“L’amico del popolo”, 5 gennaio 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

HYÈNES (Iene, Senegal, Svizzera, Francia, 1992) scritto e diretto da Djibril Diop Mambéty, basato sull'opera teatrale La visita della vecchia signora (Der Besuch der alten Dame) di Friedrich Dürrenmatt. Fotografia: Matthias Kälin. Montaggio: Loredana Cristelli. Musica: Wasis Diop. Con: Mansour Diouf, Ami Diakhate', Kaoru Egushi, Djibril Diop Mambety, Makhouredia Gueye, Issa Ramagelissa Samb.

La protagonista Linguère, una vecchia signora diventata ormai ricchissima, ritorna dopo molti anni a Colobane, suo paese di origine. Il villaggio, in preda alla povertà più assoluta, accoglie Linguère sperando di ricevere beni e favori per migliorare la propria situazione. Per incoraggiare la sua generosità, affidano a Dramaan, un droghiere locale che una volta aveva corteggiato (e ingannato) la donna, l'incarico di convincerla ad aiutare la popolazione. Linguère, in realtà, è tornata con l'intenzione di condividere la sue ricchezze con il villaggio, ma solo in cambio di una particolare richiesta ai suoi concittadini: l'uccisione di Dramaan. Il desiderio di vendetta e giustizia di Linguère porta gli abitanti di Colobane a compiere azioni ciniche e folli, senza più possibilità di controllo.

“Realizzato in coproduzione fra Svizzera, Francia e Senegal, Hyènes ha la particolarità di essere uno dei rari adattamenti di registi dell’area sub sahariana da romanzi non africani. La fonte è Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora), dramma scritto nel 1956 - in Italia lo pubblica Einaudi - dallo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, morto appena due anni prima dall’uscita del film e a cui Hyènes stesso è dedicato: Mambety ne mutua soggetto e intreccio, trasponendolo dalla Svizzera degli anni ’50 a un immaginario paese del Sahel negli anni ’80. L’ambientazione è volutamente vaga: la cittadina Colobane altro non è che il quartiere di Dakar dov’è nato Mambety e anche sull’ancoraggio cronologico il regista ha volutamente mescolato le carte. (All’inizio del film si dice che la protagonista torna dopo trent’anni di esilio; nella sequenza dell’accoglienza alla vecchia signora, l’antico giudice ricorda di aver lui stesso emesso la sentenza all’origine dell’esilio nel 1945, quindi dovremmo datare l’azione al 1975, ma nel film si cita più volte il Burkina Faso, che nel 1975 si chiamava ancora Alto Volta e avrebbe assunto questo nome solo nove anni dopo...) L’azione si apre nell’emporio di Draman Drameh (Mansour Diouf), un attempato ma ancora vivace notabile della cittadina di Colobane, un tempo ricca e prospera e ora ridotta in rovina. Agli avventori, perlopiù mendicanti, che frequentano il negozio, arriva da un banditore la notizia del grande ritorno di Linguère Ramatou (Ami Diakhaté), una concittadina fuggita trent’anni prima e ora divenuta multimiliardaria. Il sindaco e tutti i consiglieri le preparano un’accoglienza degna di una regina ma la donna, uscita anni addietro miracolosamente viva da un incidente aereo e ricoperta da protesi metalliche, gela subito gli astanti: tutti sanno che se ha dovuto lasciare il villaggio è perché era incinta di Draman e lui pagò due ubriaconi perché testimoniassero di aver avuto rapporti con lei, condannandola a una vita da prostituta d’alto bordo; Linguere è disposta a donare al villaggio cento miliardi ma chiede il cambio la vita di Drameh. Il sindaco reagisce con ostentata indignazione alla richiesta della donna ma l’indomani l’emporio di Draman trabocca di compratori a credito e tutti in città cominciano ad esibire vestiti nuovi e sembrano presi dalla smania di comprare elettrodomestici e beni di lusso. Draman si sente sempre più accerchiato. Il sindaco e il prete cercano di convincerlo a lasciare il paese in treno o magari ad uccidersi ma l’uomo decide di andare incontro al proprio destino, mentre Linguere assiste con un sorriso amaro al sorgere del regno delle iene su quella che un tempo era Colobane. L’operetta morale di Dürrenmatt diventa nelle mani di Mambety un apologo feroce e tristemente profetico sull’Africa nei tempi della globalizzazione, un continente stretto nella morsa dei prestiti della Banca Mondiale e delle speculazioni finanziarie, in mano a una classe dirigente avida e corrotta, che spesso ha svenduto beni e servizi primari ai privati, compromettendo la qualità della vita degli abitanti e il futuro dei suoi giovani. Memore degli insegnamenti di Lumumba, Nkrumah e Sankara, Mambety usa il plot dello svizzero per disegnare con il suo bisturi i contorni dell’apocalisse imminente, ma lo fa senza rinunciare all’amore, potremmo dire quasi felliniano, per i suoi personaggi, spesso usciti dalla sua vita vissuta e affidati a volti e corpi incastonati nel quotidiano dei quartieri poveri di Dakar, dove passava il più del suo tempo - come Linguere, interpretata da una venditrice al mercato. Nessuno di loro viene mai reificato e ridotto a una funzione narrativa o simbolica, a partire dalla stessa Ramatou, implacabile nella sua fragilità di donna tradita, ma ancora disposta a proiettarsi in una vita oltre la morte, da condividere con l’amato Draman. Come l’eroina ancipite di Touki bouki (una giovane anticonformista disposta a tutto pur di raggiungere quell’angolo di paradiso che è Parigi), Ramatou è emblema di un’Africa tradita dalla tradizione, svenduta al miglior offerente, ma che alla fine presenta il conto a chi ne ha fatto mercimonio, e vuole essere ripagata trasformando tutto intorno a sé in un immenso bordello. Visionaria e apocalittica parabola, Hyènes, presentato in concorso a Cannes nel 1992, ci restituisce un Mambety più riflessivo e quasi epico, lontano dalle scansioni narrative anarchiche e dalle accensioni liriche di Touki bouki, ma straordinariamente abile nel valorizzare spazi e corpi - i costumi sono della grande stilista Oumou Sy - e nel dare una dimensione tragicamente coreutica alla massa dei piccoli personaggi che affollano l’azione: anche la scrittura appare più controllata, giocata com’è nella dialettica ricorrente fra campi medi e lunghissimi, e la sintassi - il montaggio è firmato da Loredana Cristelli - meno ellittica e più discorsiva. Il commento sonoro, mai piegato a facili sottolineature espressive, straniante e talvolta ipnotico, è firmato dal fratello Wasis Diop, autore di numerosi soundtrack del nuovo cinema africano (Samba traoré, Ndeysaan, Daratt) e non solo, a cui sono dedicati due degli extra e parte del booklet. Ancora dunque un must assoluto da Rarovideo, benché Hyènes fosse già presente sul mercato, sia negli States che in Europa”.

