“L’amico del popolo”, 27 ottobre 2020

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno IV. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

MAIGRET VOIT ROUGE (Francia, Italia, 1963), regia di Gilles Grangier. Soggetto: Georges Simenon “Maigret, Lognon e i gangster”. Sceneggiatura: Gilles Grangier, Jacques Robert. Produttore: Jean-Paul Guibert, Robert Gascuel. Fotografia: Louis Page. Montaggio: Marie-Sophie Dubus. Musiche: Michel Legrand e Francis Lemarque. Cast: Jean Gabin: Jules Maigret. Françoise Fabian: Lili. Roland Armontel: il dottor Fezin- Paul Frankeur: Bonfils. Vittorio Sanipoli: Pozzo. Michel Constantin: Cicero. Marcel Bozzuffi: Torrence.

Vicino alla Gare du Nord, uno straniero viene ferito da uomini armati. Quando giunge la polizia, la vittima è scomparsa. Maigret, coadiuvato dall'ispettore Lognon scopre che questi gangster sono americani. La targa della vettura degli aggressori, identificata da un testimone, conduce Lognon a un bar di proprietà di un americano d'origine siciliana, in cui lavora una ragazza belga, Lily, la quale ha ospitato i gangster. Maigret alla fine ha successo, dopo aver affrontato avventure pericolose per capire perché i gangster di Saint Louis (Missouri) sono a Parigi, dove si sono sbarazzati di un testimone scomodo.
 

Maigret e i gangsters del 1963 è il terzo e ultimo film con Jean Gabin nei panni del commissario di Simenon. Rispetto agli altri due, direi che l’attore ha un’interpretazione molto vicina al temperamento del Maigret dei libri, lo ha probabilmente assimilato. Il film è in bianco e nero, e rispetto agli altri ha una realizzazione più dinamica, ha un montaggio più serrato. Risulta lunga ma efficace la sequenza della lotta psicologica che avviene nell’interrogatorio tra Maigret e il padrone del bar che serve da copertura ai delinquenti. E qui si capisce come il commissario si pone: l’attenzione al realismo, i dettagli, la capacità di scavare nel profilo degli indagati senza cadere nel moralismo, ma scandagliando nel loro animo.

La pellicola è tratta dal romanzo omonimo scritto nel 1951 durante il soggiorno americano di Simenon e non a caso la trama s’intreccia con i servizi segreti Usa. Il personaggio iniziale è l’ispettore Lognon, che si trova in molti nei romanzi del commissario. La sua figura è particolare, sempre con il fazzoletto in mano, malaticcio, piagnucoloso, personalità da riassumere con il termine sfighè. Assiste a una sparatoria con un morto che viene raccattato da un’auto misteriosa. Ha sentito vociare in lingua americana. Indaga ma viene picchiato.

Maigret segue la pista di un locale il cui proprietario, americano, ha sempre avuto rapporti con delinquenti. Incontra nell’ambasciata americana a Parigi uno strano personaggio che gli consiglia di lasciar perdere. Il caso si fa spesso e complicato, sembra che non si approdi a nulla e Maigret sottolinea al magistrato che lo incalza sull’esito delle indagini: Aspettare è una parte del mestiere.

Butta un’esca facendo finta di aver arrestato un finto colpevole, i giornali risuonano da amplificatore e i banditi si scoprono lasciando poche tracce, ma importanti per l’occhio attento e la mente di Maigret. Scoprirà infine che c’è di mezzo un collaboratore di giustizia che deve essere trasferito negli States, un infiltrato dell’FBI e…

In questo film Gabin non si toglie mai il cappello se non nel consolato americano e la moglie è completamente assente. Il regista (Gilles Grangier) non ha avuto guizzi alla Jean Dellanoy che ha diretto i due film precedenti. Tutto sommato l’interpretazione di Gabin è buona, ma mancano i silenzi e gli sguardi che nelle pellicole precedenti erano più eloquenti e significativi.”

(In: www.ilsussidiario.net)


“In una foto scattata quando aveva nove anni Gabin è impressionante: ha già un volto da adulto ma conserva la sfrontatezza timida del suo personaggio giovanile, col risultato che la fotografia sembra frutto di un fotomontaggio e l'immagine costituisce un unicum. Vedendola si capiscono tante cose del suo futuro e del suo passato. Il giovanissimo Jean-Alexis Moncorgé si intuisce profondamente radicato nella Francia proletaria e rurale che ha forgiato il suo corpo e la sua mente: una lezione di vita che diventerà per lui al tempo stesso un alibi e una caratteristica di fondo, senza la quale il Jean Gabin che noi conosciamo non esisterebbe. Così come le sollecitazioni parigine e furbesche del piccolo spettacolo ballato e cantato - ereditate di peso dal padre, detto 'Gabin', Jean non voleva lavorare in teatro, ma fare il macchinista delle ferrovie - hanno contribuito profondamente a dar vita al suo gestire ed al suo parlare. E anche uno dei segreti della sua fascinazione. Si pensi al 'caso Maigret'. In tutta la sua carriera egli incarnò solo tre volte il personaggio inventato da Simenon: nel 1958 interpretando Maigret tend un piège (Il commissario Maigret) e Maigret et l'affaire Saint-Fiacre (Maigret e il caso Saint-Fiacre); e cinque anni dopo dando vita a Maigret volt rouge (Maigret e i gangster). Eppure, lo spettatore medio lo ricorda come un Maigret tipico, a dimostrazione del fascino straordinario che Gabin esercitava quando incarnava una figura accettata e sollecitata dal pubblico. Nel pensare a quello che il suo personaggio ha rappresentato per almeno quarant'anni di cinema francese, e intendo qui alludere alla immensa quantità e qualità di implicazioni smosse nel corso di un'avventura divistica percorsa con una sorta di recalcitrante devozione, si rimane sbalorditi e quasi spaventati. Egli è stato se non tutto, quasi tutto e il contrario dì tutto. Il mauvais garçon della prima consacrazione, il personaggio molteplice della parte centrale della sua carriera, ora tragico, ora buffonesco, ora furbesco, e infine l'ultimo Gabin, che offre sottigliezze di ogni genere.”

(Claudio G. Fava, L'affaire Gabin, Bergamo Film Meeting 2010)

 

 

Un attore: Vittorio Sanipoli

“Con la scomparsa di Vittorio Sanipoli, morto sabato in un ospedale romano per una malattia ai polmoni, viene meno un ulteriore, prodigo esempio di attore di temperamento, appartenente a quella razza di artisti ruvidi e schivi, coriacei ma di duttile abnegazione. Per molti, per i più, era una 'voce'. Una voce dura, spietata, scettica. La voce di un signore tutto d'un pezzo, costretto per l'intero arco della sua professione a immedesimarsi, a causa di quell'infido timbro, in personaggi di sinistra, inquieta o malintenzionata natura.

Era nato a Quinto al Mare, in provincia di Genova, nell'ottobre del 1915, e stava dunque per compiere 77 anni, ormai un po' più appartato dal punto di vista del lavoro, ma con alle spalle una carriera infaticabile avendo esordito sulla scena nel ‘39, nella Compagnia degli Spettacoli Gialli diretta da Romano Calò. E' vero che la televisione, in particolare quella in bianco e nero, gli valse la maggiore popolarità, ma Sanipoli non nascose mai un attaccamento inconfondibile al teatro, dov'era nato, grazie anche all'esempio ricevuto dallo zio Annibale Betrone, per non dire del tirocinio con Ruggeri, dell'esperienza di un "Sogno" di Shakespeare con la regia di Brissoni, della scrittura nel '48 con Ricci per testi di Ibsen e di Turgenev. Un altro traguardo nel biennio '50-52 che lo vide nei quadri del Teatro Nazionale diretto da Salvini, accanto a Gassman e poi alla Zareschi, per autori come Annibal Caro e Betti, per un Peer Gynt, per una Maria Stuarda e tanto altro repertorio. In virtù delle sue potenti doti espressive, e della sua figura severa, non poteva che candidarsi idealmente agli spettacoli all'aperto: le occasioni gli vennero dal Parco Serra di Nervi per un Cristoforo Colombo di Claudel, e più volte da San Miniato, anche se le presenze più eclatanti spettavano al Teatro Greco di Siracusa.

La robusta fisionomia, l'impasto grave della declamazione e forse anche un ritegno da burbero benefico non permisero quasi mai a Vittorio Sanipoli di accedere a ruoli di primattore: eppure la prosa italiana gli è debitrice, e la sua umiltà energica è una di quelle doti che hanno a lungo alimentato il genere avventuroso o classico. Prima di farsi assorbire dalla televisione, recitò per De Bosio nel '54-55 e più tardi, entrò anche nella compagnia Albertazzi- Proclemer nel '56-57, e ottenne un personale successo con Bertoldo a corte di Dursi, facendosi poi dirigere da Squarzina nella Romagnola, integrandosi a più riprese col Teatro Stabile di Genova. Con la moglie Amalia D'Alessio aveva pure fondato una sua compagnia. Ma è in laboriose stagioni televisive che Sanipoli giunge a rimanere trepidamente impresso nella memoria di molti di noi, e può citarsi, per tutti, l'impegno come capitano Mazzacurato ne "Il mulino del Po" di Bolchi. Gli sceneggiati ci indussero a riconoscere in lui un Mefistofele da romanzo, un pestifero su commissione, un malvagio alle prese con gli ipocriti ' buoni'. Ma lui era un simpatico costretto alla coazione della malvagità.”

(In: ricerca.repubblica.it)

 

Vittorio Sanipoli, all'anagrafe Luciano Sanipoli (Quinto al Mare, 27 ottobre 1915 - Roma, 25 luglio 1992), attore e doppiatore italiano. Vittorio Sanipoli frequentò l'Accademia d'arte drammatica a Milano su suggerimento della zia, l'attrice Elvira Betrone, ed esordì nel 1939 nella Compagnia dei Gialli, diretta da Romano Calò; recitò poi con la Compagnia Odeon di Milano (1941), e nel dopoguerra con Ruggero Ruggeri e Renzo Ricci (1948). Negli stessi anni intraprese l'attività radiofonica, lavorando in trasmissioni di prosa come La strada del sole di Mario Carletti (1939, regia di Enzo Ferrieri) e Così è (se vi pare) di Pirandello (1940, regia di Alberto Casella).

