensers nouveaux faisons des vers antiques". È la sua ultima poetica, forse apparsagli già nell'83, cominciando l'Hermès, cui ancora attendeva nel '93: la più cara speranza dell'autore, il poema lucreziano (il titolo è da Eratostene) che in tre libri doveva cantare l'origine della terra, la formazione degli animali e dell'uomo, la storia della civiltà, secondo la dottrina di Buffon, la visione cosmica ed etica dell'Enciclopedia. Impossibile, dai brani sparsi, immaginare la riuscita di questo e di altri poemi, lavorati per frammenti, su un canovaccio prestabilito. Altri frammenti mostrano l'intenzione di tentare la commedia forse di gusto aristofanesco, la tragedia, la satira. Da questa dispersione lo tolse più d'una volta, da ultimo, la passione di patria, che gl'ispirava i versi A la France e i giambi. Ma le odi per Fanny, il compianto per la Jeune captive, meglio di quel che non facciano poemi abbozzati, attestano la ricca maturità del poeta.
Lo stesso carattere frammentario è anche nelle prose; tolte quelle nate dall'urgente attualità, sono vasti disegni di opere rimaste incompiute: l'Essai sur les causes et les effets de la perfection et de la décadence des lettres et des arts, ov'è qualche coincidenza con l'alfieriano Del principe e delle lettere; Apologie, Histoire du pouvoir royal, che ripetono la sua tolleranza, il suo liberalismo, insieme con la tendenza didattica. Più d'una pagina mostra un prosatore di stile, un moralista prettamente francese, dall'osservazione acuta ed arguta.

Accanto agli ammiratori devoti non sono mancati allo Chénier, specialmente in patria, critici riservati o severi: anche questi tuttavia riconoscono che egli con un'affermazione viva e appassionata di poesia ha chiuso in Francia il secolo antipoetico. E così, figlio del suo tempo, accennava all'avvenire, che in lui non a torto ha sentito un precursore.”

(Leonardo Vitetti - Enciclopedia Italiana, 1931, in www.treccani.it)

 

  • L’opera a lui dedicata: Umberto Giordano, Andrea Chénier - Tokyo, 1961 

Andrea Chénier: Mario del Monaco;
Maddalena di Coigny: Renata Tebaldi;
Carlo Gérard: Aldo Protti;
Bersi: Anna di Stasio;
Contessa di Coigny / Madelon: Amalia Pini;
Maggiordomo / Roucher / Dumas: Silvano Pagliuca;
Incrível: Antonio Pirino;
Fléville / Mathieu: Arturo la Porta;
Fouquier-Tinville / Schmidt: Giorgio Onesti.
Orquestra: NHK Symphony Orchestra; Coro: NHK Italian Opera Chorus / Fujiwara Opera Chorus / Tokyo Choraliers; Compagnia di Danza: Japanese Ballet Association;
Regia: Franco Capuana;
Luogo e data: Tokyo Bunka Kaikan, 1 ottobre 1961.

 

Un fatto al giorno

30 ottobre 1918: Prima guerra mondiale, l'Impero Ottomano firma l'Armistizio di Mudros con gli Alleati.

“L'armistizio di Mudros (30 ottobre 1918) pose fine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l'Impero ottomano e gli Alleati della prima guerra mondiale. Fu firmato dal ministro della Marina militare turco-ottomana Rauf Bey e dall'ammiraglio britannico Arthur Somerset Gough-Calthorpe, a bordo della corazzata britannica HMS Agamemnon nel porto di Moudros, nell'isola greca di Lemnos.

Alla resa ottomana, le loro restanti guarnigioni al di fuori dell'Anatolia furono richiamate; agli alleati fu concesso il diritto di occupare i forti sullo stretto dei Dardanelli e del Bosforo, e il diritto di occupare "in caso di evenienza" ogni territorio turco in caso di una minaccia alla sicurezza. L'esercito ottomano fu smobilitato, e porti, ferrovie, e altri punti strategici furono resi disponibili per l'uso da parte degli Alleati. Nel Caucaso, la Turchia dovette ritirarsi sulle frontiere pre-belliche.

All'armistizio seguì l'occupazione di Costantinopoli e la successiva spartizione dell'Impero ottomano. Il 10 agosto 1920 seguì il trattato di Sèvres a definire l'armistizio, ma questo trattato non fu mai applicato a causa dello scoppio della guerra d'indipendenza turca.

Questo armistizio dettava le regole da seguire fino a quando non sarebbe stato fatto il trattato di Sevrés, gli 8 punti focali che porteranno i turchi all'esasperazione e all'inizio della guerra d'indipendenza:

  1. Istanbul sarà posta sotto il controllo degli Alleati.
  2. Solo una piccola parte dell'esercito potrà essere utilizzata per la sicurezza nazionale.
  3. Se vi saranno situazioni di caos gli Alleati interverranno.
  4. Sarà controllata la circolazione di informazioni e il trasporto.
  5. Il controllo delle rotaie di Toros sarà fatto dagli Alleati.
  6. Se gli Alleati ritengono che ci sia una situazione dove viene meno la loro sicurezza, possono intervenire occupando il territorio.
  7. Gli eserciti che si trovano ancora fuori dal confine turco si dovranno consegnare agli Alleati.
  8. Le flotte turche saranno controllate.

