“L’amico del popolo”, 1 aprile 2018

L'amico del popolo
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L’amico del popolo”, spazio politico di idee libere, di arte e di spettacolo. Anno II. La rubrica ospita il giornale quotidiano dell’amico veronese Ugo Brusaporco, destinato a coloro che hanno a cuore la cultura. Un po’ per celia e un po’ per non morir...

Un film al giorno

NOSTOS - IL RITORNO (Italia, 1989) scritto, diretto, fotografato, montato e sonorizzato da Franco Piavoli. Musica: Luca Tessadrelli, Giuseppe Mazzuca. Con: Luigi Mezzanotte, Branca De Camargo, Paola Agosti, Giuseppe Marcoli, Alex Carozzo, Mariella Fabbris.

Alla fine della guerra, Nostos, eroe errante, con i compagni inizia il suo viaggio di ritorno in patria nelle acque del Mediterraneo. Ma vari motivi ritardano la conclusione della sua avventura: ostacoli naturali, ricordi evanescenti della sua infanzia, dei suoi genitori, dell'amore per una bellissima fanciulla, la nostalgia per il passato. Il rimpianto per ciò che non ha fatto, il silenzio profondo che tutto avvolge, la solitudine più terribile in seguito ad un naufragio in cui tutti i compagni periscono e in cui lui stesso rischia di morire. La natura nei suoi meravigliosi aspetti (il mare, gli scogli, l'acqua che zampilla pura ed invitante dalle rocce, gli animali nella loro semplicità di vita, le montagne maestose, i fiori e le piante nella loro incomparabile bellezza) sembra accogliere l'errante tormentato come una madre premurosa. Alla fine riesce fortunosamente a giungere in prossimità della sua casa, dei suoi affetti e delle cose che gli sono familiari.

“Franco Piavoli è un artigiano. Di quelli che immaginiamo ricurvi per ore a perfezionare i dettagli del proprio manufatto. Di quelli che, grazie alla perfetta padronanza dei propri strumenti di lavoro e ad un sentire poetico innato di matrice naturalistica, riescono a produrre opere che vanno a toccare le corde più profonde della nostra sensibilità. Piavoli, però, non ha scelto il legno o la creta per esprimere la sua creatività, ha scelto il cinema riuscendo a piegare questo mezzo alle sue esigenze espressive, senza per questo tradire il suo personale approccio artigianale. Ne esce un cinema carico di una poetica primaria (nel senso che è espressione diretta della fascinazione naturalistica) ed estremamente riconoscibile, caratteristica questa, imprescindibile per un lavoro di matrice artigianale.

In questo suo secondo lungometraggio, come nel precedente, maneggia tutte le leve del processo creativo: scrive, dirige, fotografa, monta, produce. Sposta, però, l'oggetto del suo guardare. Se nel precedente Pianeta Azzurro la natura era al centro della narrazione (con la fascinazione per l'alternarsi delle stagioni) e l'uomo non era che elemento secondario, qui il discorso è ribaltato: il centro dell'attenzione è l'uomo (uno straordinario Luigi Mezzanotte) che, nel suo errare (il film ripercorre il viaggio omerico di Ulisse) riflette i temi cardine della vita di tutti gli uomini: la nostalgia per l'infanzia perduta, il confronto con la sofferenza (l'atrocità della guerra), il rapporto con la madre, l'incontro con l'amore che rapisce ed estrania, che non può che tenerci (isola)ti, ed infine il ritorno a casa.
Tutto questo è narrato, naturalmente, alla sua maniera: privilegiando, cioè, la forza simbolica delle immagini. I dialoghi sono pochissimi e sono espressi in una lingua che non esiste, scaturita dalla fusione di lingue arcaiche, greco soprattutto. In pratica la voce non è altro che un elemento musicale per armonizzare il “suono” dell'uomo all'interno dei suoni della natura. La natura, di nuovo, benché "comprimaria", è ancora una volta strabordante: esce fuori da ogni immagine, è l'elemento centrale di ogni simbolismo espresso (la madre è una caverna, la luna è un ovulo verso il quale nuota lo spermatozoo Nostos).”