(Leonardo De Franceschi in www.cinemafrica.org)

HYÈNES (Iene, Senegal, Svizzera, Francia, 1992) scritto e diretto da Djibril Diop Mambéty

Intervista a Djibril Diop Mambéty di Rachel Rawlins.

Nell’intervista, realizzata nel 1993 da Rachel Rawlins durante il Southern African Film Festival, il regista parla di sé ed esprime con forza e semplicità i suoi pensieri sul cinema, sull’Africa, sulla società contemporanea.

D. Mambéty: Mi chiamo Djibril. Il mio nome è Djibril, cioè Gabriele, come l’angelo. Se devo descrivere me stesso posso dire che io sono la storia di un sogno.Tutta la mia vita è un sogno, anche i miei amici sono un sogno.

Lei ha detto che Hyènes rappresenta la Banca Mondiale.

D. Mambéty: Sì, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale che si comportano allo stesso modo con i poveri, il Sud del mondo. Essi dicono agli africani “Sappiamo che siete poveri, ma avete troppe persone che lavorano e non avete denaro sufficiente per pagarle; dunque dovete ucciderne un po’. Dovete risanare la vostra economia. Prima eliminate il numero sufficiente di persone e poi noi vi daremo il danaro”.

Dunque lei crede che gli africani abbiano accettato e che essi stessi stiano uccidendo il proprio popolo per avere il denaro della Banca Mondiale?

D. Mambéty: Sì, è matematico. Uccidi e il denaro arriverà. All’inizio del film e alla fine ci sono scene di elefanti che non appaiono in nessun’altra scena del film.

Che cosa significa?

D. Mambéty: Ci sono elefanti che vanno col vento. Essi sono il tempo. Sono la vita che va avanti, e fra gli elefanti all’inizio e gli elefanti alla fine c’è il regno delle iene. La iena è un animale terribile. È capace di seguire il leone, un leone malato per tutta una stagione. E negli ultimi giorni di vita del leone la iena arriva, gli zompa addosso e se lo mangia, mangia il leone tranquillamente. Così è la Banca Mondiale. Sanno che noi siamo poveri e malati e ci resta un po’ di dignità. Ma loro possono aspettare, aspettare fino all’ultimo quando dirai “ok”, adesso so che la mia dignità è solo il cibo. Voglio sopravvivere. Per favore prendetevi la mia dignità e uccidetemi con il vostro denaro.