Dopo questo armistizio si può considerare la fine, anche se non formale, del sultanato perché non era riuscito a garantire la sicurezza della capitale.”

(In wikipedia.org)

 

“Nel 2018 che finisce è stato dimenticato un centenario. È stata ricordata la fine della Grande guerra in Europa, tra i paesi dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Italia) e gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria). Ed è stata evocata marginalmente la resa dell’Impero ottomano, alleato degli sconfitti Imperi centrali, avvenuta il 30 ottobre 1918 su una corazzata britannica, ancorata a Mudros, porto dell’isola greca di Lemnos. Quel che è stato dimenticato è il non sempre larvato, implacabile, interminabile conflitto, esploso subito, in Medio Oriente, nel novembre dello stesso 1918, a ridosso dell’armistizio di Mudros, e che continua a singhiozzo nei nostri giorni. Un secolo dopo nessuno ha pensato di ricordare il centenario dell’inizio delle ostilità provocate da quella pace appena conclusa. Le indispensabili opere di Eugene Rogan, professore a Oxford di storia contemporanea del Medio Oriente, sono tra quelle che sottolineano la grave distrazione.

Il nuovo conflitto, che nasce dalla fine della Grande Guerra, dice Rogan, mette a confronto da un lato le due nazioni vittoriose, la Gran Bretagna e la Francia, dall’altro le forze arabe loro alleate contro gli Ottomani, che invece di essere ricompensate con l’indipendenza, come promesso, vengono trattate da nemiche. Dall’Ottocento la questione d’Oriente era dominata dal timore di una decomposizione dell’Impero ottomano, considerato “l’uomo malato d’Europa”. La sua disintegrazione avrebbe acceso inevitabili conflitti tra le potenze ansiose di estendere i loro possedimenti coloniali ai territori non più controllati da una Costantinopoli decaduta, che da tempo perdeva pezzi del suo impero.
Nel 1914 l’Impero ottomano entra in guerra a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria: e i governi avversari, di Londra e di Parigi, sicuri della vittoria, pensano che la sua disintegrazione sia inevitabile e imminente: e che quindi spetti a loro, alle potenze europee, garantire l’equilibrio della regione, ridotta in frantumi dalla definitiva sconfitta della Sublime Porta.

Già dal 1916, in maggio, gli accordi segreti Sykes-Picot (nomi dei diplomatici che li firmarono: l’inglese Mark Sykes e il francese François Picot), gettano le basi di una spartizione che si concluderà alla conferenza di Sanremo nel 1920. Viene creato il sistema dei “mandati”: istituzioni coloniali contro le quali i movimenti nazionalisti arabi insorgono. Erano in molti a volere una fetta della torta ottomana. Alcuni ne avevano approfittato da tempo: gli inglesi occupavano militarmente l’Egitto dal 1882 e avevano imposto il protettorato nel 1914. Anche l’Italia, frustrata dal non avere una colonia sul Mediterraneo aveva conquistato, tre anni prima, la Libia, e poi occupato il Dodecanneso. Al banchetto voleva partecipare la Russia prerivoluzionaria, che nel 1915 manifestò il suo interesse per il controllo di Costantinopoli, dello stretto dei Dardanelli e della Tracia occidentale. Un appetito territoriale che si spegnerà nel ’17 con la Rivoluzione d’ottobre. Al momento degli accordi segreti Sykes-Picot, la Francia precisò le sue ambizioni, che più tardi realizzò, sulla Siria e sul Libano; l’Inghilterra si riservò la Mesopotamia, la penisola arabica, e la Transgiordania. Londra ottenne un mandato sulla Palestina, al quale dovrà rinunciare trent’anni dopo, alla nascita di Israele.
La prima guerra mondiale, secondo Eugene Rogan, crea in Medio Oriente una situazione all’origine di tanti conflitti. I siriani non hanno mai riconosciuto la separazione del loro paese dal Libano imposto senza il loro accordo. L’Iraq fu ritagliato senza tenere conto delle correnti islamiche e dei gruppi etnici. Questa precipitosa, sommaria, incompleta ricostruzione dell’ultimo secolo mediorientale riporta al 1915, quando l’Alto Commissario britannico in Egitto tratta con il governatore arabo della Mecca, lo sceriffo Hussein, l’entrata in guerra contro l’Impero ottomano delle forze arabe sotto la sua influenza, in cambio della creazione di un “Regno arabo” sui territori liberati. Che invece diventeranno possedimenti coloniali, imposti da amministratori militari e con la legge marziale. Se si vuole decifrare l’agitato presente mediorientale bisogna leggere quel passato. Quando i vincitori della Grande guerra non tennero la parola data.”

(Bernardo Valli in Quell'armistizio del 1918 che causa le guerre di oggi, in espresso.repubblica.it)

 

Una frase al giorno

“Non mi piace parlare di cinema, ne ho abbastanza, di parlare di film. [...] Giusto. Naturalmente hai ragione tu. Se il nostro amato cinema (e naturalmente quando dico "amato" sono serissimo, perché in effetti noi lo amiamo appassionatamente), be', se il nostro amato cinema smette di essere la grande ossessione contemporanea, allora la creta per le nostre amate statue resterà in mano ai distributori. Cioè, sarà gettata ai cani - e noi dove andiamo a finire?”