(www.sentieriselvaggi.it)

“Non si sa davvero cosa ammirare di più, se la scansione visiva con quegli acronici accostamenti di acque, terre, fiori, animali, verde di prati e boschi, giallo di maggesi, tremolar di marine e corrusche sospensioni celesti, o il discorso sonoro e musicale, idiomatici miscugli di tempi antichissimi mediterranei o sanscriti, vibratilità di rumori, gemiti, canti, sciacquii, gracidii, campanacci, contrappunti sapientemente bilanciati ora con una bellezza che si accompagna alla sfondo sonoro ora con una musicalità' struggente che incorpora e piega ai suoi sensi anche la concretezza delle immagini”.

(Alberto Pesce, La Rivista del Cinematografo)

“Film anomalo e non etichettabile (come il precedente "Il pianeta azzurro") del cineasta indipendente Franco Piavoli. I riferimenti mitologici alla figura di Ulisse sono evidenti, ma protagonista assoluta è la Natura.”

(www.filmtv.it)

“Io, Nezhualcóyotl, chiedo: È forse vero che si vive con le radici nella terra? Non per sempre nella terra: Soltanto un po’ qui, Seppure sia di giada si spezza, Seppure sia d’oro si rompe, Seppure sia di piume di quetzal si lacera. Non per sempre nella terra: Soltanto un po’ qui desideravo che i cerchi non finissero, non finissero mai, consapevole, tuttavia, che ogni pietra è momentanea, ogni minuto fugace, ogni gioia passeggera, e che poi non rimane memoria sull’acqua.”

(Manuel Scorza, La danza immobile)

C’è un “cinema segreto”. Un “pianeta azzurro” del cinema italiano che obbedisce solo a ritmi ed avvicendamenti primordiali, che sgorga dal profondo delle cose e vi si mimetizza, vi scava, negli anni, una nicchia e vi si chiude, forse, per sempre, remota testimonianza di un’altra civiltà, microscopica, microcosmica, come un fossile del paleolitico. Non è una riserva, né un’area protetta cui si possa accedere in visite guidate. È, piuttosto, una costa barbara, selvaggia, preda degli elementi, acqua, fuoco, aria e terra, lussureggiante e pluviale, dove tutto si confonde nell’insieme, ma dove ogni parte, presa a sé, risulta inconfondibile e diversa dal tutto. Basta saper guardare. Ed è un cinema delle viscere, incontaminato ed innocente che, spesso, non conosce verbo, ma soltanto suono o gesto o delirio, ed il cui intimo ordine si misura unicamente sul divenire lento, impassibile, delle odissee umane, delle fasi lunari, delle stagioni atmosferiche. Fuori da ogni catalogazione preconcetta, da ogni possibilità di giudizio, se non etologico, in qualche modo al di là del bene e del male, del bello e del brutto. Nei confronti del quale si può assumere soltanto, in effetti, un’etica, un “costume”: quelli del collezionista di farfalle, dell’entomologo, del cercatore d’oro, dell’esploratore polare, di chi fruga nei recessi del sottosuolo, incurante di polvere e detriti, per cavarne ossa preistoriche o sarcofaghi egizi. Perché è da qui, da questo ventre amazzonico, incivile ed incolto, ostile ed ostico, scomodo e scontroso, che prendono forma opere tanto diverse tra loro, quanto accomunate dallo stesso spirito forastico, animate dalle stesse urla di ribellione, trapassate dagli stessi silenzi di pànica meditazione, come L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, deambulante calvario documentale di un povero Cristo condotto al Golgota attraverso una serie infinita di esasperanti stazioni metropolitane ed infine crocifisso ai legni del proprio stesso astratto furore sociale; o La parola segreta di Stelio Fiorenza, figura allegorica delle circolarità esistenziale, dove fughe, tradimenti, esseri braccati e persecutori, coro e protagonisti, scambiano, nel rondò continuo delle vite parallele di ognuno e della Storia, i propri ruoli e le proprie mansioni, senza soluzione di continuità. Ma, soprattutto, ed innanzitutto, come Nostos/il ritorno di Franco Piavoli, sul quale il lettore ci scuserà di essere approdati solo ora, a causa di un proemio che ritenevamo doveroso, per riuscire ad avvicinarsi all’ “oggetto” partendo, come lo stesso Piavoli c’insegna, dalle sue fonde radici. Egli può essere considerato, infatti, a ragione, il poeta massimo, ed il mèntore più intransigente, di quel cinema, il primo interlocutore dell’etica. Il suo universo creativo è davvero (e non soltanto per semplice e, d’altronde, premeditata omonimia con il titolo del film che l’ha visto esordire), quel ‘pianeta azzurro’ dove esistono e pulsano solo le leggi della natura (animale, vegetale, mistica), dove ogni evento ha cadenza, e memoria, millenaria e da nient’altro che dalla propria entità più intrinseca, da ciò che è e basta, trae l’ineffabile e ardua attitudine a trasfigurarsi in qualcosa di cosmico, di metafisico: il senso del tempo, delle cose, dell’esistenza, dell’appartenenza ad un’armonia inappellabile eppure immanente, benché inconoscibile. È davvero quel “segreto” che bisogna portare alla luce, gelosamente conservato in qualche cuore di tenebra o, al contrario, generosamente sparso a piene mani sopra campagne, fiumi, mari, illuminati dai raggi del sole. Egli lo persegue in ogni fotogramma, in ogni scena, in ogni sequenza, con la pervicacia e l’afflato del narratore di poemi, del cantore omerico. Come loro, racconta le medesime avventure della carne e dell’anima, le medesime traversie dell’uomo, i medesimi interventi, benefici o avversi, del Cielo, nelle sue attività quotidiane, nei suoi gesti sempre uguali, antichi, secolari. Come loro, racconta miti e nascite, o inarrestabili tramonti, di culture, di nazioni della coscienza. Era quasi inevitabile, quindi, che tale itinerario lo conducesse ai lidi salmastri dell’Eroe classico.

