“L’amico del popolo”, 5 gennaio 2018

L'amico del popolo
Grandezza Carattere

L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

HYÈNES (Iene, Senegal, Svizzera, Francia, 1992) scritto e diretto da Djibril Diop Mambéty, basato sull'opera teatrale La visita della vecchia signora (Der Besuch der alten Dame) di Friedrich Dürrenmatt. Fotografia: Matthias Kälin. Montaggio: Loredana Cristelli. Musica: Wasis Diop. Con: Mansour Diouf, Ami Diakhate', Kaoru Egushi, Djibril Diop Mambety, Makhouredia Gueye, Issa Ramagelissa Samb.

La protagonista Linguère, una vecchia signora diventata ormai ricchissima, ritorna dopo molti anni a Colobane, suo paese di origine. Il villaggio, in preda alla povertà più assoluta, accoglie Linguère sperando di ricevere beni e favori per migliorare la propria situazione. Per incoraggiare la sua generosità, affidano a Dramaan, un droghiere locale che una volta aveva corteggiato (e ingannato) la donna, l'incarico di convincerla ad aiutare la popolazione. Linguère, in realtà, è tornata con l'intenzione di condividere la sue ricchezze con il villaggio, ma solo in cambio di una particolare richiesta ai suoi concittadini: l'uccisione di Dramaan. Il desiderio di vendetta e giustizia di Linguère porta gli abitanti di Colobane a compiere azioni ciniche e folli, senza più possibilità di controllo.