(Orson Welles, 6 maggio 1915 - 10 ottobre 1985, regista e attore cinematografico e teatrale statunitense, in “Io, Orson Welles”)
 

Orson Welles nacque a Kenosha (Wisconsin) il 6 maggio 1915 e morì a Los Angeles il 10 ottobre 1985. Geniale inventore di immagini, autore che ha riversato nella sua opera un'inesauribile capacità di sperimentare il linguaggio filmico, di elaborare strutture drammaturgiche e di dar vita, con le sue capacità istrioniche e interpretative, a grandi personaggi cinematografici, W. è considerato uno dei massimi artisti del 20° secolo.

Quando la RKO gli propose un contratto mirabolante per il suo primo film, Citizen Kane (1941; Quarto potere), era già una celebrità. Ma dopo l'insuccesso di The magnificent Ambersons (1942; L'orgoglio degli Amberson) riuscì a girare appena una decina di capolavori quali The lady from Shanghai (1948; La signora di Shangai), Macbeth (1948), Othello (1952; Otello) - che ottenne la Palma d'oro al Festival di Cannes -, Mr. Arkadin (1955; Rapporto confidenziale), Touch of evil, noto anche come Chimes at midnight (1958; L'infernale Quinlan), Le procès (1962; Il processo) e Campanadas a medianoche (1966; Falstaff).

La madre, pianista e attiva femminista, morì nel 1924; il padre, inventore e industriale, nel 1928. La sua infanzia si svolse in un clima di effervescente creatività artistica. Nel 1926 W. entrò alla Todd School, dove perfezionò le sue doti drammaturgiche. Nel 1931 si recò in Irlanda, dove riuscì a farsi assumere dal Dublin Gate Theatre spacciandosi per un noto attore americano. Tornato negli Stati Uniti, a New York, seguì la troupe di Katharine Cornell e iniziò a lavorare alla radio, collaborando al celeberrimo The march of time, che presentava l'attualità sostituendo con attori i personaggi reali: W. prestò la sua voce polimorfa a decine di personalità.

Dal 1936 al 1937 realizzò messinscene teatrali per il Federal Theatre, sovvenzionato dal Work Progress Administration (WPA). Tra le più innovative vanno ricordate quelle di Macbeth (1936), con attori di colore e spostamento della trama a Haiti, e The cradle will rock (1937), la cui prima, vietata dal WPA, fu improvvisata senza scenografie né costumi in un teatro vicino. Assieme a John Houseman fondò il Mercury Theatre.

La fama di W. e il successo teatrale di Caesar (1937), adattamento da W. Shakespeare in costumi moderni e con riferimento al fascismo, spinse la CBS ad affidargli una trasmissione settimanale di un'ora, nella fascia serale di massimo ascolto. Ogni puntata in diretta era l'adattamento di un classico della letteratura. The Mercury Theatre on the air iniziò a diffondere l'11 luglio 1938. In tutto W. produsse, realizzò, interpretò e talvolta scrisse 80 puntate. Il repertorio spaziava da Treasure island di R.L. Stevenson a Heart of darkness di J. Conrood. Ogni storia era raccontata in prima persona, il gioco tra dialogo e narrazione e le invenzioni sonore furono portate a livelli tutt'ora insuperati di ingegno creativo. W. passava inuna stessa giornata da uno studio radiofonico all'altro, proseguendo le rappresentazioni teatrali, presenziando a convegni politico-culturali e moltiplicando gli interventi sui giornali. In tre anni, realizzò quel che a malapena un uomo di talento potrebbe compiere in una vita intera.

Il 30 ottobre 1938 negli studi della CBS il Mercury Theatre stava preparando l'adattamento di Howard Koch di The war of the worlds di H.G. Wells, quando ci si accorse che si trattava di un brogliaccio improponibile; ma era ormai troppo tardi, bisognava andare in onda. Allora in W. nacque l'idea di ispirarsi al resoconto della catastrofe dell'Hindenburg, improvvisando una nuova sceneggiatura che raccontasse l'invasione dei marziani come un concitato radiogiornale. A quell'ora quasi tutti stavano ascoltando il ventriloquo Edgar Bergen e la sua marionetta nella trasmissione più seguita d'America, The chase and Sanborn Hour, per cui, quando alle 20,12 gli ascoltatori si sintonizzarono sulla CBS, i marziani avevano già occupato il New Jersey, distruggendo l'esercito e l'aviazione, e si stavano preparando a marciare su New York. La trasmissione gettò nel panico 1.750.000 persone. Fu al contempo il più grande scherzo del secolo e il fenomeno che rivelò al mondo il potere delle comunicazioni di massa, di cui The war of the worlds divenne l'emblema e la critica definitivi.

Già allora W. era un 'prestigiatore' professionista, ma quella del 30 ottobre 1938 rimase la sua migliore falsificazione. Quel giorno l'America scoprì di aver dato i natali a un genio. E W. aveva appena ventitré anni. W. non raggiunse mai più un simile livello di popolarità, ma all'epoca non poteva immaginare che con l'arrivo a Hollywood la sua carriera avrebbe iniziato a declinare. Nei quarant'anni seguenti, il credito acquisito in meno di un decennio si logorò poco a poco. Una traversata del deserto durante la quale W. consumerà tutta la sua passione per il cinema, imponendosi come uno dei più grandi cineasti di tutti i tempi.

