Le due facce del servizio.
Servizio universale o di mercato? Se parliamo di treni, un pendolare di lungo corso saprà certamente comprendere al volo cosa si nasconde dietro a questa domanda. Perché negli ultimi anni, discutendo di problemi di trasporto ferroviario, si è fatto spesso ricorso a questa distinzione, tanto fondamentale quanto ancora oggi ben poco conosciuta o compresa dalla maggior parte degli italiani.
Partendo da questo presupposto, nella seconda puntata della nostra rubrica proviamo a suggerire qualche approfondimento su un argomento che comunque interessa tutti i cittadini. Almeno quelli che pagano le tasse.
Innanzitutto una precisazione. A differenza di quanto avveniva ai tempi della vecchia Azienda Autonoma Ferrovie dello Stato, trasformata nel 1985 in ente pubblico e nel 1992 in società per azioni, il trasporto ferroviario non è più considerato un servizio globale pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti. Per questo motivo, nel rispetto di direttive europee e di leggi nazionali dirette a sostituire i regimi di monopolio con il principio della concorrenza, si è via via reso necessario distinguere i diversi tipi di servizio, separando quelli di interesse pubblico (servizio universale) da quelli a mercato.
Si definisce servizio universale quello che deve essere necessariamente fornito, indipendentemente da ogni motivo di carattere economico, perché considerato utile per la collettività. E per questo richiede quindi il sostegno finanziario della mano pubblica. Questa classificazione vale anche in altri campi: a livello europeo esistono ad esempio leggi con obblighi di servizio universale nell'erogazione di energia elettrica e nel settore delle telecomunicazioni, tradotte nei diversi ordinamenti nazionali.
Parlando di ferrovie, rientrano ad esempio nella categoria i servizi di trasporto regionale o i tanto discussi collegamenti “notte” fra il Sud e il Nord Italia, così come anche i bus extraurbani e le altre ferrovie secondarie. Servizi che non potrebbero essere redditizi per le imprese a causa degli alti costi di gestione e dei bassi ricavi dovuti ai prezzi necessariamente contenuti dei biglietti. Quale impresa sarebbe disposta a garantire un servizio sapendo già in partenza che è in perdita?
Ecco quindi perché le singole Regioni (dal 2001), delegate dallo Stato, iniziano a stipulare contratti di servizio con i quali si impegnano in primo luogo a pagare a Trenitalia (per citare il più grande operatore italiano) contributi commisurati alla quantità dei servizi richiesti. Mentre lo Stato stesso contrattualizza i propri contributi per i servizi di lunga percorrenza ritenuti di pubblica utilità.
Che cosa deriva da tutto ciò? Che quando paghiamo un biglietto o un abbonamento per una tratta ferroviaria regionale la parte mancante di quello che sarebbe il costo reale del nostro viaggio viene contemporaneamente pagata dalla regione. In media i ricavi da traffico (biglietti) coprono infatti circa un terzo del costo complessivo del servizio che, per essere garantito, deve ricevere la copertura “pubblica” degli altri due terzi. Se però la Regione o lo Stato, come accade per i già ricordati treni notte, non hanno sufficienti risorse (capita di questi tempi…), è evidente che le ripercussioni sul servizio si fanno sentire con i famigerati “tagli” dei treni per i pendolari di cui periodicamente si occupano i media.
Dal lato opposto, ci sono poi i cosiddetti servizi a mercato. Che nel nostro caso si traducono sempre in treni e sempre di Trenitalia (dal 28 aprile scorso anche della concorrente Ntv), però veloci, comodi e ricchi di attenzioni e coccole per i clienti. Il motivo per cui i vari Frecciarossa e Frecciargento possono funzionare così è molto semplice: per quei servizi Trenitalia non prende soldi dallo stato ma investe in proprio, accollandosi il rischio d’impresa. E questo perché le Frecce FS si ripagano da sole attraverso la vendita dei biglietti, che non hanno prezzi calmierati ma, appunto, di mercato.