“Realizzato in coproduzione fra Svizzera, Francia e Senegal, Hyènes ha la particolarità di essere uno dei rari adattamenti di registi dell’area sub sahariana da romanzi non africani. La fonte è Der Besuch der alten Dame (La visita della vecchia signora), dramma scritto nel 1956 - in Italia lo pubblica Einaudi - dallo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, morto appena due anni prima dall’uscita del film e a cui Hyènes stesso è dedicato: Mambety ne mutua soggetto e intreccio, trasponendolo dalla Svizzera degli anni ’50 a un immaginario paese del Sahel negli anni ’80. L’ambientazione è volutamente vaga: la cittadina Colobane altro non è che il quartiere di Dakar dov’è nato Mambety e anche sull’ancoraggio cronologico il regista ha volutamente mescolato le carte. (All’inizio del film si dice che la protagonista torna dopo trent’anni di esilio; nella sequenza dell’accoglienza alla vecchia signora, l’antico giudice ricorda di aver lui stesso emesso la sentenza all’origine dell’esilio nel 1945, quindi dovremmo datare l’azione al 1975, ma nel film si cita più volte il Burkina Faso, che nel 1975 si chiamava ancora Alto Volta e avrebbe assunto questo nome solo nove anni dopo...) L’azione si apre nell’emporio di Draman Drameh (Mansour Diouf), un attempato ma ancora vivace notabile della cittadina di Colobane, un tempo ricca e prospera e ora ridotta in rovina. Agli avventori, perlopiù mendicanti, che frequentano il negozio, arriva da un banditore la notizia del grande ritorno di Linguère Ramatou (Ami Diakhaté), una concittadina fuggita trent’anni prima e ora divenuta multimiliardaria. Il sindaco e tutti i consiglieri le preparano un’accoglienza degna di una regina ma la donna, uscita anni addietro miracolosamente viva da un incidente aereo e ricoperta da protesi metalliche, gela subito gli astanti: tutti sanno che se ha dovuto lasciare il villaggio è perché era incinta di Draman e lui pagò due ubriaconi perché testimoniassero di aver avuto rapporti con lei, condannandola a una vita da prostituta d’alto bordo; Linguere è disposta a donare al villaggio cento miliardi ma chiede il cambio la vita di Drameh. Il sindaco reagisce con ostentata indignazione alla richiesta della donna ma l’indomani l’emporio di Draman trabocca di compratori a credito e tutti in città cominciano ad esibire vestiti nuovi e sembrano presi dalla smania di comprare elettrodomestici e beni di lusso. Draman si sente sempre più accerchiato. Il sindaco e il prete cercano di convincerlo a lasciare il paese in treno o magari ad uccidersi ma l’uomo decide di andare incontro al proprio destino, mentre Linguere assiste con un sorriso amaro al sorgere del regno delle iene su quella che un tempo era Colobane. L’operetta morale di Dürrenmatt diventa nelle mani di Mambety un apologo feroce e tristemente profetico sull’Africa nei tempi della globalizzazione, un continente stretto nella morsa dei prestiti della Banca Mondiale e delle speculazioni finanziarie, in mano a una classe dirigente avida e corrotta, che spesso ha svenduto beni e servizi primari ai privati, compromettendo la qualità della vita degli abitanti e il futuro dei suoi giovani. Memore degli insegnamenti di Lumumba, Nkrumah e Sankara, Mambety usa il plot dello svizzero per disegnare con il suo bisturi i contorni dell’apocalisse imminente, ma lo fa senza rinunciare all’amore, potremmo dire quasi felliniano, per i suoi personaggi, spesso usciti dalla sua vita vissuta e affidati a volti e corpi incastonati nel quotidiano dei quartieri poveri di Dakar, dove passava il più del suo tempo - come Linguere, interpretata da una venditrice al mercato. Nessuno di loro viene mai reificato e ridotto a una funzione narrativa o simbolica, a partire dalla stessa Ramatou, implacabile nella sua fragilità di donna tradita, ma ancora disposta a proiettarsi in una vita oltre la morte, da condividere con l’amato Draman. Come l’eroina ancipite di Touki bouki (una giovane anticonformista disposta a tutto pur di raggiungere quell’angolo di paradiso che è Parigi), Ramatou è emblema di un’Africa tradita dalla tradizione, svenduta al miglior offerente, ma che alla fine presenta il conto a chi ne ha fatto mercimonio, e vuole essere ripagata trasformando tutto intorno a sé in un immenso bordello. Visionaria e apocalittica parabola, Hyènes, presentato in concorso a Cannes nel 1992, ci restituisce un Mambety più riflessivo e quasi epico, lontano dalle scansioni narrative anarchiche e dalle accensioni liriche di Touki bouki, ma straordinariamente abile nel valorizzare spazi e corpi - i costumi sono della grande stilista Oumou Sy - e nel dare una dimensione tragicamente coreutica alla massa dei piccoli personaggi che affollano l’azione: anche la scrittura appare più controllata, giocata com’è nella dialettica ricorrente fra campi medi e lunghissimi, e la sintassi - il montaggio è firmato da Loredana Cristelli - meno ellittica e più discorsiva. Il commento sonoro, mai piegato a facili sottolineature espressive, straniante e talvolta ipnotico, è firmato dal fratello Wasis Diop, autore di numerosi soundtrack del nuovo cinema africano (Samba traoré, Ndeysaan, Daratt) e non solo, a cui sono dedicati due degli extra e parte del booklet. Ancora dunque un must assoluto da Rarovideo, benché Hyènes fosse già presente sul mercato, sia negli States che in Europa”.

(Leonardo De Franceschi in www.cinemafrica.org)

HYÈNES (Iene, Senegal, Svizzera, Francia, 1992) scritto e diretto da Djibril Diop Mambéty

Intervista a Djibril Diop Mambéty di Rachel Rawlins.

Nell’intervista, realizzata nel 1993 da Rachel Rawlins durante il Southern African Film Festival, il regista parla di sé ed esprime con forza e semplicità i suoi pensieri sul cinema, sull’Africa, sulla società contemporanea.

D. Mambéty: Mi chiamo Djibril. Il mio nome è Djibril, cioè Gabriele, come l’angelo. Se devo descrivere me stesso posso dire che io sono la storia di un sogno.Tutta la mia vita è un sogno, anche i miei amici sono un sogno.