Durante l'estate del 1939 la RKO stilò un contratto unico nella storia di Hollywood, che permise a W. di realizzare il suo primo film in condizioni di libertà totale. Quando Citizen Kane fu proiettato in anteprima, la critica era pronta a stroncare la presunzione giovanile del regista, ma il film fu giudicato un capolavoro da quasi tutti. Ciononostante, Citizen Kane fu un fiasco colossale. W. si era parzialmente ispirato a un magnate della stampa, William Randolph Hearst, tanto potente quanto permaloso. Durante le riprese, Hearst affidò a Louella Parsons, maestra del pettegolezzo giornalistico, il compito di orchestrare una campagna negativa violentissima. Tanta ostile perseveranza ottenne l'effetto desiderato: la RKO fu intimorita dalle pressioni, e le minacce e i ricatti fecero cedere i distributori indipendenti. Malgrado i plausi, Hearst riuscì a distruggere il destino commerciale di Citizen Kane. Dire che Citizen Kane è il film che maggiormente influenzò i registi a venire è insufficiente. Sarebbe più esatto affermare che è inammissibile che un cineasta possa debuttare senza averlo visto. In meno di due ore, W. sconvolge la struttura narrativa, le tecniche di ripresa e di montaggio tradizionali. La trama inizia con la morte del protagonista, interpretato dallo stesso W., e procede a ritroso in modo frammentario, alla ricerca del significato dell'ultima parola pronunciata da Kane, "Rosebud": un pretesto per raccontare settant'anni di storia americana attraverso un personaggio emblematico e contraddittorio, in un incrociarsi di opinioni, aneddoti, falsi cinegiornali e pettegolezzi che percorrono tutti i lati possibili della vita di Kane.

Si è parlato molto dei numerosi prodigi tecnici del film: dell'uso di obiettivi, ideati dal fotografo Gregg Toland per l'occasione, che deformano la prospettiva esaltando una profondità di campo dove ogni dettaglio è ugualmente a fuoco in lunghi piani-sequenza; dei soffitti costruiti nei teatri di posa e valorizzati da audaci angolature dal basso, miranti a restituire la megalomania di Kane e insieme a 'schiacciarla'; di una colonna sonora ricchissima, memore dell'esperienza radiofonica. Gli storici hanno provato che ognuno di questi aspetti, preso singolarmente, aveva conosciuto precedenti. La vera violazione delle regole cinematografiche allora vigenti sembra nascondersi nella palese intrusione della macchina da presa come vera protagonista, entità divina mossa da un'ambizione smisurata: raccontare la vita di un uomo. Nelle ultime immagini, W. disvelerà, per il solo spettatore, la 'verità', prima che le fiamme di un gigantesco forno divorino l'oggetto che ne è testimone segreto. Ma in fondo, persino quest'informazione riservata non è che uno dei tanti tasselli sconnessi all'interno del complicato puzzle: che Rosebud fosse lo slittino d'infanzia del magnate non è determinante. Chi fosse realmente Kane non lo sapremo mai. Forse nulla, come suggerisce il fumo nero sprigionato dal forno nell'ultima immagine. A contrastare l'audacia formale di Citizen Kane, W. scelse come secondo film del contratto un romanzo di B. Tarkington, The magnificent Ambersons, classica saga che narra la decadenza di una famiglia di possidenti e l'avvento della civiltà di massa. L'occhio spietato della macchina da presa osserva un mondo decrepito, violento e dilaniato da passioni edipiche, con crudeltà inusitata e raffinata comprensione umana. W. ne curò le riprese di giorno, mentre durante la notte produceva e interpretava Journey into fear (1943; Terrore sul Mar Nero): il sospetto che spesso il regista Norman Foster lo abbia lasciato libero di dirigere questo curioso film di spionaggio è più che lecito.

Nel frattempo gli Stati Uniti erano entrati in guerra. Per rafforzare le relazioni interamericane, W. accettò di girare un documentario in tre parti sul Brasile, It's all true. Il 1° febbraio 1942 terminò le riprese di Journey into fear. Il 2 e il 3 era a Miami per dare precise indicazioni a Robert Wise, montatore di The magnificent Ambersons. Finito il montaggio, Wise avrebbe raggiunto W. in Brasile per concludere il lavoro. Il 4 W. andò a Rio de Janeiro. Commise così il più grave errore della sua carriera, rimanendo intrappolato per cinque mesi in Brasile. Wise non riuscì mai a partire, finì da solo il primo montaggio di 132 minuti, che venne presentato al pubblico per una proiezione-test. Citizen Kane era irruento e 'barocco'; The magnificent Ambersons potrebbe essere considerato il suo opposto, una tragedia in apparenza semplice e lineare. L'ultimo atto doveva essere cupissimo: raccontava la fine di ciascun personaggio, votato alla solitudine e alla morte. Insostenibile: così venne giudicato il film dalla maggior parte degli spettatori. La RKO decise allora di rimontare il film, massacrandolo. Nuove sequenze vennero girate da altri e l'ultima parte sostituita con un assurdo lieto fine: il film fu ridotto a 88 minuti. The magnificent Ambersons resta un capolavoro, ma cosparso di ferite aperte. Inutile dire che non ebbe successo. Journey into fear fu un fiasco. It's all true non uscì mai. Parte del materiale fu ritrovato nel 1985 e proiettato nel 1993.