Attore duttile, poliedrico, dall'interpretazione scabra e incisiva, dotato di ottima tecnica e presenza scenica, negli anni Cinquanta fu nella Compagnia nazionale al Teatro Valle di Roma (1950-1951), in quella diretta da Guido Salvini (1951-1952), e in quelle di Gianfranco De Bosio (Nuovo Teatro ETI 1954-1955, Stabile di Torino, 1957-1958) e Squarzina (1959), passando con disinvoltura dai ruoli drammatici a quelli brillanti e ottenendo successi personali in Detective Story e in Anna per mille giorni, entrambi del 1951.

La sua carriera proseguì densa di soddisfazioni e culminò nella stagione 1956-1957 con la prima rappresentazione italiana di Un cappello pieno di pioggia per la regia di Luigi Squarzina con la formazione Proclemer-Albertazzi e, nel 1960, quando vinse come attore non protagonista, il premio San Genesio per la sua performance ne Il Revisore diretto da Virginio Puecher per il Teatro di Genova. La sua attività continuò positivamente negli anni successivi: nel 1963 ritrovò Squarzina che lo scritturò per Corte Savella, in seguito apparve in altri lavori e approdò nel 1970 al Piccolo Teatro di Milano scritturato da Strehler, per un personaggio di grande spessore in Santa Giovanna dei macelli di Brecht.

L'esordio nel cinema avvenne in pieno conflitto bellico, con lo pseudonimo di Vittorio Sanni, da protagonista in due gradevoli film d'avventura salgariani, per proseguire una carriera di tutto rispetto in una serie innumerevole di pellicole come Napoletani a Milano di Eduardo De Filippo (1953) e La domenica della buona gente di Anton Giulio Majano (1953). Il primo successo di una certa importanza arrivò con il ruolo del romano Marcus Virilius Rufus nell'epico Spartaco di Riccardo Freda (1953). Specializzatosi in parti secondarie, che delineò con efficacia, fu l'ambiguo Ramón nella gangster story Grisbì di Jacques Becker (1954), il severo maggiore Venturi di La grande guerra di Mario Monicelli (1959) e il questore del pungente e disincantato Roma bene di Carlo Lizzani (1971). Dotato di una voce roca ma dal timbro maschio e molto caldo, si dedicò anche al doppiaggio ma non con continuità, preferendo di gran lunga i ruoli, pur se secondari, nel cinema e soprattutto calcare le scene. Uno degli attori da lui doppiati in modo egregio fu il Wallace Beery di Pranzo alle otto nell'edizione ripresentata nel dopoguerra.

Gli anni Cinquanta furono anche un periodo di intensa attività radiofonica; fra le innumerevoli interpretazioni, La casa sul fiume di Giovanni Bonacci (1950, regia di Umberto Benedetto), Giovanna e i suoi giudici di Thierry Maulnier (1951, regia di Salvini), Knock o il trionfo della medicina di Jules Romains (1953, regia di Tofano), Figlio di nessuno di Montherlant (1958, regia di Puecher), Un marito di Svevo (1959, regia di Sandro Bolchi). Negli anni Sessanta e Settanta proseguì la partecipazione al teatro radiofonico, con La signora Morli, una e due di Pirandello (1961, regia di Morandi), La grande orecchia di Bréal (1964, regia di Flaminio Bollini), I tre colpi di mezzanotte di Obey (1965, regia di Benedetto), Le notti dell'ira di Salacrou (1966, regia di Benedetto), Ifigenia in Aulide di Euripide (1966, regia di Visconti), Il giorno della civetta di Sciascia e Sbragia (1967, regia di Benedetto), Otello di Shakespeare (1970, regia di Gino Landi), Il revisore di Gogol (1971, regia di Giorgio Bandini), Volpone di Ben Jonson (1972, regia di Pietro Masserano Taricco).

Ma Sanipoli ebbe anche un'intensa attività televisiva a cominciare dalla sua presenza in numerosi sceneggiati, fra i quali Piccole donne di Majano (1955), Umiliati e offesi di Cottafavi (1958) e Il mulino del Po di Bolchi (1963).
Ma fu anche ottimo interprete di opere teatrali ridotte per la televisione come Proibito al pubblico di Corrado Pavolini (1955), Svegliati e canta di Blasi (1956), Piccole volpi di Claudio Fino (1960), Il candeliere di Edmo Fenoglio (1961), Corte marziale per l'ammutinamento del Caine di Giacomo Vaccari e L'aiuola bruciata di Claudio Fino, entrambe del 1965, quindi Ross di Giuseppe Fina (1969), Chatterton di Orazio Costa (1971) e moltissime altre. Da non trascurare poi gli episodi di varie serie di successo come Maigret, Nero Wolfe, Processi a porte aperte, Tenente Sheridan, Vivere insieme e tante altre. Partecipò inoltre a vari programmi come Il girasole (1972-75).
Dalla fine degli anni Settanta abbandonò gli schermi.
Sposato con l'attrice Amalia D'Alessio, morì in un ospedale romano il 25 luglio 1992 per una malattia ai polmoni. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.”

(In wikipedia.org)

 

Una poesia al giorno

Ai martiri della causa italiana, di Alessandro Poerio (dicembre 1847)

Bevve la terra italica
Del vostro sangue l’onda,
E piova più feconda
Giammai non penetrò.
Voi con ardir magnanimo
Di sacrificio intero,
Voi preparaste il Vero,
Il Ver che a noi spuntò.
Alziam concordi il cantico
Alla virtù di Pio,
Nel qual rivela Iddio
Questa novella età:
Ma pera chi dimentica
Quei che con largo affetto
Fer della vita getto
Per nostra libertà.
Ei d’alta, di profetica
Morte per noi moriro;
Con ultimo sospiro
Vòlto a’ futuri dì.
Ei sien subietto fervido
Di splendide canzoni,
Fin che nel mondo suoni
La lingua alma del sì.
Le tombe in cui si giacciono
L’ossa compiante e care
Sien ciascheduna altare
Di cittadino amor.
Innanzi a questi martiri
Prostatevi silenti,
Ma a sorgere frementi
Di bellico furor.
Questi dal nome italico
Inseparati nomi,
Che dall’oblio non domi
Ne’ secoli saran;
Questi son segni fulgidi
Sull’inclite bandiere
Che incontro allo straniere
Vendicatrici andran.

 

 

Poerio, Alessandro, nacque a Napoli il 27 agosto 1802 da Giuseppe, appartenente a una nobile famiglia calabrese (era barone di Belcastro), e da Carolina Sossisergio, figlia di un magistrato di Terra d’Otranto (Lecce).

Primo di tre figli (il fratello Carlo nacque nel 1803; la sorella Carlotta nel 1807), la sua formazione fu affidata al letterato Domenico Simeone Oliva. Nel 1815, restaurata la dominazione borbonica, esiliò insieme alla famiglia al seguito del padre (giurista che aveva collaborato con Giuseppe Bonaparte e con Gioacchino Murat). Si trasferì quindi a Firenze dove, nel novembre 1815, si iscrisse al corso di disegno presso l’Accademia di belle arti, rimanendo in Toscana fino al dicembre 1818. Rientrato a Napoli, nel 1820 ottenne un incarico presso il ministero degli Affari esteri. Arruolatosi nelle truppe guidate da Guglielmo Pepe in difesa della costituzione (concessa da Ferdinando I nel luglio 1820), il 7 marzo 1821 partecipò alla battaglia di Antrodoco, che vide l’esercito napoletano sconfitto dagli austriaci. Fallita la rivoluzione costituzionale, dovette partire ancora una volta in esilio con i familiari: dapprima a Graz e poi, dall’ottobre 1823 dopo un breve soggiorno a Trieste, nuovamente a Firenze.

In quegli anni, durante i quali approfondì lo studio delle lingue (francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco), si dedicò ai suoi primi tentativi poetici (il più antico componimento, A mio padre, fu scritto nell’aprile 1820). Tra di essi anche alcuni frammenti di drammi (Sertorio, Manfredi, Corradino, Barbarossa), collocabili fra il 1824 e il 1830.

Nell’estate del 1825 (dopo un breve soggiorno a Bologna, nel corso del quale studiò la lingua polacca sotto la guida di Giuseppe Mezzofanti), intraprese un lungo viaggio di istruzione in Germania. Passato per Ginevra (dove conobbe Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi), Berna e Basilea, in ottobre, dopo altre tappe intermedie, giunse a Weimar: lì incontrò l’ormai anziano Johann Wolfgang Goethe, al quale offrì la propria versione in italiano de La sposa di Corinto (poi parzialmente pubblicata nei numeri 38 e 46 del periodico Chaos, edito a Weimar dal 1829 al 1831). Spostatosi nello stesso mese a Gottinga, seguì alcuni corsi universitari di storia, diritto, politica e storia naturale; dopo aver risieduto a Lipsia nel primo scorcio del 1826, fece nuovamente ritorno a Weimar nel febbraio di quello stesso anno, dove consegnò a Goethe un’altra traduzione nel frattempo portata a compimento (la tragedia Ifigenia in Tauride, di cui, tuttavia, non rimane alcuna testimonianza manoscritta).