Lei ha detto che Hyènes rappresenta la Banca Mondiale.

D. Mambéty: Sì, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale che si comportano allo stesso modo con i poveri, il Sud del mondo. Essi dicono agli africani “Sappiamo che siete poveri, ma avete troppe persone che lavorano e non avete denaro sufficiente per pagarle; dunque dovete ucciderne un po’. Dovete risanare la vostra economia. Prima eliminate il numero sufficiente di persone e poi noi vi daremo il danaro”.

Dunque lei crede che gli africani abbiano accettato e che essi stessi stiano uccidendo il proprio popolo per avere il denaro della Banca Mondiale?

D. Mambéty: Sì, è matematico. Uccidi e il denaro arriverà. All’inizio del film e alla fine ci sono scene di elefanti che non appaiono in nessun’altra scena del film.

Che cosa significa?

D. Mambéty: Ci sono elefanti che vanno col vento. Essi sono il tempo. Sono la vita che va avanti, e fra gli elefanti all’inizio e gli elefanti alla fine c’è il regno delle iene. La iena è un animale terribile. È capace di seguire il leone, un leone malato per tutta una stagione. E negli ultimi giorni di vita del leone la iena arriva, gli zompa addosso e se lo mangia, mangia il leone tranquillamente. Così è la Banca Mondiale. Sanno che noi siamo poveri e malati e ci resta un po’ di dignità. Ma loro possono aspettare, aspettare fino all’ultimo quando dirai “ok”, adesso so che la mia dignità è solo il cibo. Voglio sopravvivere. Per favore prendetevi la mia dignità e uccidetemi con il vostro denaro.

Spera che i suoi spettatori imparino qualcosa? È in qualche modo un film didattico? Vuole cambiare qualcosa con il suo film?

D. Mambéty: La mia ultima speranza è che i miei figli diventino elefanti e non iene. Un film per me dovrebbe essere una bomba, una bomba di emozioni come un’onda, non un piacere per dimenticare la realtà, ma una gioia per aprire i propri sogni verso la realtà.

Crede che il cinema africano sia diverso dal cinema di Hollywood? Che abbia qualcosa da offrire in particolare?

D. Mambéty: Sono sicuro che i film maker africani sono in grado di reiventare il cinema. Il cinema è un’invenzione giovane, è nato nel 1895 e il primo centenario sarà nel 1995. L’Africa può riscoprire quel momento di invenzione del cinema. Gli uccelli sanno com’è Dio, perché sono più vicini a Dio delle iene. Sono come una specie di elefanti le cui ali volano nel vento, e i film maker africani possono essere uccelli che reinventano la settima arte. Noi siamo poveri di danaro, ma ricchi di vita e speranza.

Perché ha abbandonato il teatro per il cinema per esprimere i suoi sogni?

D. Mambéty: Il cinema può raggiungere più persone del teatro. Io preferisco fare teatro al fare film, ma ho perso il mio teatro molti anni fa, nel 1968, quando ho lasciato il teatro nazionale per fare Contrast City, il mio primo film. Da allora non ho girato molti film: devo aspettare quando il sogno è pronto per essere portato alla luce. Aspetto quel momento, il momento del mio sogno di vita, del sogno di vita degli altri...”

  • Il film: Hyènes, 1992, di Djibril D. Mambety

HYÈNES (Iene, Senegal, Svizzera, Francia, 1992) scritto e diretto da Djibril Diop Mambéty

 

Una poesia al giorno

Il Testamento, di François Villon (vero nome François de Montcorbier o François de Loges, fu un poeta francese, nasce a Parigi l’8 aprile 1431 o 1432, muore dopo l'8 gennaio 1463: il 5 gennaio 1463 François Villon viene bandito da Parigi e da quel momento non si hanno notizie certe sulla sua vita).

Son peccatore, io lo so bene;
però Iddio non vuol la mia morte,
ma che mi penta e viva al bene,
ché al peccato Egli non morde.
Benché in peccato io sia morto,
Dio vive, e la sua misericordia,
se la coscienza mi rimorde,
con la grazia perdon m’accorda.