Durante la guerra W. partecipò allo sforzo bellico con trasmissioni radiofoniche di propaganda. Nel 1943 interpretò Jane Eyre (La porta proibita) di Robert Stevenson. La carriera d'attore gli sarebbe sempre servita per finanziare i suoi progetti: apparve come protagonista o guest star in decine di film, spesso scrivendo le proprie battute. Si sospetta che in alcuni casi sia passato dietro la macchina da presa per realizzare le scene in cui appare. Dei film interpretati da W., il più importante è The third man (1949; Il terzo uomo) diretto da Carol Reed: la caratterizzazione del trafficante Harry Lime resta il suo più grande successo popolare.

Nel corso degli anni, per finanziare i suoi film W. fece di tutto, dalle pubblicità agli spettacoli di magia, dalla voce narrante in cartoni animati ad apparizioni televisive nel Muppets show, da audiocassette di testi letterari per il Giappone a incisioni della propria voce su dischi di musica heavy-metal. Durante il 1944 W. partecipò alla campagna presidenziale scrivendo discorsi per F.D. Roosevelt. Nel 1946 investì buona parte dei suoi guadagni per realizzare una rappresentazione di Around the world in 80 days. Malgrado il successo di pubblico, i fondi per la tournée vennero a mancare e W. perdette personalmente 320.000 dollari. Così iniziarono i suoi problemi fiscali. Nello stesso anno cercò di convincere Hollywood a lasciargli girare una storia lineare rispettando i preventivi: a eccezione di un paio di sequenze, The stranger (Lo straniero) è il suo film meno interessante. Nel 1943 W. aveva sposato Rita Hayworth che tre anni dopo avrebbe ammaliato gli spettatori in Gilda: a cristalizzare l'oggetto dei desideri era stata la lunga chioma rossa dell'attrice. Ormai separato dall'attrice, W. volle realizzare con lei The lady from Shanghai, imponendole di tagliarsi i capelli cortissimi e di ossigenarli. Le offrì il ruolo di una perfida assassina che abbindola un inverosimile marinaio irlandese e la lasciò morire da sola in una galleria di specchi infranti. Il pubblico non apprezzò, ma il finale entrò nell'antologia ideale dei cinefili.

Nel 1948 riuscì a ottenere una cifra irrisoria dalla Republic Pictures Corporation per realizzare Macbeth in ventitré giorni. Il film sconcertò: rivestiti di grezze pellicce, i personaggi si muovono tra dense nebbie i cui vapori nascondono una cavernosa scenografia di cartapesta. Il testo shakespeariano si trasforma in dramma primordiale dove Macbeth e la sua corte sembrano esseri preistorici, armati di lance nodose come clave e soverchiati da forze ctonie.

Alla fine del 1948 W. lasciò l'America. Nello stesso anno iniziò a girare Othello, in condizioni talmente avventurose da spingerlo a dedicarvi un documentario, Filming Othello (1979). Le riprese in Marocco e in Italia durarono un anno e mezzo. L'attrice che interpretava Desdemona fu sostituita, si dovette ricominciare daccapo, il lavoro venne interrotto per mancanza di fondi, alcuni attori non furono più disponibili, si dovette ricorrere a controfigure per quasi tutti i controcampi. I costumi per l'assassinio di Rodrigo vennero a mancare e la scena fu improvvisata in un bagno turco. Con due anni di lavoro in sala di montaggio, W. riuscì a sfruttare l'eterogeneità del materiale, conferendo al film un ritmo rapidissimo, con bruschi tagli di montaggio e inquadrature espressive, spesso oblique e dal basso. Otello esce da un palazzo veneziano e si trova in una piazza di Mogador, parlando con Iago i cui primi piani sono girati a Viterbo.

Più che un adattamento, l'Otello di W. è un incubo ispirato a Shakespeare, e del sogno possiede l'ubiquità e il segreto rigore degli eventi, la cui successione obbedisce meno alla logica che a un movimento inesorabile di volti, pietre, luci. In Mr. Arkadin l'ubiquità diventerà metafora del Potere. Come Citizen Kane il film inizia dalla fine: un aereo senza pilota né passeggeri vola alla deriva. È il jet privato di Arkadin, un ricco armatore che è ovunque e in nessun luogo, tutti e nessuno. Simulando un'amnesia, il vecchio e potente Arkadin manipola un losco individuo, Van Stratten, affinché investighi sul proprio passato. Le indagini portano Van Stratten in giro per il mondo per rintracciare i testimoni di un'oscura biografia, i quali poi finiscono uccisi uno dopo l'altro. È a partire da Mr. Arkadin che W. usò sistematicamente il 18,5 mm, un obiettivo che accresce la profondità di campo deformando smisuratamente la prospettiva.