La danza immobile
Così s’annuncia Nostos: una barca alla deriva, con la chiglia mollemente carezzata dalle onde schiumose e la vela appena mossa da un leggero alito di vento. I suoi passeggeri, adagiati sul fondo, le membra inerti, dormono. In un angolo una schiera di argentei elmi, emblemi di guerra, riverberano sinistramente. A tale, inequivocabile, principio (il “campione” che torna) - Ulisse e i suoi compagni? Giasone e gli Argonauti? O ancora altri guerrieri provenienti da altre latitudini e saccheggi? - dopo aver compiuto l’impresa), si sovrappone l’immagine di un cerchio che rotola giù dal declivio d’una collina, rincorso da un fanciullo e, subito, fagocitato dentro l’enorme ed infuocato globo solare. Un sogno? Una visione? Un ricordo? Un presentimento? Cerchio e fanciullo, gioco ed infanzia, scandiranno, ad intervalli regolari come battute di un solfeggio, l’intero movimento del film, donandogli il suo equilibrio, la sua misura ideale, suprema. Forma ed incanto, linea ed evocazione, geometria e chimera, riconducibili appunto a quelle due componenti iniziali, rappresentano la strumentazione essenziale attraverso cui Piavoli orchestra e regola il proprio materiale visivo e sonoro. La forma, la linea, la geometria delle stratificazioni geologiche negli abissi di una caverna, si tramutano nelle voci di una sibilla maternale arbitra del Fato; quelle di un grande albero frondoso, nel miraggio d’aver rivelata la via per il ritorno in Patria; quelle, ancora, dell’acqua che scolpisce la superficie marina d’increspature dorate o di trasparenti, dolci, volute, nell’incantesimo di un paradiso terrestre dove regna l’oblio; quelle del trapezio finale attraverso la cui volta “Nostos” dovrà passare, per riemergere dal proprio mitico viaggio, nell’illusione d’essere arrivato; ed infine quelle, architettoniche, della Casa, nella rievocazione di un tempo immobile ed immutabile entro cui i vecchi genitori attendono il figlio seduti sulla soglia. Ma persino la geometria delle parole diventa suono informe, musicalità senza alcun significato logico se non quello di trasmettere emozioni, sentimenti, passioni. Perché Nostos stesso, probabilmente, è (anche) un’immensa metafora, un simbolo (quindi una favola, un incanto, un’evocazione, una chimera) delle odissee umane regolate dalle fasi lunari e dalle stagioni atmosferiche. E l’Eroe non è Ulisse, né Giasone, né altri, ma soltanto il fluire degli stati naturali, l’avvicendarsi degli affetti, dei desideri e dei bisogni elementari, come, appunto, “l’andare errando”, il conquistare nuove frontiere, nuovi orizzonti, portando anche, spesso, morte e distruzione, il mantenere, comunque e contro lo stesso anelito all’ “andar vagando”, saldi legami con i luoghi e le persone della propria storia e del proprio passato. In realtà, è tutto il cinema di Piavoli a farsi “creato”, memoria, poesia epica del “creato”: per lui è più importante uno stormire di fronde, un cangiare repentino di colori, una tonalità della terra, un insetto mimetizzato tra fitti steli d’erba. Egli sa mutare tali piccoli fatti nella Storia, sa vedere anche là dove nessuno troverebbe niente d’interessante da vedere e registrare. Il suo è cinema ‘degli elementi’, terrigno eppure spirituale, panteista eppure soprannaturale, elementare, appunto, eppure filosofico, ed è cinema di elementi primari, quelli che compongono il globo terrestre, ma anche le galassie, così come l’animo umano. Tutto insieme, regolato come una danza, più popolare e più diretta di una sinfonia (cui Piavoli ama richiamarsi), la danza (apparentemente) immobile della Natura, dove «Seppure sia di giada si spezza, / Seppure sia d’oro si rompe, / Seppure sia di piume di quetzal si lacera» e dove «ogni pietra è momentanea, ogni minuto fugace, ogni gioia passeggera», la Natura consapevole che, poi, non rimarrà memoria sull’acqua. C’è da sperare che Nostos non rimanga inascoltato, c’è da sperare che la sua lezione socratica riesca ad instaurare il regno dell’etica, contro quello della “ragion pura”, del puro giudizio e dell’ecumenismo. Che il “pianeta azzurro”, che il “cinema segreto”, vengano finalmente scoperti e strappati al ruolo di pura e remota testimonianza fossile di un’altra civiltà”.