Rimpiango il tempo di giovinezza,
(quando menai vita sfrenata
fino all’arrivo di vecchiezza);
la sua partenza me l’ha celata.
A piedi, certo, non se n’è andata,
né a cavallo: ahimè, dunque, come?
Subito via se n’è volata
senza lasciarmi almeno un dono.

Se n’è andata, ed io rimango,
privo di senno e sentimento,
ridotto nero, triste, stanco,
e non ho averi, rendite, censo;
l’ultimo, udite!, del parentado
per disconoscermi già s’avanza,
negando il sangue cui è legato
perché mi manca un po’ di sostanza.

Ma non rimpiango d’aver sprecato
per vivande succose e rare;
per troppo amare nulla ho via dato
che amici possan rimproverare,
o nulla ad essi costato caro.

Lo dico, e non sbaglio a dirlo;
dall’accusa mi so salvare:
chi non ha colpa non deve dirlo.
È ben vero che ho amato,
e seguirei ancora mie voglie;
ma triste cuore, ventre affamato
che per un terzo non è saziato,
dai sentieri d’amor mi toglie.
Dopo tutto, via, se ne avanzi
chi è pasciuto corno la bótte!

François Villon

 

Un fatto al giorno

5 gennaio 1942: muore Tina Modotti, fotografa, modella, attrice e attivista italiana (nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942).

Dopo l'improvvisa scomparsa, il riconoscimento della personalità umana, artistica e politica di Tina Modotti fu quasi immediato e per alcuni anni la sua vita e la sua opera restarono vive in buona parte dell'America latina. Poi cadde l'oblio, lungo di almeno trent'anni. Inquietanti cause di questo silenzio/rifiuto si possono trovare nel mondo reazionario, nel provincialismo, nel dilagante moralismo di questo secolo, contrari alla valorizzazione di una donna libera e inserita nel grande filone della cultura laica. L'opera di Tina, che si trova in buona parte negli Stati Uniti, venne tenuta nascosta nei cassetti dei Dipartimenti di fotografia per la nefasta influenza del maccartismo che rese impossibile, per molti anni e non solo in America, lo studio e la presentazione di un'artista che aveva creato immagini di qualità e militato nel movimento comunista internazionale. Anche la Sinistra storica non è esente da disattenzioni nei riguardi di questa friulana d'eccezione. Oggi sappiamo che non esiste un artista di qualità e un militante di valore, come Tina Modotti, che sia stato trascurato per così lungo tempo dagli storici della fotografia e dalla storiografia politica. Tutto ciò è avvenuto nonostante le novità e il fascino che caratterizzano la sua avventura umana: la sua complessa esistenza appare, con il solo raccontarla, un romanzo. Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice. Diventa emigrante all'età di soli due anni, quando la famiglia si trasferisce nella vicina Austria per lavoro. Nel 1905 rientrano a Udine e Tina frequenta con ottimo profitto le prime classi della scuola elementare. A dodici anni, per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia (sono in sei fratelli), lavora come operaia in una filanda. Apprende elementi di fotografia frequentando lo studio dello zio Pietro Modotti. Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, dove lavora in una fabbrica tessile e fa la sarta, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy. Durante una visita all'Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del'Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l'arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d'incontro per artisti e intellettuali liberal. Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger's Coat, per la regia di Roy Clement e, in seguito, alcune parti secondarie in altri due film, Riding with Death e I can explain. Si tratta di una esperienza deludente, che decide di abbandonare per la natura troppo commerciale di quanto il cinema propone. Per la sua bellezza ed espressività viene ripresa in diverse occasioni dai fotografi Jane Reece, Johan Hagemayer e, soprattutto da Edward Weston con cui ben presto nascerà un legame sentimentale. Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo l'affascinerà. Rientra a San Francisco per l'improvvisa morte del padre Giuseppe. Alla fine dell'anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che verrà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo. A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston (con il figlio Chandler) arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano. A contatto con la capacità e l'esperienza di Weston, Tina accelera l'apprendimento della fotografia e in breve tempo conquista autonomia espressiva; alla fine del 1924 un'esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato. Fra il 1925 e il 1926, in tempi brevi e diversi, tornano a San Francisco, dove Tina incontra la madre ammalata, conosce la fotografa Dorothea Lange, acquista una camera Graflex. Rientrati in Messico intraprendono un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali a raccogliere immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars. Il loro legame affettivo si deteriora e Weston torna definitivamente in California; i contatti continueranno per alcuni anni in forma epistolare. Tina vive con la fotografia ed esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato "Manos fuera de Nicaragua" e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern...”