Nel 1955 iniziò a lavorare su una riduzione per lo schermo del Don Chisciotte di M. de Cervantes, progetto che porterà avanti per vent'anni. Il film rimarrà incompiuto e frammenti del materiale girato comporranno più di un film di montaggio. È il suo più celebre progetto irrealizzato, la cui lunga lista comprende il thriller The deep, l'adattamento del racconto di K. Blixen The dreamers e The other side of the wind, satira del mondo hollywoodiano che continuerà a girare e montare fino alla morte.

Alla fine del 1955 tornò negli Stati Uniti per allestire King Lear che, a causa di un incidente, interpretò su un trono a rotelle. Riallacciò i rapporti con Hollywood, recitando in film minori dove dondolava, straordinario gigione, la sua crescente corpulenza. Il 26 dicembre 1956 la Universal contattò l'attore Charlton Heston per chiedergli di recitare con W. in un film poliziesco. Heston rispose che pur di lavorare sotto la direzione del regista avrebbe accettato qualsiasi cosa. I produttori pensavano a W. solo come attore, ma era troppo tardi per chiarire il malinteso. W. riscrisse in cinque giorni la sceneggiatura e in poco più di un mese terminò le riprese del film. Dopo due mesi di montaggio, Touch of evil era pronto. I produttori non erano preparati alla violenza visiva del film: nominarono un nuovo montatore, fecero girare da altri scene aggiuntive, imposero i titoli di testa sulla scena iniziale, rovinando uno straordinario piano-sequenza.

Il film uscì nel 1958, tagliato di una ventina di minuti. Fortunatamente il regista aveva scritto un disperato 'memo' dove il suo montaggio era scrupolosamente dettagliato e nel 1998 fu quindi possibile ricostruirlo in una nuova edizione. In Touch of evil, W. offrì forse la sua prova d'attore più riuscita: trasudante grasso, Quinlan è un ispettore psicopatico, razzista e omicida, che regna indisturbato su una cittadina di frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Un essere diabolico, pronto a fabbricare prove per incastrare i colpevoli. Convinto che lo stato di diritto debba sempre prevalere sull'arbitrio, il regista non ha tentennamenti nel tratteggiare la figura di un mostro; ma come attore, il suo talento evita la facile condanna di Quinlan, che un tempo era stato un poliziotto esemplare. Una contraddizione che fa di Touch of evil un'insuperabile riflessione sul Bene e il Male, con un ritmo incalzante ottenuto grazie a un alternarsi di piani-sequenza e brevissime immagini. Accompagnato dal rock latino di Henry Mancini, Quinlan attraversa il film come un bolide impazzito, tra bodegas che spacciano droga, commissariati da dittatura sudamericana, squallide stanze d'albergo, vicoli oscuri e strade immerse nel sole del deserto. Finirà abbattuto in una lurida pozzanghera, mentre lontana risuona la pianola meccanica della chiromante zingara, un'irriconoscibile Marlene Dietrich con la sigaretta perennemente tra le labbra. Touch of evil non è un film poliziesco; è un'allucinazione morale.

Le procès, girato a Zagabria, Monaco, Roma e nella Gare d'Orsay di Parigi, esalta la poetica frammentaria di Othello. Il romanzo di F. Kafka è cadenzato nell'andamento di un incubo burocratico-legale dove gli spazi chiusi si compenetrano come scatole cinesi: Josef K. esce dalla sala del tribunale varcando una porta la cui maniglia è a tre metri dal suolo, attraversa corridoi di archivi, finisce in una gabbia di legno, entra in una cattedrale barocca e quando esce si ritrova nel quartiere romano dell'EUR. Un universo solo in apparenza eterogeneo, dove la varietà degli interni configura uno spazio-tempo la cui coerenza opprimente fa pensare ai campi di concentramento nazisti.

Girato tra il 1964 e il 1965, Campanadas a mediano che è il miglior film della trilogia dedicata a Shakespeare, dalla cui opera il regista estrapola reinventandolo il personaggio di Falstaff, interpretato dallo stesso Welles. Come The magnificent Ambersons, anche Campanadas a mediano che racconta la fine di un mondo: la merry England, rappresentata da Falstaff e la sua allegra brigata di 'favoriti della luna', ossia di ladri. Ma a differenza della cadaverica pseudoaristocrazia statunitense, il mondo di Falstaff è chiaramente quello in cui W. avrebbe amato vivere. Falstaff è un gradasso ubriacone, grasso e vigliacco, ma è l'ultimo esempio sia pur degenerato degli ideali cavallereschi, un dolceamaro Don Chisciotte che crede solo alla fedeltà nell'amicizia. Per la prima e l'ultima volta, il regista interpreta un personaggio positivo a tutto tondo, 'buono come il pane', stando alle parole dello stesso W., e suo segreto autoritratto. E quando, nel tumulto di una battaglia che ricorda i dipinti di Paolo Uccello, Falstaff cerca solo un cantuccio dove scolarsi la sua bottiglia, nasce il sospetto che nei tempi moderni la viltà possa essere, a volte, l'ultima patetica maschera del coraggio e della generosità.