Nelle lettere di quel periodo (Viaggio in Germania, il carteggio letterario e altre prose, a cura di B. Croce, Firenze 1917), oltre a manifestare la delusione per i corsi universitari frequentati e la propria distanza dall’eccesso di ‘misticismo’ riscontrato nella filosofia tedesca (mostrando semmai di prediligere l’eredità dell’Illuminismo francese), ribadì espressamente la propria vocazione letteraria, alimentata dalle letture compiute (Shakespeare, Calderón de la Barca, Byron, Lamartine, Vico, Winckelmann, Herder). Particolarmente degne di nota anche le lettere incentrate sulle conversazioni con Goethe (al quale peraltro scrisse anche una volta tornato in Italia).

Dopo essersi fermato ancora a Gottinga da marzo a giugno 1826, e dopo aver sostato a Berlino, Dresda e Monaco fra luglio e agosto, nel settembre 1826 rientrò a Firenze, dove riprese e consolidò i rapporti non solo con i fuoriusciti napoletani (Antonio Ranieri, Carlo Troya, Pietro Colletta, Matteo e Paolo Emilio Imbriani), ma anche, fra gli altri, con Giovan Pietro Vieusseux, Gino Capponi, Giovanni Battista Niccolini, Niccolò Puccini, Pietro Giordani e con Giacomo Leopardi, che conobbe nel 1827.

Costantemente sorvegliato dalla polizia, nel febbraio 1828 fu agli arresti domiciliari per alcuni giorni, avendo sfidato a duello il segretario della legazione russa in Firenze (in quella circostanza subì anche il sequestro di tutte le sue carte, che gli furono poi restituite).

Negli anni fiorentini si dedicò con una certa regolarità alla produzione poetica, misurandosi con alcuni temi che sarebbero stati centrali anche successivamente: l’amore (per esempio Già non dirò che appieno e A te viene sovente il mio pensiero); la dolente riflessione sulla condizione umana (Splendono gli occhi e le rallegra); l’impegno politico (Uom d’oggi, uom fatto di mollezza); la sensibilità religiosa minata dal dubbio (Rimorso).

Espulso nel novembre 1830 dal Granducato di Toscana insieme al padre (il resto della famiglia aveva già fatto ritorno nel Regno delle Due Sicilie nel giugno 1828) e giunto in dicembre a Parigi, pochi mesi più tardi, nel marzo 1831, si recò a Marsiglia nella speranza (presto abbandonata) di partecipare alla spedizione progettata da Guglielmo Pepe per sostenere i moti scoppiati nel frattempo in Italia. Rientrato quindi stabilmente nella capitale, nel corso del suo soggiorno instaurò una fitta rete di relazioni umane e intellettuali: fu in rapporti, fra gli altri, con George Sand, Victor Cousin, François Guizot, Gabriel Rudolf Ludwig von Sinner, Félicité-Robert de Lamennais, Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy; e ancora, con Cristina di Belgioioso, Vincenzo Bellini, Francesco Paolo Bozzelli, Gaetano Cobianchi, Giovanni Stefani, Pier Silvestro Leopardi.

A partire dalla fine del 1831 si impegnò, insieme al padre, nella ricerca di sottoscrizioni per la fondazione della rivista Bibliothèque française et étrangère, che avrebbe dovuto avere risonanza europea (promisero attiva collaborazione François-Auguste-René de Chateaubriand, August Wilhelm Schlegel, Alexander von Humboldt). Proprio a tale scopo, nell’estate del 1832 i Poerio si spostarono dapprima in Inghilterra e in seguito, nel mese di ottobre, in Belgio; l’iniziativa tramontò tuttavia definitivamente nel 1833, anno in cui Ferdinando II concesse la grazia al padre, che rientrò quindi a Napoli.

Nella primavera del 1834 Poerio intraprese un’assidua frequentazione con Niccolò Tommaseo: fu l’inizio di un duraturo e intenso scambio intellettuale, che contribuì in misura determinante alla sua conversione al cattolicesimo (una conversione, peraltro, tormentata e irrequieta, e contraddistinta dall’avversione per il potere temporale della Chiesa). Trasferitosi nel frattempo a Versailles nel maggio 1834, e tornato nuovamente a Parigi nell’ottobre successivo, dopo quattordici anni di esilio poté finalmente tornare nella città natale: giunto a Napoli nel marzo 1835, ebbe un impiego presso la Banca del Tavoliere delle Puglie e affiancò il padre nell’attività forense.

Niccolò Tommaseo

A Napoli riallacciò in particolare il rapporto di amicizia con Ranieri e con Leopardi. Alla morte di quest’ultimo - avvenuta mentre egli si trovava a Castiglione, nel Salernitano, di ritorno da un lungo soggiorno a Catanzaro, dove si era recato con il padre nel settembre 1836 per un’importante causa legale -, si adoperò attivamente affinché fosse concesso il permesso di erigere il monumento funebre in onore del poeta nella chiesa di S. Vitale.

Gravato dagli impegni lavorativi e dal peggioramento della già cagionevole salute (alla compromissione dell’udito e della vista si aggiunsero forti disturbi nervosi), Poerio agì da elemento di raccordo tra i liberali napoletani e toscani e, parallelamente, continuò a cimentarsi nella scrittura poetica, fino alla pubblicazione, nel 1843, a Parigi della silloge intitolata Alcune liriche.

Uscita anonima presso l’editore Didot, la raccolta ebbe una circolazione assai ridotta. Le trentadue liriche che la componevano, stese tra il 1834 e il 1843, risentivano in particolare dei modelli di Foscolo, Manzoni, Tommaseo, Leopardi, ed erano attraversate da alcune ricorrenti linee tematiche. Da un lato, una tormentata religiosità (Fede, Fantasia, Pentimento), collegata all’idea che il poeta fosse chiamato alla diffusione del ‘Vero’ ma al contempo condannato all’isolamento e al dolore (Solitudine, Il poeta, I poeti venturi). Dall’altro, il motivo patriottico (assai famosa la lirica Il Risorgimento), che si avvaleva delle più diffuse strategie retoriche della poesia risorgimentale: lo scuotimento degli italiani dall’ ‘ozio’, la sacralità della lotta contro lo straniero, l’esaltazione dei gloriosi esempi della storia (Arnaldo da Brescia, Filippo Strozzi, Enrico Dandolo, Andrea Doria) e della cultura (Dante, A Petrarca, Ugo Foscolo, Tommaso Campanella prigione nel Castel dell’Uovo in Napoli). Tra le poesie risalenti al medesimo periodo, ma escluse dalla silloge, i versi A Giacomo Leopardi dell’ottobre 1834.

Colpito da gravi sventure familiari (nell’agosto 1843 morì il padre; il fratello Carlo fu imprigionato nel 1837, nel 1844 e poi ancora nel 1847), nel febbraio-marzo 1844 ritrovò a Napoli Giuseppe Giusti, che aveva incontrato durante l’esperienza toscana; e tra il settembre e l’ottobre 1845, in occasione del VII Congresso degli scienziati italiani, conobbe Giuseppe Montanelli, al quale fu legato fino alla morte da una stretta amicizia. Recatosi a Roma, dove restò dal febbraio al maggio 1847, alla ricerca di sollievo per i disturbi di salute (ma anche sospinto dalla fiducia inizialmente riposta in Pio IX), nel maggio 1848, dopo aver rifiutato gli incarichi diplomatici proposti dal governo costituzionale presieduto da Troya, si unì alle truppe salpate da Napoli al comando del generale Pepe per dare supporto alla guerra nel Lombardo-Veneto. Dopo vari spostamenti (Ancona, Venezia, Bologna, Ferrara), rimase ancora al seguito di Pepe quando quest’ultimo, disubbidendo all’ordine di ritirata impartito da Ferdinando II, giunse a Venezia con un numero ridotto di soldati nel giugno 1848.

In quel periodo si consacrò anche alle sue ultime prove poetiche: nel dicembre 1847 scrisse due liriche Ai martiri della causa italiana; rispettivamente il 26 giugno 1847 e il 15 gennaio 1848 uscirono sul periodico pisano L’Italia fondato da Montanelli il componimento anonimo Lirica civile e un secondo omaggio A Giacomo Leopardi; nel febbraio 1848 stese le quartine per la Prigionia di Niccolò Tommaseo in Venezia; nel maggio e nel settembre 1848 compose rispettivamente le quartine O Venezia, mai più l’intimo canto e la lirica Voce dell’anima.

Il 7 luglio 1848 Poerio prese parte all’attacco contro il forte di Cavanelle d’Adige occupato dagli austriaci e il 27 ottobre fu tra i soldati che combatterono nella battaglia di Mestre. Rimasto gravemente ferito, subì l’amputazione della gamba destra; insignito del grado di capitano, fu trasportato a Venezia, ospite dalla contessa milanese Rachele Londonio Soranzo.
Proprio a causa delle ferite riportate, morì a Venezia il 3 novembre 1848.
Dopo solenni esequie pubbliche, fu sepolto a Venezia nella tomba della famiglia Paravia.”

(Valerio Camarotto - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 84, 2015, in www.treccani.it)

 

27 ottobre 1848: sortita italiana dal Forte di Marghera per liberare Mestre dalle truppe austriache, nella quale morì lo scrittore Alessandro Poerio.

Forte Marghera è una fortezza ottocentesca ed ex-caserma dell'Esercito Italiano situata a Venezia, a circa cinque chilometri dal centro storico. Il forte era parte del campo trincerato di Mestre e del più ampio sistema difensivo della laguna. È oggi proprietà del comune di Venezia, parco pubblico, sede di eventi e produzioni culturali. Il nome deriva dall'antico abitato di Marghera ed ha a sua volta dato nome all'odierna Porto Marghera.

Rioccupata Mestre il 18 giugno 1848, dopo la ribellione del marzo dello stesso anno e la nascita della Repubblica di San Marco, gli austriaci si apprestarono a cingere d'assedio Venezia. Questa, ormai abbandonata dagli sperati soccorsi del Regno di Sardegna, poteva ancora contare sulla protezione costituita dal Forte Marghera e dai vicini forte Manin e forte San Giuliano e alla Ridotta Rizzardi. In tutto si trattava di 140 pezzi d'artiglieria e 2.300 uomini al comando del generale Antonio Paolucci. Durante i caldi mesi estivi i patrioti dovettero sopportare le febbri malariche dovute alla zona acquitrinosa e all'acqua dei pozzi che veniva bevuta. Le numerose truppe alloggiavano, oltre che nelle caserme difensive, anche in baracche di legno, tende ed altri alloggi di fortuna.