(Articolo completo in www.comitatotinamodotti.it)

Tina Modotti, fotografa, modella, attrice e attivista italiana (nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942)

 

Una frase al giorno

“La lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette.”

(Da “Aspettando Godot” di Samuel Beckett. Samuel Barclay Beckett, nato a Dublino, 13 aprile 1906, morto a Parigi, 22 dicembre 1989, è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese. Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo”).

5 gennaio 1953: “Aspettando Godot” di Samuel Beckett viene eseguita per la prima volta. “Dramma associato al cosiddetto teatro dell'assurdo e costruito intorno alla condizione dell'attesa, Aspettando Godot venne scritto verso la fine degli anni quaranta e pubblicato in lingua francese nel 1952, cioè dopo la seconda guerra mondiale, in un'epoca post-atomica. La prima rappresentazione si tenne a Parigi nel 1953 al Théâtre de Babylone sotto la regia di Roger Blin, che per l'occasione rivestì anche il ruolo di Pozzo. Nel 1954, Beckett - autore irlandese di nascita - tradusse l'opera in inglese”.

(Wikipedia)

“Aspettando Godot è senza dubbio la più celebre opera teatrale di Samuel Beckett nonché uno dei testi più noti del teatro del Novecento. Parlarne, dunque, è molto difficile. Pressoché impossibile dire qualcosa di nuovo, considerata la quantità di pagine critiche che sono già state prodotte intorno a questa opera. Non resta quindi che tracciare una sintesi critica, consapevoli che non si innoverà il corpus interpretativo già esistente, ma con la speranza, almeno, di mettere in guardia contro le più facili (e spesso erronee) chiavi di lettura. Se chiedete ad una persona digiuna di teatro che cosa è Aspettando Godot è molto probabile che otteniate comunque una qualche risposta. Vi verrà detto che è la storia di qualcuno che alla fine non arriva. La prima trovata scandalosa del capolavoro beckettiano è questa: il protagonista è assente. Ma si tratta di una trovata, appunto (geniale, però, tanto che anche chi non ama il teatro ricorda questo particolare). Se l’idea fosse stata tutta qui, tuttavia, Aspettando Godot non avrebbe fatto molta strada. La seconda cosa che probabilmente vi dirà questa persona interrogata su Godot è che si tratta di un’opera che fa parte del teatro dell’assurdo. Vero. Ma cosa c’è di così assurdo in Aspettando Godot?”

(www.samuelbeckett.it)

Immagini:

“Aspettando Godot” di Samuel Beckett

 

Un brano musicale al giorno

Marcel Tournier (1879 - 1951), Suite, Op.34 (1928), eseguita da Mirage Quartet


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

INFORMAZIONI

Ugo Brusaporco

e-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
web www.brusaporco.org

 

 

 

 

 

UNA STORIA MODERNA - L'APE REGINA (Italia, 1963), regia di Marco Ferreri. Sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri, Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, da un'idea di Goffredo Parise, atto unico La moglie a cavallo. Fotografia: Ennio Guarnieri. Montaggio: Lionello Massobrio. Musiche: Teo Usuelli. Con: Ugo Tognazzi, Marina Vlady, Walter Giller, Linda Sini, Riccardo Fellini, Gian Luigi Polidoro, Achille Majeroni, Vera Ragazzi, Pietro Trattanelli, Melissa Drake, Sandrino Pinelli, Mario Giussani, Polidor, Elvira Paoloni, Jacqueline Perrier, John Francis Lane, Nino Vingelli, Teo Usuelli, Jussipov Regazzi, Luigi Scavran, Ugo Rossi, Renato Montalbano.