Negli anni seguenti W. tentò di realizzare un film basandosi su due racconti di K. Blixen. Riuscirà a girarne solo uno: Une histoire immortelle (1968; Storia immortale), dove W. è un ricco mercante di Macao che prima di morire tenta di dar vita a una leggenda di marinai. Un delirio di onnipotenza assai simile a quello del regista, che esplora il rapporto tra realtà e falsificazione, tema presente in tutti i suoi film precedenti e al centro di F for fake, noto anche come Vérités et mensonges (1973; F per falso - Verità e menzogne), strano esperimento di montaggio che mescola verità e menzogna. F for fake alterna immagini girate da François Reichenbach sul falsario Elmyr De Hory, considerazioni su Howard Hughes, numeri di magia, riflessioni di W. sulla propria carriera e un appassionato monologo davanti alla cattedrale di Chartres, esempio supremo di arte senza autore.”

(In www.treccani.it)


Orson Welles è il narratore nel film “King Tutankhamun: Tut - The Boy King”, 1977, girato alla National Gallery of Art di Washington DC, con la regia di Sid Smith, che descrive I 55 tesori dalla tomba di Tutankhamon, compresi i giochi usati da Tut, il faraone all’età di dieci anni, come la sua minuscola sedia intarsiata in ebano e oro, statue e gioielli. I 55 oggetti dalla tomba di Tutankhamon includevano la maschera funeraria in oro massiccio del re-ragazzo, una figura in legno dorato della dea Selket, lampade, vasi, gioielli, mobili e altri oggetti per l'aldilà. Per questa mostra evento fu coniato il termine "blockbuster". Grazie a una combinazione del fascino secolare per l'antico Egitto, il fascino leggendario dell'oro e delle pietre preziose e gli ornamenti funebri del re ragazzo, ci fu un'immensa risposta popolare. I visitatori hanno aspettato fino a 8 ore prima dell'apertura dell'edificio per vedere la mostra.

 

30 ottobre 1938: Orson Welles trasmette per radio un realistico adattamento de La guerra dei mondi, causando il panico in tutti gli Stati Uniti.

 

Un brano musicale al giorno

Jolanta Omilian [soprano],
Dino Di Domenico [tenore],
Marco Camastra [baritono],
Coro, Columbus Orchestra di Genova;
Arturo Sacchetti, direttore.



Pietro RAIMONDI nacque a Roma il 20 dicembre 1786 da Vincenzo e da Caterina Malacari.

Studiò contrappunto e composizione con Giacomo Tritto nel conservatorio di S. Maria della Pietà de’ Turchini di Napoli. Sebbene avesse debuttato come operista a Genova, la pluridecennale attività di musicista e di insegnante di Raimondi si svolse quasi interamente nel Meridione d’Italia, tra Napoli e la Sicilia. Al San Carlo di Napoli, il massimo teatro italiano dell’epoca, il 15 agosto 1811 presentò la cantata L’oracolo di Delfo, su libretto di Saverio Scrofani, con scarsa fortuna. Dal 1815 al 1820 fu maestro di cappella ad Acireale, dove si cominciò ad affermare la sua fama di abile contrappuntista; di una Messa di Requiem con alcune sezioni per venti parti reali arrivò a far cenno la Allgemeine musikalische Zeitung (14 aprile 1819, n. 15, col. 249). Tornato a Napoli, Raimondi ebbe una seconda occasione al San Carlo: tuttavia nel marzo 1820 Ciro in Babilonia, libretto di Giovanni Battista Bordese, soccombette al confronto con il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini, replicato negli stessi giorni.

Sempre nel marzo del 1820 Raimondi avrebbe collaborato alla composizione della Messa di gloria del Pesarese, secondo testimonianze non pienamente dimostrabili né verificabili, ma comunque sintomatiche della fama di abile contrappuntista che egli si era guadagnato (Rosenberg, 1995). Il 27 ottobre 1823, con regio decreto, Raimondi fu aggregato all’Accademia di belle arti di Napoli, e l’anno dopo ottenne forse il riconoscimento più prestigioso della carriera: fu nominato direttore musicale dei reali teatri di Napoli. Nel 1825 andò a sostituire il defunto Tritto come maestro di contrappunto e composizione nel Real Collegio di musica (Memorie, 1867, pp. 34 s.).

Gli anni napoletani non furono privi di conflitti. Raimondi sarebbe stato il responsabile di alterazioni e tagli alla partitura del Pirata di Vincenzo Bellini rappresentato per la prima volta a Napoli il 30 maggio 1828 (suscitando lo sdegno dell’autore; cfr. le lettere di Bellini a Francesco Florimo del 7 e 21 giugno 1828, in Vincenzo Bellini..., 1943, pp. 101 s., 116-118), e già due anni prima avrebbe mosso pesanti critiche circa la condotta armonica di alcuni passi di Bianca e Fernando. Va anche detto che, se da un lato Bellini era oltremodo suscettibile e sospettoso nei confronti dei colleghi, dall’altro rientrava nei compiti e nei doveri di Raimondi, come direttore musicale del teatro, apportare le modifiche da lui ritenute utili in funzione del nuovo cast, come avveniva di consueto all’epoca (cfr. Rosenberg, 1999, pp. 91, 95).