La situazione ristagnò per alcuni mesi, fino al 27 ottobre, quando i Veneziani tentarono un'azione di forza per liberare Mestre: la famosa Sortita dal Forte Marghera. All'alba, 2.000 uomini, capitanati dal tenente Antonio Olivi, uscirono dal Forte attaccando le truppe austriache di stanza a punta San Giuliano, ricacciandole verso Treviso. Raggiunti da altri insorti, che avevano liberato Piazza Barche, si diressero tutti al Ponte della Campana, di fronte a Piazza Maggiore, dove erano di guardia quattro cannoni austriaci che, tuttavia, non riuscirono a fermare l'assalto. Mestre venne liberata dagli occupanti, messi in fuga verso Treviso. Era però solo un'operazione di effetto, non destinata a resistere nel tempo, data la sproporzione tra le forze veneziane e quelle austriache comandate dal generale Haynau: 24.000 uomini e 200 cannoni concentrati a Mestre e dintorni. Nei giorni successivi Mestre fu riconquistata definitivamente e, mentre il 2 maggio i Veneziani sostituivano il generale Paolucci, sospettato di tradimento, col giovane colonnello napoletano Girolamo Ulloa; il 4 maggio gli austriaci iniziarono le operazioni per conquistare il forte, che prese ad essere martellato scientificamente dall'artiglieria. In quei giorni la fortezza divenne bersaglio di 70.000 bombe, con 500 tra morti e feriti di parte italiana.

Operando secondo le regole dell'arte militare della presa di fortezza, gli austriaci in pochi giorni, coperti dai tiri d'artiglieria, si avvicinarono al forte procedendo in trincea. Vennero scavate una prima ed una seconda parallela, minacciando sempre più da vicino la fortezza coi loro tiri, finché il 27 maggio, prima che il definitivo attacco austriaco imbrigliasse in una sacca i difensori, il forte venne abbandonato e i patrioti, dopo aver distrutto quanto ancora poteva servire al nemico, si ritirarono attraverso il ponte ferroviario verso Venezia.

Quel giorno scriveva l'inviato della Gazzetta di Vienna al suo giornale, in un articolo pubblicato il 1º giugno:

«Marghera offre un aspetto spaventevole; non si può fare un passo senza incontrarsi nelle tracce di distruzione prodotte da noi; i pochi edifici sono un mucchio di rovine, i terrapieni e le palizzate distrutte in modo che non si riconosce più la loro forma; insomma noi ammiriamo i nostri nemici che hanno sostenuti questi giorni terribili senza cedere prima.» (Wiener gazette, 1 giugno 1849.)

La città, ora protetta solo dalle acque della sua laguna, divenne vulnerabile ai tiri dell'artiglieria austriaca, che tentò persino un bombardamento aereo con l'uso di mongolfiere, fortunosamente respinte dal vento. Venezia resistette strenuamente per altri tre mesi, stretta d'assedio da terra e dal mare e priva di qualunque speranza di soccorso, fino a che, il 22 agosto, dovette capitolare. Durissima fu la repressione degli austriaci: fucilazioni, deportazioni, carcere duro per coloro che erano stati protagonisti di quel periodo, eroico e terribile.”

(In wikipedia.org)

 

Un fatto al giorno

27 ottobre 1962: l'aereo su cui volava Enrico Mattei, Presidente dell'ENI precipita nelle campagne intorno Bascapè (PV). La dinamica dell'incidente non è ancora stata chiarita.

“27 ottobre 1962 a Bascapé, in provincia di Pavia, muore Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’ENI. Il suo bireattore si schianta al suolo. Con lui perdono la vita il suo pilota e il giornalista William McHale come riportarono i giornali del tempo. Mai chiarite le cause dello schianto. Tante le ipotesi. Tra queste anche quella di un sabotaggio. 56 anni, un passato nella Resistenza pe liberare l’Italia dal nazi-fascismo e decorato al valore partigiano dal generale americano Clark. Nominato commissario dell’AGIP, l’Agenzia generale italiana petroli, con l’ordine di metterla in liquidazione Mattei non lo fa. Anzi, propone le ricerche che portano alla scoperta del metano in Val Padana. Un uomo coraggioso che sfida il monopolio delle “sette sorelle”, le sette più grandi compagnie petrolifere di tutto il mondo. L’Italia entra tra le grandi aziende energetiche. In una intervista rilasciata a Gianni Granzotto nel 1960 e disponibile negli archivi dell’Eni spiega l’arroganza dei potenti.”

(Con documentari in www.giornidistoria.net)
 

“Il 27 ottobre 1962, alle ore 19 circa, l’aereo di Enrico Mattei proveniente da Catania e diretto a Milano, un Morane Saulnier, cade nei cieli di Bascapè, località Albaredo, vicino Pavia, in procinto di atterrare a Linate.

Muore un protagonista assoluto del prodigioso sviluppo economico dell’Italia del dopoguerra. “Con la morte di Mattei l’Italia, e forse l’Europa, ha perso una delle personalità più eccezionali degli anni del dopoguerra” (The Guardian, 1962). “Enrico Mattei influenzò più di qualunque altro il continuo boom del dopoguerra, conosciuto come il "miracolo economico italiano” (Time, 1962).

L’Italia nel 1945 era in condizioni talmente disastrate da far supporre una sua dipendenza economica di lunga durata, e forse irreversibile. Si stimava nel 1945 che il reddito pro-capite fosse inferiore ai livelli del 1861.
In questa situazione era entrato in scena Enrico Mattei, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia (CLNAI) commissario straordinario dell’AGIP (Azienda Italiana Generale Petroli). Il cruccio di Mattei divenne ben presto quello di elevare l'Italia al rango di potenza petrolifera.

Per contrastare Mattei, venne attuata dalla lobby petrolifera statunitense una azione molto decisa sul Governo Italiano al fine di fermare le ricerche dell’AGIP. L’AGIP effettivamente non riuscirà a ottenere alcun finanziamento dello European Recovery Program (ERP, alias Piano Marshall) per l’acquisto delle proprie attrezzature.
Il Ministro delle Finanze Ezio Vanoni voleva che Mattei potenziasse l’AGIP, allargasse la sua attività, la rendesse forte abbastanza da combattere ad armi pari con le società americane, perché doveva divenire il nucleo centrale di una vasta economia statale.

Con l’appoggio fondamentale di Vanoni e del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi - inizialmente propenso a smantellare l’AGIP - Mattei riuscì a creare le condizioni per l’approvazione in Parlamento della legge che avrebbe istituito l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI).
Mattei intuì le potenzialità enormi del settore petrolifero e aprì la strada per realizzarle a vantaggio del nostro paese. L’energia metanifera per la ricostruzione, la modernizzazione, la competitività dell’industria italiana, è venuta dall’ENI. Mentre con la politica di reperimento delle fonti petrolifere all’estero, Mattei ha reso l’Italia autonoma - rispetto alle grandi potenze - nell’approvvigionamento energetico.
Mattei rivendica condizioni di non discriminazione, di parità, di sviluppo non condizionato da interessi stranieri.

L’ENI ha promosso e gestito la politica energetica del nostro paese per più di quarant’anni, consentendo all’Italia di essere presente nelle grandi trattative internazionali per il petrolio. Lo sviluppo economico italiano deve molto all’ENI.
La grande intuizione di Enrico Mattei fu disegnare uno scenario futuro dove i paesi arabi - nel quadro del grande movimento di decolonizzazione - avrebbero esautorato le “Sette sorelle” dell’oligopolio petrolifero e messo sotto il loro diretto controllo le riserve di oro nero. Come ci racconta Mario Pirani “La previsione di una rottura del cartello petrolifero spinse Mattei alla ricerca di uno spazio autonomo non condizionato dall’egemonia dell’oligopolio internazionale, all’offerta di un rapporto diretto coi paesi di nuova indipendenza, attraverso la definizione di contratti di “partnership” con i loro governi al perseguimento della diversificazione delle fonti di approvvigionamento dell’Italia”.

Le Sette sorelle erano: Standard Oil Company of New Jersey (Exxon), Socony-Vacuum Oil (Mobil), Standard Oil Company of California (SOCAL), la Texas Oil Company (Texaco), la Gulf Oil Corporation, la Royal Dutch Shell Oil Company, la Anglo-Iranian Oil Company (AIOC, successivamente British Petroleum).

I successori di Mattei non capirono che dietro il sogno matteiano vi era una illuminante e realistica previsione della crisi petrolifera, destinata a esplodere di lì a poco tempo e che giustificava impegni finanziari, investimenti, un sistema di alleanze, al fine di attenuare l’impatto negativo sull’Italia, la più esposta alla dipendenza energetica.
Eugenio Cefis - a cui furono dati i poteri esecutivi alla morte di Mattei - trasformò l’ENI in un “mercante” che opera dentro spazi che altri gli assegnano, attuando con spregiudicatezza la politica di liquidazione dell’eredità di Mattei e di trasformazione dell’ente petrolifero di Stato in un soggetto subalterno alle grandi compagnie internazionali.

Con la sua scomparsa viene meno non solo un grande imprenditore pubblico, ma il soggetto propulsivo di una politica energetica dell’Italia. Non siamo il paese europeo con i costi energetici più cari? Tutto nasce dalla tragica caduta dell’aereo di Mattei il 27 ottobre 1962.