È la prima opera italiana del regista che, sino ad allora, aveva sempre girato in Spagna.

Alfonso, agiato commerciante di automobili, arrivato scapolo ai quarant'anni decide di prender moglie e si consiglia con padre Mariano, un frate domenicano suo vecchio compagno di scuola e amico di famiglia. Il frate gli combina l'incontro con una ragazza, Regina. Bella, giovane, sana, di famiglia borghese e religiosa, illibata, è la moglie ideale. Alfonso non ci pensa due volte: e padre Mariano li sposa. Regina si dimostra subito una ottima padrona di casa, dolce e tenera con il marito; dal quale decide però di voler subito un figlio. Alfonso, premuroso, cerca di accontentarla, ma senza risultati. A poco a poco l'armonia tra i due coniugi si incrina: Regina gli rimprovera di non essere all'altezza della situazione, di venir meno a una sorta di legge biologica; Alfonso comincia a sentire il peso delle continue prestazioni sessuali che gli sono richieste e che a poco a poco logorano il suo equilibrio psicologico e fisico. Preoccupato, al limite della nevrosi, chiede consiglio a padre Mariano, che non si rende conto del suo problema e inorridisce quando l'amico accenna alla possibilità di ricorrere alla Sacra Rota: il desiderio di Regina di avere un figlio ha la benedizione della Chiesa, e più che legittimo, doveroso. Alfonso tenta di sostenersi fisicamente con farmaci, ma diventa sempre più debole. Arriva finalmente il giorno in cui Regina annuncia trionfante e felice di essere incinta: parenti e amici vengono in casa a festeggiare l'avvenimento. Alfonso, ormai ridotto a una larva d'uomo, viene trasferito dalla camera da letto a uno sgabuzzino, dove potrà finalmente restare a godersi in pace gli ultimi giorni di vita. Alfonso muore, mentre Regina, soddisfatta, prepara la culla per il nascituro.

“Particolarmente avversato dalla censura per i contenuti fortemente anticonvenzionali e anticattolici, il film venne condizionato da pesanti tagli alle scene, modifiche ai dialoghi e con l'aggiunta di Una storia moderna: al titolo originario L'ape regina. Anche la colonna sonora non sfuggì all'attenzione dei censori. La scena del carretto che trasporta i resti di una salma, era in origine commentata da una musica troppo simile al rumore di ossa che ballano, troppo tintinnante e, pertanto, ne fu decisa la cancellazione”

(Wikipedia)

“L’ape regina" segna il primo incontro di Tognazzi con Marco Ferreri e lo sceneggiatore Rafael Azcona: incontro fortunato (per Tognazzi forse ancora più determinante di quelli con Salce e Risi), l'inizio di una collaborazione che diventerà, nel corso degli anni, esemplare. Assieme a Salce, Ferreri è il regista che rende più vigoroso e attendibile il nuovo, complesso personaggio incarnato dall'attore, anche questa volta protagonista maschile assoluto di una storia inconsueta. Al suo apparire, prima al festival di Cannes e poi sugli schermi italiani, il film fa scalpore, suscita polemiche e scandalo, supera a fatica le strettoie della censura (che, fra l'altro, fa misteriosamente premettere al titolo "Una storia moderna: "). Il film (che apre a Tognazzi anche il mercato statunitense) è uno dei maggiori successi commerciali delia stagione 1962/63 e procura all'attore il Nastro d'argento (assegnato dal Sindacato dei Giornalisti cinematografici) per il miglior attore protagonista. Ricordando anni dopo “L’ape regina", Tognazzi ne ha così commentato l'importanza: «Il film mi ha consentito di entrare in un mondo cinematografico che amo. Il cinema che avevo fatto fino ad allora si basava su personaggi estremamente popolari, dei film divertenti, facili, che piacevano al pubblico ma che sono, a conti fatti, delle operazioni prefabbricate. In quei film non occorre quasi mai un grande coraggio. [...] Amo il cinema non in se stesso ma in quanta rappresenta la possibilità di raccontare delle storie che riguardano la nostra vita, i nostri problemi: mi piace inserirmi in questi problemi e analizzarli [...]. Sono molto riconoscente a Ferreri di avermi offerto questa possibilità [...] di conoscere, per mezzo del cinema, la vita.”