Spera che i suoi spettatori imparino qualcosa? È in qualche modo un film didattico? Vuole cambiare qualcosa con il suo film?

D. Mambéty: La mia ultima speranza è che i miei figli diventino elefanti e non iene. Un film per me dovrebbe essere una bomba, una bomba di emozioni come un’onda, non un piacere per dimenticare la realtà, ma una gioia per aprire i propri sogni verso la realtà.

Crede che il cinema africano sia diverso dal cinema di Hollywood? Che abbia qualcosa da offrire in particolare?

D. Mambéty: Sono sicuro che i film maker africani sono in grado di reiventare il cinema. Il cinema è un’invenzione giovane, è nato nel 1895 e il primo centenario sarà nel 1995. L’Africa può riscoprire quel momento di invenzione del cinema. Gli uccelli sanno com’è Dio, perché sono più vicini a Dio delle iene. Sono come una specie di elefanti le cui ali volano nel vento, e i film maker africani possono essere uccelli che reinventano la settima arte. Noi siamo poveri di danaro, ma ricchi di vita e speranza.

Perché ha abbandonato il teatro per il cinema per esprimere i suoi sogni?

D. Mambéty: Il cinema può raggiungere più persone del teatro. Io preferisco fare teatro al fare film, ma ho perso il mio teatro molti anni fa, nel 1968, quando ho lasciato il teatro nazionale per fare Contrast City, il mio primo film. Da allora non ho girato molti film: devo aspettare quando il sogno è pronto per essere portato alla luce. Aspetto quel momento, il momento del mio sogno di vita, del sogno di vita degli altri...”

  • Il film: Hyènes, 1992, di Djibril D. Mambety

 

Una poesia al giorno

Il Testamento, di François Villon (vero nome François de Montcorbier o François de Loges, fu un poeta francese, nasce a Parigi l’8 aprile 1431 o 1432, muore dopo l'8 gennaio 1463: il 5 gennaio 1463 François Villon viene bandito da Parigi e da quel momento non si hanno notizie certe sulla sua vita).

Son peccatore, io lo so bene;
però Iddio non vuol la mia morte,
ma che mi penta e viva al bene,
ché al peccato Egli non morde.
Benché in peccato io sia morto,
Dio vive, e la sua misericordia,
se la coscienza mi rimorde,
con la grazia perdon m’accorda.

Rimpiango il tempo di giovinezza,
(quando menai vita sfrenata
fino all’arrivo di vecchiezza);
la sua partenza me l’ha celata.
A piedi, certo, non se n’è andata,
né a cavallo: ahimè, dunque, come?
Subito via se n’è volata
senza lasciarmi almeno un dono.

Se n’è andata, ed io rimango,
privo di senno e sentimento,
ridotto nero, triste, stanco,
e non ho averi, rendite, censo;
l’ultimo, udite!, del parentado
per disconoscermi già s’avanza,
negando il sangue cui è legato
perché mi manca un po’ di sostanza.

Ma non rimpiango d’aver sprecato
per vivande succose e rare;
per troppo amare nulla ho via dato
che amici possan rimproverare,
o nulla ad essi costato caro.

Lo dico, e non sbaglio a dirlo;
dall’accusa mi so salvare:
chi non ha colpa non deve dirlo.
È ben vero che ho amato,
e seguirei ancora mie voglie;
ma triste cuore, ventre affamato
che per un terzo non è saziato,
dai sentieri d’amor mi toglie.
Dopo tutto, via, se ne avanzi
chi è pasciuto corno la bótte!

 

Un fatto al giorno

5 gennaio 1942: muore Tina Modotti, fotografa, modella, attrice e attivista italiana (nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942).