“Abbiamo adottato un’impostazione nuova, perché non ci piaceva lasciare operare nel nostro paese imprese esclusivamente straniere, rimanendo solo a guardare. Esse ci lasciavano margini ridicoli di guadagno nella raffinazione, che divenivano quasi nulli nella vendita. Tutto il profitto rimaneva alla produzione, con l’alto prezzo di vendita del petrolio. Io ho già avuto modo di dichiarare che oggi il prezzo del petrolio nel mondo arabo e in tutto il Medio Oriente è formato per un quinto dai costi di produzione, per due quinti dalle royalties spettanti ai paesi concessionari e per due quinti dagli utili delle grandi compagnie. Ed è su quest’ultima parte che noi non siamo d’accordo. Non siamo d’accordo perché danneggia enormemente la nostra espansione, la nostra possibilità di sviluppo industriale”. (Enrico Mattei, 1 luglio 1960)

“Per questo facciamo assegnamento sui giovani, gli uomini di domani, che dovranno raccogliere la nostra bandiera ed andare avanti, nell’interesse del nostro paese: affinchè il nostro paese possa contare qualche cosa domani, poiché non c’è indipendenza politica se non c’è indipendenza economica.
Noi non possiamo seguitare a passare attraverso degli intermediari stranieri per rifornirci di una materia prima indispensabile: ci costa troppo caro; ce lo dicono i nostri economisti (Mattei aveva come consigliere l’economista Giorgio Fuà, che sosteneva la necessità di un intervento dello stato nel controllo di energia per il superamento delle situazioni di squilibrio economico strutturale, ndr) e hanno ragione” (Enrico Mattei, 11 gennaio 1958)
Walter Bonatti
“In certe imprese Mattei sembra solo, come Bonatti (leggi post Omaggio a Walter Bonatti) su per la parete nord del Cervino”, Giuseppe Ratti (collaboratore di Mattei)
“Enrico Mattei era un uomo secco e virile, nazionalista e populista, onesto e corruttore, uno che usava la politica per farsi largo, ma anche per fare, e fare bene, nella vita pubblica. Tipi così ne avevo conosciuti durante il fascismo, tipi così ce ne saranno sempre in Italia, della specie dei condottieri, amati e odiati, profondamene italiani, profondamente antitaliani. Nel ’45 Mattei aveva salvato dalla liquidazione l’industria petrolifera italiana e aiutato da uomini simili a lui, profondamente italiani, profondamente antitaliani, come Vanoni, De Gasperi, aveva creato l’ENI”.

(Giorgio Bocca, Il Provinciale, Mondadori, 1991)

“Enrico Mattei, il creatore fuorilegge della nostra industria dell’energia, piaceva poco ai nostri conservatori del “salotto buono”, ma solo perché faceva per conto dello stato ciò che essi facevan per gli interessi loro. Tutti dominati dall’illibero arbitrio, dalla corsa dei topi” .

(Giorgio Bocca, Il Sottosopra, Mondadori, 1994, in fausteilgovernatore.blogspot.com)

 

“Alle 18,40 del 27 ottobre 1962, in Lombardia, il sole è appena tramontato e c’è una pioggia leggera. Il bireattore Morane-Saulnier 760, con due passeggeri a bordo, è pilotato da Irnerio Bertuzzi, ex capitano dell’Aeronautica con due medaglie d’argento, una di bronzo e una croce al merito. È un pilota oltre l’eccezionale. Bertuzzi, da un’altitudine di 2000 metri, comunica alla torre di controllo di Linate di essere in dirittura d’arrivo: è l’ultima volta che sentono la sua voce.
Bescapè è un paesino di contadini, in provincia di Pavia. Pompieri, Carabinieri e giornalisti accorrono per quello che sembra un incendio, ma sono i resti brucianti del bireattore. I testimoni vengono intervistati; Mario Ronchi, un contadino, dice: “Il cielo rosso bruciava come un grande falò, e le fiammelle scendevano tutt’attorno… l’aeroplano si era incendiato e i pezzi stavano cadendo sui prati, sotto l’acqua”. Un’altra contadina di Bascapè, Margherita Maroni, dichiara: “Nel cielo una vampata, uno scoppio, e delle scintille venivano giù che sembravano stelle filanti, piccole comete”. Sugli alberi attorno al relitto vengono trovati resti umani.
Appena si viene a sapere chi c’era a bordo dell’aereo, però, cambia tutto: i testimoni ritrattano, sostengono di aver visto le fiamme a terra, e di averlo detto fin dall’inizio. I Carabinieri vanno nella sede della RAI per sequestrare i filmati delle interviste, ma li trovano privi di traccia audio. L’inchiesta si apre e chiude molto velocemente: si è trattato di un incidente aereo.

Ma chi c’era a bordo del Morane-Saulner? Enrico Mattei nasce nel 1906 ad Acqualagna, nelle Marche, uno di quei paesi graziosi, in mezzo al nulla. Primo di cinque fratelli in una famiglia modesta - suo padre è un brigadiere dell’Arma e sua madre una casalinga - è uno studente brillante, ma che non si applica, come tutti i ragazzi che non sanno ancora con certezza cosa vorrebbero fare nella vita. Un giorno, in una casa di campagna, Mattei assiste a questa scena: due cani enormi si avventano su una ciotola di cibo. Un gattino spelacchiato e malconcio si avvicina alla ciotola nel tentativo di mangiare qualcosa, ma uno dei cani gli tira una zampata talmente forte da farlo volare contro il muro e spaccargli la spina dorsale.
Enrico Mattei ha appena compiuto tredici anni quando capisce cosa vuole fare nella vita.

Si trasferisce a Matelica, un altro piccolo paese in cui vengono lavorati pelle, pietra, ferro; entra come fattorino in una conceria, a diciassette anni diventa operaio, a diciannove è già vicedirettore, a venti direttore. Nel 1928, complici le politiche economiche del fascismo, la conceria fallisce. Così Mattei si trasferisce a Milano e si reinventa come venditore di vernici: in tre mesi diventa rappresentante per un’azienda tedesca. Studia chimica e viaggia molto per l’Italia. Nel 1931 apre una propria azienda con appena due operai, che in tre anni diventano venti.

Grazie all’aiuto e alle lezioni private del vicino di casa, Marcello Boldrini, riesce a laurearsi in ragioneria. Nel 1936 sposa una ballerina; poi, nel 1944, in pieno ventennio fascista, gli viene chiesto di entrare nella Resistenza per occupare nel comando militare del CLN il posto di rappresentante per la Democrazia Cristiana. Mattei accetta: affida l’azienda a due dei suoi fratelli e si mette all’opera. Cura i collegamenti interni, trova soldi, risorse e armi. Sotto di lui le forze partigiane democristiane passano da 2mila uomini a 65mila unità. I fascisti lo arrestano, ma lui riesce a evadere e a guerra finita gli viene concesso l’onore di marciare in prima fila nel corteo per la Liberazione di Milano. La Resistenza gli conferisce la medaglia d’oro e il generale USA Mark Wayne la stella di bronzo.

È ora di ricostruire l’Italia. Mattei torna a vestire i panni del civile e viene nominato commissario speciale all’Agip, una piccola azienda fondata durante il ventennio che si occupasse di “cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio”. L’Agip è sempre stata sfortunata: aveva scavato oltre 350 pozzi tra Italia, Albania, Ungheria e Romania senza trovarne una goccia. Aveva avuto delle microscopiche concessioni in Iran, ma le aveva cedute. Nei corridoi si mormora che Agip sia l’acronimo di Associazione Gerarchi In Pensione. Mattei dovrebbe semplicemente liquidarla, ma, appena entrato, si pone una domanda che nessuno si è fatto prima: perché abbattere l’unica azienda petrolifera statale? Chi lo vuole?

Be’, molta gente. Innanzitutto gli americani, perché ci hanno appena liberato e puntano a espandere il loro dominio petrolifero. Lo vogliono anche le aziende private Edison e Montecatini, per evitare la concorrenza statale. In questo clima di guerriglia, Mattei contatta il suo predecessore, allontanato per motivi non chiari. Si chiama Zanmatti. Lui gli rivela che con le ultime trivellazioni del 1944 era stato trovato del metano a Caviaga, in provincia di Lodi, ma il fascicolo era stato subito chiuso e secretato: il fronte avanzava e non ci si poteva permettere che il gas finisse in mani sbagliate. Mattei vola a Caviaga, dove trova ancora attrezzature, macchinari e i vecchi operai disoccupati. Perché, finita la guerra, non è ripartito niente?

Dal nulla riceve la telefonata di Giorgio Valerio, presidente di Edison, che si offre di comprare tutte le attrezzature dell’Agip per 60 milioni di lire. È un’offerta esorbitante: perché qualcuno dovrebbe acquistare dei rottami a peso d’oro? Mattei rifiuta. Riassume Zanmatti e tutti i vecchi tecnici, chiede un prestito in banca, unifica Agip Roma e Agip Milano. Il 17 ottobre 1945 diventa vicepresidente dell’azienda e riapre gli impianti di Caviaga. Nel marzo 1946, dal pozzo numero 2 esce metano.

Ora bisogna solo portarlo nelle case degli italiani.
A livello di burocrazia sarebbe un inferno, ma Enrico ragiona da cattolico e agisce da partigiano: scava viadotti durante la notte, posa i tubi, e la mattina dopo li ricopre, chiedendo scusa. Quando arrivano avvocati, multe e processi, li paga - se avesse fatto tutto legalmente avrebbe dovuto pagare il doppio e perdere il quadruplo del tempo, forse senza ottenere nulla. Ora Enrico non è più solo un imprenditore, di fatto è diventato un condottiero. Se trovasse il petrolio renderebbe l’Italia autosufficiente dal punto di vista energetico; indipendenza energetica significherebbe indipendenza economica, che significherebbe a sua volta indipendenza politica. Mattei ha la visione di un’Italia che rialza la testa dopo la guerra e che va avanti sulle proprie gambe, senza dover rendere conto a nessuno.