(Ugo Tognazzi in Ecran 73, Parigi, n. 19, novembre 1973, p. 5)

“[...] Ludi di talamo infiorano anche troppo il nostro cinema comico; e le prime scene de L’ape regina, saltellanti e sguaiate, mettono in sospetto. Accade perché il film sfiora ancora il suo tema, lo tratta con estri bozzettistici. Ma quando coraggiosamente vi dà dentro, mostrandoci l'ape e il fuco appaiati in quell'ambiente palazzeschiano, carico di sensualità e di bigottismo, allora acquista una forza straordinaria, si fa serio, e scende alla conclusione con un rigore e una precipitazione da ricordare certe novelle di Maupassant. [...] Ottima la scelta dei protagonisti, un calibratissimo Tognazzi (che ormai lavora di fino) e una magnifica e feroce Marina Vlady.

(Leo Pestelli, La Stampa, Torino, 25 aprile 1963)

     

“Ape regina, benissimo interpretato da Ugo Tognazzi (che ormai è il controcanto, in nome dell'Italia nordica, di ciò che è Sordi per quella meridionale), appare come un film con qualche difetto (cadute del ritmo narrativo, scene di scarsa efficacia e precisione), ma la sua singolarità infine si impone.”

(Pietro Bianchi, Il Giorno, Milano, 25 aprile 1963)

“Il film è gradevole, per la comicità delle situazioni, il sarcasmo con cui descrive una famiglia clericale romana, tutta fatta di donne. Ferreri ci ha dato un film in cui la sua maturità di artista, esercitata su un innesto fra Zavattini e Berlanga, ha di gran lunga la meglio, per fortuna, sul fustigatore, lievemente snobistico, dei costumi contemporanei. Marina Vlady è molto bella e recita con duttilità; Ugo Tognazzi, in sordina, fa benissimo la parte un po’ grigia dell'uomo medio che ha rinnegato il suo passato di ganimede per avviarsi alla vecchiaia al fianco di una moglie affettuosa, e si trova invece vittima di un matriarcato soffocante.”

(Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, Milano, 25 aprile 1963)

“Gran parte dell'interesse del film deriva dal notevole, asciutto stile della comicità di Ugo Tognazzi e dall'asprezza di Marina Vlady. Tognazzi ha un'aria magnificamente remissiva e angustiata e un bellissimo senso del ritmo che introduce delle osservazioni ad ogni sua azione. Quando scherza con un prete, ad esempio, per rompere un uovo sodo, egli riesce ad essere semi-serio in modo brillante. E quando egli guarda semplicemente la moglie, lui tutto slavato e lei tutta risplendente, nei suoi occhi c'è tutto un mondo di umoristica commozione.”.

(Bosley Crowther, The New York Times, New York, 17 settembre 1963)

Scene Censurate del film su: http://cinecensura.com/sesso/una-storia-moderna-lape-regina/

Altre scene in: https://www.youtube.com/watch?v=Cd1OHF83Io0

https://www.youtube.com/watch?v=IalFqT-7gUs

https://www.youtube.com/watch?v=htJsc_qMkC4

https://www.youtube.com/watch?v=9Tgboxv-OYk

Una poesia al giorno

Noi saremo di Paul Verlaine, Nous serons - Noi saremo [La Bonne Chanson, 1870].