Dopo l'improvvisa scomparsa, il riconoscimento della personalità umana, artistica e politica di Tina Modotti fu quasi immediato e per alcuni anni la sua vita e la sua opera restarono vive in buona parte dell'America latina. Poi cadde l'oblio, lungo di almeno trent'anni. Inquietanti cause di questo silenzio/rifiuto si possono trovare nel mondo reazionario, nel provincialismo, nel dilagante moralismo di questo secolo, contrari alla valorizzazione di una donna libera e inserita nel grande filone della cultura laica. L'opera di Tina, che si trova in buona parte negli Stati Uniti, venne tenuta nascosta nei cassetti dei Dipartimenti di fotografia per la nefasta influenza del maccartismo che rese impossibile, per molti anni e non solo in America, lo studio e la presentazione di un'artista che aveva creato immagini di qualità e militato nel movimento comunista internazionale. Anche la Sinistra storica non è esente da disattenzioni nei riguardi di questa friulana d'eccezione. Oggi sappiamo che non esiste un artista di qualità e un militante di valore, come Tina Modotti, che sia stato trascurato per così lungo tempo dagli storici della fotografia e dalla storiografia politica. Tutto ciò è avvenuto nonostante le novità e il fascino che caratterizzano la sua avventura umana: la sua complessa esistenza appare, con il solo raccontarla, un romanzo. Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice. Diventa emigrante all'età di soli due anni, quando la famiglia si trasferisce nella vicina Austria per lavoro. Nel 1905 rientrano a Udine e Tina frequenta con ottimo profitto le prime classi della scuola elementare. A dodici anni, per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia (sono in sei fratelli), lavora come operaia in una filanda. Apprende elementi di fotografia frequentando lo studio dello zio Pietro Modotti. Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, dove lavora in una fabbrica tessile e fa la sarta, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy. Durante una visita all'Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del'Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l'arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d'incontro per artisti e intellettuali liberal. Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger's Coat, per la regia di Roy Clement e, in seguito, alcune parti secondarie in altri due film, Riding with Death e I can explain. Si tratta di una esperienza deludente, che decide di abbandonare per la natura troppo commerciale di quanto il cinema propone. Per la sua bellezza ed espressività viene ripresa in diverse occasioni dai fotografi Jane Reece, Johan Hagemayer e, soprattutto da Edward Weston con cui ben presto nascerà un legame sentimentale. Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo l'affascinerà. Rientra a San Francisco per l'improvvisa morte del padre Giuseppe. Alla fine dell'anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che verrà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo. A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston (con il figlio Chandler) arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano. A contatto con la capacità e l'esperienza di Weston, Tina accelera l'apprendimento della fotografia e in breve tempo conquista autonomia espressiva; alla fine del 1924 un'esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato. Fra il 1925 e il 1926, in tempi brevi e diversi, tornano a San Francisco, dove Tina incontra la madre ammalata, conosce la fotografa Dorothea Lange, acquista una camera Graflex. Rientrati in Messico intraprendono un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali a raccogliere immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars. Il loro legame affettivo si deteriora e Weston torna definitivamente in California; i contatti continueranno per alcuni anni in forma epistolare. Tina vive con la fotografia ed esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato "Manos fuera de Nicaragua" e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern...”

(Articolo completo in www.comitatotinamodotti.it)

 

Una frase al giorno

“La lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette.”

(Da “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Samuel Barclay Beckett, nato a Dublino, 13 aprile 1906, morto a Parigi, 22 dicembre 1989, è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese. Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo”).

5 gennaio 1953: “Aspettando Godot” di Samuel Beckett viene eseguita per la prima volta. “Dramma associato al cosiddetto teatro dell'assurdo e costruito intorno alla condizione dell'attesa, Aspettando Godot venne scritto verso la fine degli anni quaranta e pubblicato in lingua francese nel 1952, cioè dopo la seconda guerra mondiale, in un'epoca post-atomica. La prima rappresentazione si tenne a Parigi nel 1953 al Théâtre de Babylone sotto la regia di Roger Blin, che per l'occasione rivestì anche il ruolo di Pozzo. Nel 1954, Beckett - autore irlandese di nascita - tradusse l'opera in inglese”.

(Wikipedia)

“Aspettando Godot è senza dubbio la più celebre opera teatrale di Samuel Beckett nonché uno dei testi più noti del teatro del Novecento. Parlarne, dunque, è molto difficile. Pressoché impossibile dire qualcosa di nuovo, considerata la quantità di pagine critiche che sono già state prodotte intorno a questa opera. Non resta quindi che tracciare una sintesi critica, consapevoli che non si innoverà il corpus interpretativo già esistente, ma con la speranza, almeno, di mettere in guardia contro le più facili (e spesso erronee) chiavi di lettura. Se chiedete ad una persona digiuna di teatro che cosa è Aspettando Godot è molto probabile che otteniate comunque una qualche risposta. Vi verrà detto che è la storia di qualcuno che alla fine non arriva. La prima trovata scandalosa del capolavoro beckettiano è questa: il protagonista è assente. Ma si tratta di una trovata, appunto (geniale, però, tanto che anche chi non ama il teatro ricorda questo particolare). Se l’idea fosse stata tutta qui, tuttavia, Aspettando Godot non avrebbe fatto molta strada. La seconda cosa che probabilmente vi dirà questa persona interrogata su Godot è che si tratta di un’opera che fa parte del teatro dell’assurdo. Vero. Ma cosa c’è di così assurdo in Aspettando Godot?”

(www.samuelbeckett.it)

Immagini:

 

Un brano musicale al giorno

Marcel Tournier (1879 - 1951), Suite, Op.34 (1928), eseguita da Mirage Quartet


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

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