Questo mette in grave difficoltà il piano di colonizzazione che altre potenze avevano messo in atto fin dal 1928 con l’accordo della linea rossa e gli accordi di Achnacarry. Sette aziende avevano stabilito quali sarebbero state le zone d’estrazione e i prezzi di vendita del greggio: di fatto si trattava di un cartello, che prevedeva di spartirsi il 75% del petrolio estratto da Africa e Medioriente. C’erano dentro le statunitensi Esso, Mobil, Texaco, Chevron e Gulf oil, la Shell dall’Olanda, e la British Petroleum. Mattei le chiamava le “sette sorelle”. Sorellastre: oltre a imporre clausole contrattuali vergognose, trattavano gli operai locali alla stregua di schiavi e si imponevano ai governi, considerandoli miserabili. Avevano già deciso di fare dell’Italia un cliente: tra loro e i portafogli nazionali c’era solo Mattei.

Iniziano così a fargli la guerra. Grazie agli agganci con la politica italiana, il 9 maggio 1947 riescono a infilare nel cda Eugenio Cefis, il suo uomo di fiducia Raffaele Girotti e un avvocato siciliano, Vito Guarrasi, detto “Don Vito”. Personaggio spaventosamente controverso, cugino di Enrico Cuccia, Guarrasi, ha mani dappertutto - sul lotto di una banca, sul quotidiano comunista L’Ora (dove lavora il giornalista Mauro De Mauro) - ed è socio della Ra.Spe.Me, che opera nel settore medico. Il suo socio è Alfredo Dell’Utri, padre di Marcello. I nuovi membri rimuovono Mattei dalla carica di vicepresidente, ma non riescono a estrometterlo. Ottengono l’accesso agli archivi segreti delle ricerche Agip e fanno chiudere Caviaga, mentre una raffineria di Marghera viene venduta alla British Petroleum. La Edison si prepara a trasformare l’Agip in una società divisa un terzo a lei, un terzo all’AGIP e un terzo alla società Metano, che poi è un nome fittizio per coprire una partecipata Edison. Mattei ha bisogno di più forza per difendersi, così nel 1948 entra in politica. Tramite agganci e conoscenze arriva fino a De Gasperi in persona. Quando la Democrazia Cristiana vince le elezioni, De Gasperi spazza via il CDA dell’AGIP e nomina presidente Marcello Boldrini. Lui mette vicepresidente Mattei, che sceglie i suoi uomini tra vecchi commilitoni e compaesani. Gli USA contrattaccano e stanno per far approvare una legge mineraria capestro, quando succede qualcosa che nessuno avrebbe potuto prevedere: a Cortemaggiore l’Agip trova il petrolio.

È una sacca da pochissimi ettolitri, ma a Mattei basta. Contatta la stampa e i fotografi. Da bravo venditore ingigantisce talmente tanto la questione che le azioni salgono, la legge sullo sfruttamento minerario cade e, anzi, il Parlamento decide di riservare allo Stato le ricerche nel sottosuolo della Val Padana. Mattei estrae metano a Cornegliano, Pontenure, Bordolano, Correggio e Ravella. Indice un concorso per il logo e sceglie il cane a sei zampe che sputa fuoco. Lo slogan “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote” è di Ettore Scola. Inventa le stazioni di servizio coi gabinetti, la pulitura vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici; dove non arrivano i metanodotti, porta il gas con le bombole; vende l’idrogeno derivato dal metano alle aziende di fertilizzanti, facendone crollare i prezzi del 70% e permettendo a chiunque di coltivare campi. Abbassa anche il prezzo della benzina, mettendo in crisi la Edison e la Montecatini. Nel 1952 fonda l’Eni (con vicepresidente sempre Boldrini) e trasforma la vita degli italiani.

Quando il petrolio di Cortemaggiore sta per finire, Mattei si rende conto che è ora di cercarlo all’estero. Nel dicembre del 1959 incontra a Montecarlo un rappresentante della Shell: gli propone di aprire insieme una raffineria in Tunisia, ma il rappresentate rifiuta: “Tratto coi petrolieri, non coi venditori”. È guerra aperta. Mattei finanzia Il Giorno, un quotidiano da cui diffonde le idee per una politica estera che si distingua da quella colonialista degli altri Paesi.
È una filosofia che prende il nome di “Neoatlantismo” e che alle sette sorelle non piace - perché ci vuol poco a capire che vincerà. Mattei offre ai Paesi produttori di diventare suoi partner e si impegna a estrarre solo il 50% del greggio. Non guarda il terzo mondo dall’alto in basso, ma come se si trattassero di pari - anche lui, una volta, era povero e ignorante. Offre tecnologia, borse di studio, addirittura scuole di formazione a Metanopoli, la città che ha fatto edificare in Val Padana. E non truffa mai, perché Mattei è un venditore e sa che gli accordi capestro all’inizio fruttano, ma poi non fanno che crearti nemici.

Nel 1957 ottiene l’autorizzazione a cercare petrolio in tre zone dell’Iran. Il dipartimento di Stato americano scrive che “Gli obiettivi di Mattei in Italia e all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”. L’anno successivo Mattei arriva anche in Giordania. Il 9 settembre 1960 nasce l’Organisation of Petroleum Exporting Countries, detta OPEC. Ne fanno parte Venezuela, Iraq, Iran, Kuwait, Arabia. Il suo sogno è un’unificazione mondiale del patrimonio energetico: ricreare un cartello, ma in maniera equa ed etica. Il mondo sta abbracciando la sua visione.

A Metanopoli ormai ci sono studenti provenienti da tutto il mondo. Nello stesso anno Mattei osa ciò che nemmeno le sette sorelle potevano prevedere: chiude un accordo con l’URSS per ottenere “quantitativo molto considerevole di petrolio”, grazie al quale copre il 25% del fabbisogno dell’Eni e a un prezzo mai visto prima. È il colpo definitivo al cartello delle sette sorelle. Il 12 novembre, sul New York Times, un articolo accusa lui di essere filosovietico e l’Italia “di non rispettare i patti del dopoguerra”, oltre ad aver compromesso “futuri equilibri politici”.

Nel 1962 Mattei muore, a bordo del suo aereo. L’inchiesta si chiude “nell’impossibilità di accertare le cause dell’incidente”. Ma non è un incidente. Qualcuno ha messo 100 grammi di esplosivo Compound-B nel cruscotto, perché detonasse all’attivazione del carrello: chi? Il regista Francesco Rosi decide di girare un film sulla vicenda e si avvale dell’aiuto del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro. Dopo alcune indagini, il reporter confessa a un collega di avere in mano “una roba grossa che farà tremare l’Italia”. Ed è per questo che viene neutralizzato. Non viene ucciso per strada com’è tipico degli omicidi mafiosi: viene sequestrato senza rivendicazioni, né richieste di riscatto. Anche le indagini sulla sparizione di De Mauro subiscono depistaggi.

Nel 1973 esce un libro chiamato Questo è Cefis - L’altra faccia dell’onorato presidente. Lo pubblica la AMI di Graziano Verzotto, uomo di Enrico Mattei e informatore di Mauro De Mauro. Il libro è scritto da un misterioso Giorgio Steimetz, sul cui vero nome ancora oggi si nutrono dubbi. Il libro subisce l’opera di censura più potente che si sia vista in epoca moderna. Viene ritirato da tutte le librerie, persino dalla Biblioteca Nazionale di Roma e da quella di Firenze - che per legge dovrebbero ricevere una copia di ogni libro stampato in Italia.

Dentro pare ci sia una biografia non autorizzata del presidente, che dopo la morte di Mattei è passato alla Montedison - frutto della fusione di Edison e Montecatini. Ma qualcuno riesce a leggere il libro, ed è Pier Paolo Pasolini. Quando viene assassinato nel 1975 sta scrivendo Petrolio: il personaggio di Cefis avrebbe il nome di Troya. Purtroppo il libro è incompleto, si arresta al capitolo “Lampi sull’Eni” di cui esisteva solo una nota, chiamata “appunto 21”.

(In appelloalpopolo.it)

 

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Una frase al giorno

“Sarebbe bello se avessimo, come Cuba, abbastanza medici anche per esportarli in altri paesi! È meglio di quello che fanno i paesi ricchi, come esportare soldati o lanciare bombe contro le comunità povere. Da parte sua, Cuba esporta vita, amore, salute”.

(Luiz Inácio Lula da Silva, politico brasiliano)
 

Luiz Inácio Lula da Silva, nato Luiz Inácio da Silva, e soprannominato Lula (Caetés, 6 ottobre 1945), è un politico ed ex sindacalista brasiliano. È stato il trentacinquesimo Presidente della Repubblica Federale del Brasile.

Dal 7 aprile 2018 all'8 novembre 2019 è stato detenuto a Curitiba, scontando la pena a 12 anni e un mese per corruzione e riciclaggio. Versando in stato di detenzione per una condanna penale, sia pure non ancora definitiva, gli è stato inibito di partecipare alla vita pubblica per tutta la durata della pena.
L'8 novembre 2019 è stato rilasciato dopo 580 giorni di prigionia: la decisione della Corte suprema, che lo riguarda, ha determinato che gli imputati di cui ancora non è stata accertata la colpevolezza possono rimanere in libertà fino alla decisione definitiva.

Silva: il cognome di Lula è Silva, il cognome più comune in Brasile. In portoghese, la particella da o de non è considerata parte del cognome, ma semplicemente una particella che lega il nome al cognome. Il cognome esatto è quindi Silva e non da Silva. Luiz Inácio da Silva: questo è il nome completo di Lula, che ha usato dal 1945 al 1982.
Lula: questo è il suo soprannome dall'infanzia; è una ripetizione della consonante del suo nome Luiz e in portoghese significa anche calamaro. Lula è conosciuto con questo nome da quando, lavorando in un'industria metallurgica, è diventato uno dei sindacalisti principali della scena nazionale. È conosciuto con questo nome fin dagli albori della sua carriera politica.