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi

che certo guarderanno male la nostra gioia,

talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta

che la speranza addita, senza badare affatto

che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell'amore isolati come in un bosco nero,

i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,

saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,

non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene

accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,

e inoltre ricoperti di una dura corazza,

sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino

per noi ha stabilito, cammineremo insieme

la mano nella mano, con l'anima infantile

di quelli che si amano in modo puro, vero?

Nous serons

N'est-ce pas? en dépit des sots et des méchants

Qui ne manqueront pas d'envier notre joie,

Nous serons fiers parfois et toujours indulgents

N'est-ce pas? Nous irons, gais et lents, dans la voie

Modeste que nous montre en souriant l'Espoir,

Peu soucieux qu'on nous ignore ou qu'on nous voie.

Isolés dans l'amour ainsi qu'en un bois noir,

Nos deux cœurs, exhalant leur tendresse paisible,

Seront deux rossignols qui chantent dans le soir.

Quant au Monde, qu'il soit envers nous irascible

Ou doux, que nous feront ses gestes? Il peut bien,

S'il veut, nous caresser ou nous prendre pour cible.

Unis par le plus fort et le plus cher lien,

Et d'ailleurs, possédant l'armure adamantine,

Nous sourirons à tous et n'aurons peur de rien.

Sans nous préoccuper de ce que nous destine

Le Sort, nous marcherons pourtant du même pas,

Et la main dans la main, avec l'âme enfantine

De ceux qui s'aiment sans mélange, n'est-ce pas?

Un fatto al giorno

17 giugno 1885: La Statua della Libertà arriva a New York. Duecentoventicinque tonnellate di peso, 46 metri di altezza (piedistallo escluso) e 4 milioni di visite ogni anno. La Statua della Libertà, oggi simbolo di New York, ha una storia costruttiva avventurosa e originale, caratterizzata da trasporti eccezionali e un fundraising senza precedenti. Ripercorriamola insieme con queste foto storiche. Fu uno storico francese, Édouard de Laboulaye, a proporre, nel 1865, l'idea di erigere un monumento per celebrare l'amicizia tra Stati Uniti d'America e Francia, in occasione del primo centenario dell'indipendenza dei primi dal dominio inglese. I francesi avrebbero dovuto provvedere alla statua, gli americani al piedistallo. L'idea fu raccolta da un giovane scultore, Frédéric Auguste Bartholdi, che si ispirò all'immagine della Libertas, la dea romana della libertà, per la sagoma della statua, che avrebbe retto una torcia e una tabula ansata, a rappresentazione della legge. Per la struttura interna, Bartholdi reclutò il celebre ingegnere francese Gustave Eiffel (che tra il 1887 e il 1889 avrebbe presieduto anche alla costruzione dell'omonima Torre) il quale ideò uno scheletro flessibile in acciaio, per consentire alla statua di oscillare in presenza di vento, senza rompersi. A rivestimento della struttura, 300 fogli di rame sagomati e rivettati. Nel 1875 il cantiere fu annunciato al pubblico e presero il via le attività di fundraising. Prima ancora che il progetto venisse finalizzato, Bartholdi realizzò la testa e il braccio destro della statua e li portò in mostra all'Esposizione Centenaria di Philadelphia e all'Esposizione Universale di Parigi, per sponsorizzare la costruzione del monumento. La costruzione vera e propria prese il via a Parigi nel 1877.

(da Focus)

Una frase al giorno

“Marie non era forse né più bella né più appassionata di un'altra; temo di non amare in lei che una creazione del mio spirito e dell'amore che mi aveva fatto sognare.”

(Gustave Flaubert, 1821-1880, scrittore francese)

Un brano al giorno

Marianne Gubri, Arpa celtica, Il Viandante https://www.youtube.com/watch?v=_URmUFpa52k