Dal 1823 al 1838 Raimondi mise in scena in prevalenza opere comiche, spesso con parti in dialetto napoletano, nel Teatro Nuovo e nel Teatro del Fondo di Napoli. Ottenne il suo maggior successo operistico con Il ventaglio (ed. in facsimile dello spartito edito da Cottrau, a cura di Ph. Gossett, New York-London 1989), andato in scena al Nuovo il 19 aprile 1831, libretto di Domenico Gilardoni tratto dall’arcinota commedia di Carlo Goldoni.

Nel 1833 Raimondi arrivò a Palermo, e vi rimase quasi vent’anni. Il decreto reale del 2 giugno lo nominò contemporaneamente professore di contrappunto al collegio di musica e maestro direttore fisso al Real Teatro Carolino, con uno stipendio annuo pagato per tre quarti dal teatro e per il rimanente dal collegio (Memorie, 1867, pp. 34-38). A Palermo fu apprezzato più come insegnante che come direttore del teatro, meno ancora come compositore di opere: nessuna vi fu rappresentata fino a Sveno, 1838, librettista Giuseppe Sapio.

Raimondi lasciò Palermo nel 1852; il 12 dicembre fu nominato maestro della Cappella Giulia in S. Pietro, il posto più illustre cui potesse aspirare un compositore di musica sacra (Kantner, 1979, pp. 139 s.). In realtà, da anni Raimondi mirava a un impiego stabile nella città natale, tale da consentirgli di abbandonare gli impegni, per lui ingrati, nel teatro Carolino (e la circostanza che dal 1838 in poi abbia composto solo quattro opere è un indizio tangibile del declino della carriera di operista). A tal fine si era cimentato in un’impresa inusitata, volta ad accreditarlo come un’autorità indiscussa nel campo della musica sacra: nel 1847-48 aveva dato vita a un ‘triplo’ oratorio per voci, coro e orchestra, Putifar - Giacobbe - Giuseppe, su testo di Sapio, eseguito con grande risonanza nell’agosto del 1852 al teatro Argentina di Roma. Nell’ultima pagina dell’autografo si legge, di pugno dell’autore: «Questi tre Oratorj possono eseguirsi isolatamente, ciascuno da sé. È indifferente eseguire per primo piuttosto uno che l’altro [...]. Per la riunione ed esecuzione contemporanea dei tre oratorj (principal subietto di questo lavoro), i tre corpi di esecutori debbono essere situati ad una conveniente distanza fra loro, perché ciascun corpo possa procedere indipendentemente dagli altri» (Rosenberg, 1993, p. 328). Il successo della première favorì una ripresa nel 1853 al teatro Apollo di Roma e un’altra nel 1857 in Palazzo Vecchio a Firenze, in occasione della visita di Pio IX.

Raimondi in realtà non era nuovo a tali opere contrappuntistiche sperimentali, eseguibili sia separatamente sia simultaneamente, secondo una concezione ‘scientifica’ piuttosto singolare nell’Italia musicale del tempo: dal 1829 al 1846 aveva composto una ventina di fughe, tutte con le medesime caratteristiche combinatorie (Rosenberg, 1993, pp. 322 s.). Significativo il titolo della pubblicazione Ricordi di Fughe quattro in una dissimili nel modo: opera scientifica (1846), al pari di Il nuovo genere di scientifica composizione: andamenti di Basso numerati con una, due o tre armonie («Palermo 1844» si legge nell’autografo, pubblicato poi da almeno tre editori). Su quest’ultima opera, determinante nell’affermazione del ‘basso imitato e fugato’, esercizio ancora vigente nelle scuole di composizione dei conservatòri italiani (Stella, 2007, pp. 166 s.), così si espresse l’autore: «Parmi di avere in essa col mio poco ingegno raccolto quanto per me poteasi in fatto di novità non che di difficoltà non tentate finora da altri, e di avere mostrato [...] che si dura fatica, ma si giunge pur finalmente dall’uom pensatore a penetrare i recessi d’una scienza, e ad allargarne i confini» (Memorie, 1867, p. 48). Raimondi arrivò persino a concepire un’opera comica (I quattro rusteghi) e una seria (Adelasia) eseguibili separatamente oppure congiuntamente: ma il progetto rimase incompiuto.

Nel complesso Raimondi scrisse una dozzina di opere serie, circa il triplo di opere comiche e decine tra oratori e opere ecclesiastiche (Memorie, 1867, pp. 9 s.). Un giudizio su Raimondi, in fondo condivisibile ancor oggi, si deve a Rossini, che dichiarò all’amico Ferdinand Hiller nel 1855: «In cose del genere [scil. il triplo oratorio] era veramente molto abile e si è cimentato nelle combinazioni più avventurose. Al contrario la sua musica per il teatro era brutta e noiosa, e soltanto con uno dei suoi ultimi lavori, Il ventaglio, ha fatto un po’ di fortuna» (Gli scritti, 1992, pp. 128 s.).

Ebbe per allievi Pietro Platania, Federico Ricci e Lauro Rossi. Fu sposato a Domenica Casaccia, ed ebbe un figlio di nome Vincenzo (Florimo, 1882, p. 100).
Morì a Roma il 30 ottobre 1853, «lasciando la sua famiglia sprovista di ogni mezzo di susistenza» (Rossini a Michele Costa, 7 ottobre 1861, in Rosenberg, 1995, p. 91).”

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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