Luiz Inácio Lula da Silva: è il nome completo per legge dal 1982. Nello stesso anno, candidatosi a governatore dello stato di San Paolo, Lula ha cambiato il suo nome legale, aggiungendo il soprannome, con cui era conosciuto in tutto il paese. Secondo le leggi elettorali brasiliane, si può solo usare il proprio nome legale per candidarsi a cariche pubbliche. Se si fosse candidato col nome Luiz Inácio, molti elettori non lo avrebbero riconosciuto.
I giornali brasiliani lo chiamano in maniera formale col suo nome per esteso (Luiz Inácio Lula da Silva), oppure in maniera meno formale con il solo soprannome (Lula).

Lula nacque da una famiglia povera e analfabeta a Caetés (una frazione del comune di Garanhuns fino al 1964) nello Stato brasiliano di Pernambuco. Allo stato civile, la sua data di nascita risulta essere il 6 ottobre 1945, anche se Lula preferisce utilizzare la data che ricordava sua madre, il 27 ottobre. Nelle aree rurali del Brasile, questa discrepanza nella data di nascita risultante nell'atto di stato civile è comune.
Subito dopo la nascita di Lula, suo padre si trasferì nella città costiera di Santos (nello Stato di San Paolo). La madre di Lula e i suoi otto figli lo raggiunsero nel 1952, dopo un difficoltoso viaggio di 13 giorni. Anche se il loro tenore di vita migliorò rispetto a Pernambuco, la loro vita era ancora molto difficile.

Lula ricevette poca educazione formale; infatti lasciò la scuola dopo la quarta elementare. La sua vita lavorativa cominciò a 12 anni, come lustrascarpe e venditore di strada. A 14 anni trovò il suo primo lavoro regolare in una fabbrica di lavorazione del rame. Quindi proseguì gli studi, e ricevette un diploma equivalente al conseguimento della scuola superiore.
Nel 1956 la sua famiglia si trasferì nella città di San Paolo, che offriva maggiori opportunità. Lula, sua madre e i suoi sette fratelli vissero in una piccola stanza nel retrobottega di un bar.

A 19 anni perse il mignolo della mano sinistra in un incidente, mentre lavorava come operatore di una pressa in una fabbrica di componenti automobilistici. È intorno a quel periodo che cominciò a interessarsi delle attività del sindacato, all'interno del quale ricoprì diversi importanti ruoli. La dittatura brasiliana si oppose fortemente alle attività del sindacato e, per reazione, la visione politica di Lula si indirizzò a sinistra.

Nel 1969 sposò Maria de Lourdes, che morì di parto, col loro bambino nel 1971. Nel 1974 si risposò, questa volta con Marisa Letícia Rocco Casa (italo-brasiliana), da cui ebbe tre bambini. Ebbe una figlia nata fuori dal matrimonio lo stesso anno, con Miriam Cordeiro.

Nel 1978 fu eletto presidente del sindacato dei lavoratori dell'acciaio (Sindicato dos Metalurgicos do ABC) di São Bernardo do Campo e Diadema, le città dove si trova la stragrande maggioranza delle industrie automobilistiche e componentistiche (tra cui Ford, Volkswagen, Mercedes-Benz e altre) e tra le aree più industrializzate del Paese. Prima di ciò, tuttavia, Lula aveva già ricoperto diversi ruoli nello stesso sindacato, ed è grazie a ciò che, nei primi anni Settanta, viaggiò negli Stati Uniti, proprio durante la dittatura militare del Brasile, per seguire un corso sui sindacati, sponsorizzato dall'AFL-CIO e da ICFTU-ORIT, l'organizzazione regionale per le Americhe dei sindacati anticomunisti della Confederazione Internazionale per il libero scambio. L'aver avuto stretti contatti con i sindacati nordamericani creò qualche imbarazzo a Lula quando intraprese vie più estremiste anni dopo. Verso la fine degli anni settanta, Lula collaborò in diverse attività dei principali sindacati, tra cui alcuni enormi scioperi. Fu incarcerato per un mese, ma fu rilasciato in seguito a proteste. Gli scioperi terminarono lasciando scontenti sia le forze sindacali sia le fazioni filo-governative.

Carriera politica. Il 10 febbraio 1980, nel pieno della dittatura militare, un gruppo di professori universitari, dirigenti sindacali e intellettuali, tra cui Lula e Chico Mendes, fondarono il Partido dos Trabalhadores (PT), ovvero Partito dei Lavoratori, un partito di sinistra e con idee progressiste.

Nel 1982 aggiunse il soprannome Lula al suo nome legale. Nel 1983 partecipò alla creazione dell'associazione sindacale Central Única dos Trabalhadores (CUT). Nel 1984 il PT e Lula parteciparono alla campagna politica Diretas Já, che chiedeva un voto popolare diretto per le successive elezioni presidenziali. Secondo la Costituzione brasiliana del 1967, i presidenti erano eletti dai due rami del Congresso in seduta comune, più dei rappresentanti di tutte le Legislazioni Statali, ma questo era largamente considerata una buffonata in quanto, dal colpo di Stato militare, solo ufficiali militari di alto livello (tutti generali in pensione), scelti dopo una consultazione militare interna, venivano "eletti". Come risultato della campagna politica e dopo anni di lotte civili, le elezioni del 1989 furono le prime a eleggere direttamente un presidente dopo 29 anni.

Lula si candidò a una carica pubblica per la prima volta nel 1982, come governatore dello Stato di San Paolo. Perse, ma aiutò il suo partito a ottenere un numero sufficiente di voti, tali da sopravvivere.
Nelle elezioni del 1986, Lula conquistò un seggio al Congresso brasiliano. Il Partido dos Trabalhadores partecipò alla redazione della Costituzione post-dittatoriale; riuscirono a ottenere forti garanzie costituzionali ai diritti dei lavoratori, ma non ottennero una redistribuzione delle aree agrarie. Nonostante avessero partecipato al suo sviluppo, Lula e il suo partito si rifiutarono di firmare la nuova Costituzione.

Nel 1989, quando era ancora deputato, Lula si candidò alla presidenza, come rappresentante del PT. Nonostante fosse molto apprezzato da una grossa fetta della società brasiliana, non piaceva agli imprenditori e ai banchieri. Di conseguenza, fu preso di mira dai media (famosissimo il dibattito presidenziale contro Collor, pesantemente censurato da Rede Globo), e penalizzato da alcuni brogli durante le elezioni: per esempio, mancarono improvvisamente sezioni di voto in quartieri prevalentemente poveri, dove Lula era ampiamente favorito. Tutto ciò contribuì notevolmente alla sua sconfitta. I ricchi brasiliani non si fidarono del PT soprattutto perché questo si dipingeva come il primo partito movimento della classe operaia organizzato dalla base: il PT era infatti formato da una blanda coalizione di gruppi di sindacalisti, attivisti della base, cattolici di sinistra, socialdemocratici di centro-sinistra e piccoli gruppi trotskisti. Al contrario, il Partito Laburista Brasiliano di Vargas era fondamentalmente una massiccia organizzazione costruita attorno ai vertici della burocrazia dei sindacati governativi.

Lula decise di non candidarsi nuovamente al seggio di deputato nel 1990, preferendo lavorare al miglioramento dell'organizzazione del PT nel Paese. Nel 1992 Lula partecipò alla campagna per deporre il presidente Fernando Collor de Mello, che lo aveva sconfitto nel 1989, dopo una serie di scandali legati a finanziamenti pubblici.

Fu nuovamente candidato alla presidenza nel 1994 e nel 1998. Nelle elezioni del 1994, Lula fronteggiò Fernando Henrique Cardoso, ex Ministro delle Finanze e responsabile per il piano real, che portò l'inflazione brasiliana sotto controllo, dopo decenni di crescita a due cifre. Forte di questo risultato, Cardoso vinse le elezioni al primo turno. Nel 1998, Cardoso si ripresentò, grazie al passaggio di un emendamento costituzionale che permetteva al presidente di ricandidarsi, e vinse nuovamente al primo turno.

Nella campagna elettorale del 2002, Lula abbandonò sia il suo abbigliamento informale sia il suo progetto di condizionare il pagamento dell'ingente debito estero a una verifica. Quest'ultimo punto aveva preoccupato molti economisti, imprenditori e banchieri, che temevano che anche solo un default parziale, congiunto al contemporaneo fallimento argentino, avrebbe avuto un effetto devastante sull'economia mondiale.

Lula divenne presidente dopo aver vinto il ballottaggio, nelle elezioni del 2002, contro il candidato di centro José Serra del Partito della Social Democrazia Brasiliana (PSDB). Lula fu eletto alle elezioni presidenziali il 27 ottobre 2002, al ballottaggio, con il 61% dei voti; ottenne 52,4 milioni di voti, ovvero il più alto numero di voti della recente storia democratica del Brasile. Assunse la carica il 1º gennaio 2003.Il suo vicepresidente, con cui fu eletto, era José Alencar, proveniente dal partito liberale brasiliano, e attualmente appartenente al Partito Repubblicano Brasiliano.

Il 29 ottobre 2006 Lula è riconfermato presidente, con oltre il 60% dei voti al ballottaggio, sconfiggendo il candidato del PSDB Geraldo Alckmin. Al primo turno si era fermato poco sopra il 48%, non riuscendo quindi a centrare subito la vittoria.

Dall'inizio della sua carriera politica fino a oggi, Lula ha cambiato alcune delle sue idee originali e ha moderato le sue posizioni. Invece dei drastici cambiamenti sociali che ha proposto in passato, il suo governo ha scelto una linea riformista, approvando la nuova legislazione sulla pensione, la tassa, il lavoro e la giustizia, e discutendo sulla riforma universitaria. Pochissime delle riforme proposte sono state effettivamente attuate durante il mandato di Lula. Alcune ali del Partito dei Lavoratori in disaccordo con la crescente moderazione messa in atto dalla fine degli anni ottanta hanno lasciato il partito per formare ali dissidenti come il Partito Socialismo e Libertà.