La realtà che fa innervosire il pendolare (“noi clienti di serie B, da terzo mondo, loro a 300 all’ora su nuove linee”) è proprio questa: per i servizi a mercato l’impresa offre servizi di qualità a prezzi liberi, investendo le proprie risorse su tratte molto pregiate dal punto di vista della domanda di trasporto. Come avviene in tutto il mondo.
Da manuale è il caso del Frecciarossa che, appena un anno dopo il lancio dell’Alta Velocità, aveva sottratto circa 2000 passeggeri al trasporto aereo sulla Roma-Milano. E da manuale, di conseguenza, è anche il motivo per cui i privati (Montezemolo-Della Valle-Punzo con la loro Ntv, oggi) investono proprio su questi appetibili servizi e non certo sul trasporto regionale.
Che l’Italia abbia recuperato posizioni importanti in Europa grazie alla sua rete AV è sotto gli occhi di tutti. Lo scorso anno, secondo le Ferrovie dello Stato Italiane, 25 milioni di viaggiatori - il 20% in più rispetto al 2010 - hanno scelto l’Alta Velocità per spostarsi sull’asse Torino-Milano-Roma-Napoli-Salerno o per raggiungere velocemente Venezia dal centro-sud. L’AV, piaccia o no, serve molto agli italiani e al Paese, e questi risultati confermano le premesse e le promesse del progetto iniziale, anche se da molte parti si lamenta l’esclusione del Mezzogiorno da questi servizi.
Superati i dubbi e le difficoltà dell’avvio, l’AV italiana è ormai da tutti considerata una conquista e un vantaggio che ci fanno sentire molto più in linea con l’Europa. La speranza è che prima o poi simili risultati di efficienza, pur nei diversi scenari legislativi di fondo, possano estendersi al servizio universale, per far viaggiare meglio quei quasi due milioni di pendolari che ogni giorno si muovono in Italia. O per attirarne altri ancora, facendoli scendere dalle auto, con tutti i vantaggi che ne deriverebbero per l’ambiente e la sicurezza.
Per realizzare questi sogni, neanche a dirlo, ci vorrebbero più soldi, più investimenti, ma probabilmente anche nuove formule di gestione del trasporto locale. Magari risulterebbe utile anche tornare a proporre proprio quelle gare per l’assegnazione dei servizi, inutilmente previste da più di dieci anni, pensate per introdurre principi di concorrenza e quindi per raggiungere risultati di qualità anche in questo settore.
Il dibattito è molto complesso e vede in campo opinioni non sempre allineate. Su un dato di fatto, comunque, sembrano tutti d’accordo. Per migliorare il trasporto regionale, in ferrovia, sarebbero sicuramente fondamentali due interventi pubblici: l’aumento dei contributi agli operatori e gli investimenti in materiale rotabile. Per quanto riguarda il primo caso, va detto che nel nostro Paese il corrispettivo unitario riconosciuto dallo stato a Trenitalia è di 8,2 centesimi di euro per passeggero-km, importo che è inferiore del 68 per cento al dato francese (13,8) e del 44 per cento a quello tedesco (11,8). Francia e Germania, inoltre, non finanziano solo le infrastrutture di trasporto (cioè le linee), come accade in Italia, ma investono anche per acquistare nuovi treni.
Le differenze sono evidenti e fanno capire chiaramente che senza adeguati finanziamenti, come fanno Francia e Germania, gli operatori non potranno mai disporre di sufficienti risorse per soddisfare le legittime richieste di efficienza e qualità degli italiani. Un segnale positivo nel potenziamento della flotta è comunque arrivato ad aprile da Trenitalia, che ha reso noto di aver iniziato la consegna dei nuovi treni commissionati nel 2009, annunciando nel contempo un investimento (a totale proprio rischio di impresa) di 1,25 miliardi di euro per l’acquisto di altri convogli per pendolari.
Universale o di mercato?
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