Lula ha posto i programmi sociali in cima alla sua agenda politica. Sin dall'inizio il suo programma principale era quello di sradicare la fame, seguendo la guida di progetti già messi in pratica dall'amministrazione Fernando Henrique Cardoso, ma ampliati dal nuovo programma Fome Zero ("Fame Zero").

(Leggi l'articolo completo in: wikipedia.org)

 

27 ottobre 2002: il sindacalista Luiz Inácio Lula da Silva è eletto presidente del Brasile.

 

Un brano musicale al giorno

Ferruccio Tagliavini canta "Che gelida manina" ne La bohème, di Giacomo Puccini.
 

TAGLIAVINI, Ferruccio. Nacque a Cavazzoli, frazione comunale di Reggio nell’Emilia, il 14 agosto 1913, da Erasmo e da Barbara Neviani, custodi e fattori di una dimora padronale con azienda agricola, i quali lo presentarono al fonte battesimale del capoluogo il 19 successivo.

Fu sovente affidato alle cure della nonna materna che, vedova, risiedeva nella nativa Barco di Bibbiano, luogo d’origine anche di Barbara, la quale vi si era sposata il 1° dicembre 1910 e vi aveva partorito la primogenita Evelina, detta Vellina il 10 dicembre 1911 (Archivio parrocchiale di Barco, Registri dei matrimoni e dei battesimi, ad annos). Successivamente la famiglia si trasferì a Reggio, dove il padre si mise a negoziare in vino e dove l’8 luglio 1924 venne alla luce la figlia Vittorina, detta Vittoria (Stato civile del Comune di Reggio nell’Emilia, Registri dei nati, a. 1924, ad vocem).

Fin dall’infanzia Ferruccio rivelò una spiccata attitudine al canto, che gli riuscì di gratificare esordendo in un’operetta per bambini rappresentata il 7 novembre 1925 al teatro Manzoni di Reggio: «Ricordiamo innanzitutto un sorprendente piccolo artista, il tenorino Ferruccio Tagliavini, che i compagni chiamano addirittura Caruso [...]. Ha cantato ed ha bissato la romanza dei Pagliacci con una facilità sorprendente. La voce di questo bimbo è eccezionale per estensione, per colore, per facilità di emissione [...]. Il pubblico lo ha acclamato entusiasticamente: è stato insomma il beniamino del pubblico stesso» (Giornale di Reggio, XII, 10 novembre 1925, n. 257, p. 4).

Alla fine degli anni Venti il ragazzo, desideroso di concorrere al modesto bilancio familiare e in attesa di progettare al meglio l’avvenire, alternava il lavoro allo studio: di giorno inserviente in un negozio di tessuti, di sera frequentava corsi di avviamento professionale per elettrotecnici, senza tuttavia trascurare il talento canoro, assecondato nelle cantorie delle chiese cittadine.
Nell’ottobre del 1927 entrò nella scuola di canto corale dell’Istituto musicale Achille Peri e dopo un triennio scelse quella di ‘bel canto’ del direttore Pietro Melloni, dal quale fu educato nel registro tenorile fino al 1934; in parallelo esercitava il mestiere di elettricista. Nel biennio 1935-36 si sottopose ai diciotto mesi di leva militare obbligatoria, undici dei quali come volontario in Africa orientale, dopodiché attese sia al lavoro nel settore elettrico, sia alle lezioni gratuite che con cadenza settimanale gli impartiva, in casa propria a Parma, Italo Brancucci, professore di canto nel locale conservatorio di musica.

Tagliavini ottenne una decisiva riuscita nel 1938: in gennaio superò a Ferrara l’eliminatoria regionale del II Concorso nazionale di canto promosso dall’Opera nazionale dopolavoro e in febbraio ne vinse a Firenze la prova finale, nonché l’ammissione a un corso di perfezionamento nel teatro Comunale, sotto l’egida del sovrintendente Mario Labroca e del celebre tenore Amedeo Bassi. A conclusione del corso il giovane conseguì su quel palcoscenico una clamorosa affermazione nella parte di Rodolfo in una recita della Bohème di Puccini, andata in scena il 27 ottobre. Se la stampa dedicò poca attenzione al solista promettente, ma sconosciuto, impresari e agenti ivi convenuti si affrettarono invece a ingaggiarlo. Nei due anni seguenti Tagliavini si impose in vari teatri italiani, tra i quali La Fenice di Venezia (Il campiello di Wolf-Ferrari, a fianco di Magda Olivero, direttore Antonio Guarnieri; Rigoletto), il Municipale di Reggio (La bohème; L’amico Fritz di Pietro Mascagni), di nuovo il Comunale di Firenze (Rigoletto; L’amico Fritz; Semiramide di Gioachino Rossini) e il Verdi di Trieste (I quatro rusteghi di Wolf-Ferrari, ancora con Olivero).

Nel marzo del 1939, avendo invitato Brancucci ad assistere a una sua prestazione reggiana, questi si negò sdegnosamente perché l’ex allievo andava vantando il solo discepolato con Bassi. Di carattere leale e generoso, Tagliavini si scusò con il docente di Parma e nel settembre del 1945 gli fece una visita riparatrice, altresì versandogli 10.000 lire a titolo compensativo per le pregresse lezioni gratuite (Costi, 2004, pp. 30, 197).

Nel 1940 incontrò Pia Tassinari, uno dei migliori soprani del momento: entrambi erano stati scritturati per L’amico Fritz ai primi di novembre al Politeama Garibaldi di Palermo; dell’opera mascagnana essi furono interpreti ideali, per ammissione dello stesso autore, che li volle dirigere nella storica incisione discografica del 1942, realizzata negli studi EIAR di Torino. La loro intesa artistica si trasformò altresì in unione affettiva, coronata dalle nozze celebrate a Roma il 30 aprile 1941, ma poi offuscata da varie trasgressioni coniugali del consorte.

Il raggio d’azione di Tagliavini si rivelò in crescita anche nei difficili anni del secondo conflitto mondiale, pervenendo a sedi prestigiose: il teatro dell’Opera di Roma (dove debuttò nel febbraio del 1941 con L’Arlesiana), la Städtische Oper di Berlino (aprile del 1941, con Falstaff, direttore Tullio Serafin), la Scala di Milano (gennaio del 1942, Il barbiere di Siviglia), lo Stadsschouwburg di Amsterdam (aprile del 1943, La bohème, con Tassinari).

Proprio in quegli anni l’artista pavesò la carriera di un nuovo vessillo, approdando anche alla recitazione cinematografica. Secondo un costume del tempo che mirava a trasformare i tenori popolari in divi della celluloide, Tagliavini esordì nel 1942 come simpatico ed estroverso protagonista del film Voglio vivere così, diretto da Mario Mattoli, in un intreccio ricco di sentimenti e canzoni di rapido coinvolgimento emotivo. Dopo sette titoli di buon riscontro al botteghino, tra i quali Il barbiere di Siviglia, 1946, di Mario Costa, egli chiuse nel 1958 l’esperienza del grande schermo con Vento di primavera di Giulio Del Torre e Arthur Maria Robenalt.

Tra il maggio del 1946 e il marzo del 1948 effettuò una lunga tournée nei maggiori teatri delle Americhe, dall’Argentina al Brasile al Messico; negli Stati Uniti fu a più riprese accolto con grandi onori, e dal 1947 al 1957 fu ospite frequente del Metropolitan di New York, dal quale si congedò nel febbraio e nel marzo del 1962 con La bohème e L’elisir d’amore. Di fatto, le sue prestazioni vocali raggiunsero negli anni Cinquanta l’acme artistico e la massima espansione geografica, come attestano le numerose registrazioni discografiche e le scritture nei principali teatri d’opera, in Italia, in Europa e nelle Americhe, ma anche in Estremo Oriente, in Giappone e in Australia (Costi, 2004, pp. 119-185, 207-225).

In almeno due allestimenti - La bohème del 1957 al Municipale di Reggio (per il primo centenario del teatro) e il Werther di Jules Massenet del 1958 al Sociale di Mantova - Tagliavini volle cimentarsi sia nel canto sia nella regìa, con impianti narrativi che rispettassero il primato della partitura nei confronti della messinscena, imponendo a se stesso e agli altri interpreti una presenza e una gestualità esenti da ogni forma di enfasi, perché appunto subordinate al dettato della musica.

A partire dalla metà degli anni Sessanta iniziò per l’artista un luminoso crepuscolo, vieppiù rapido nel campo degli spettacoli d’opera (addio alle scene nel luglio del 1970 con L’elisir d’amore all’Anfiteatro di Benevento), ma di lungo indugio in quello concertistico (con un recital conclusivo al Lincoln Center di New York il 28 ottobre 1984).

Separatosi nel 1968 da Pia Tassinari, nel 1970 aveva instaurato una relazione affettiva con il soprano Isabella Stramaglia (nata a Taranto il 12 aprile 1944), allietata dai natali della figlia Barbara (a Carpi il 7 marzo 1974) e regolarizzata con il matrimonio celebrato a Reggio il 1° agosto 1992.

Morì a Reggio il 28 gennaio 1995.

(Leggi tutto l'articolo di Sauro Rodolfi - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 94, 2019, in www.treccani.it)
 

27 ottobre 1938: il tenore Ferruccio Tagliavini debutta al Comunale di Firenze nei panni di Rodolfo ne La bohème.

Direttore Gabriele Santini, 1952
Orchestra - RAI Torino
Coro - RAI Torino

Rodolfo - Ferruccio Tagliavini
Schaunard - Pier Luigi Latinucci
Marcello - Giuseppe Taddei
Colline - Cesare Siepi
Mimi - Rosanna Carteri
Musetta - Elvina Ramella
Benoit - Mario Zorgniotti
Alcindoro - Mario Zorgniotti
Parpignol - Armando Benzi
Sergente dei doganieri - Piero Poldi

 


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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