(Claver Salizzato, Cineforum n. 293, aprile 1990)

 

Una poesia al giorno

L'étoile, di Edmond Eugène Alexis Rostand (Marsiglia, 1º aprile 1868 - Parigi, 2 dicembre 1918, poeta e drammaturgo francese, celebre soprattutto per aver scritto l'opera teatrale Cyrano de Bergerac).

Ils perdirent l'Etoile, un soir; pourquoi perd-on
L'Etoile? Pour l'avoir parfois trop regardée.
Les deux rois blancs étant des savants de Chaldée,
Tracèrent sur le sol des cercles au bâton.

Ils firent des calculs, grattèrent leur menton.
Mais l'étoile avait fui, comme fuit une idée.
Et ces hommes dont l'âme eut soif d'être guidée
Pleurèrent, en dressant des tentes de coton.

Mais le pauvre Roi noir, méprisé des deux autres
Se dit: "Pensons aux soifs qui ne sont pas les nôtres,
Il faut donner quand même à boire aux animaux. "

Et, tandis qu'il tenait son seau par son anse,
Dans l'humble rond de ciel où buvaient les chameaux
Il vit l'Etoile d'or, qui dansait en silence.

La stella

Perdettero la stella un giorno.
Come si fa a perdere la stella?
Per averla troppo a lungo fissata...
I due re bianchi, ch’erano due sapienti di Caldea,
tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.

Si misero a calcolare, si grattarono il mento...
Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
e quegli uomini, la cui anima
aveva sete di essere guidata,
piansero innalzando le tende di cotone.

Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri, si disse:
"Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali".

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
nello specchio di cielo
in cui bevevano i cammelli
egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

 

Edmond Rostand, poeta francese, nacque a Marsiglia il 1° aprile 1868, morì a Parigi il 2 dicembre 1918. Dopo un primo volume di versi, Les Musardises (1890), salì le scene con una commedia in versi, Les Romanesques (1894), d'intonazione mussettiana, che piacque molto. Seguì La Princesse lointaine (1895), in cui riprese, complicandone con studiato artificio la vicenda, il noto tema di Jaufré Rudel. Ne La Samaritaine (1897) non esitò a svolgere, con profano e dilettantesco estetismo, il tema evangelico dell'incontro di Gesù con la Samaritana. Immenso successo ebbe l'anno seguente Cyrano de Bergerac (1898), "commedia eroica" in cinque atti, che fu rappresentata dai più celebri attori di tutto il mondo. Seguì, interpretato da Sarah Bernhardt, e poi da molte attrici europee, l'Aiglon (1900), dramma in sei atti, che si propone d'esprimere tragicamente la figura dell'"aquilotto", il duca di Reichstadt, figlio di Napoleone I e di Maria Teresa. Minore successo ebbe la favola scenica di Chantecler (1910), i cui personaggi sono tutti animali di cortile. Opera postuma fu La dernière nuit de don Juan (1921). Nel 1901, il R. fu chiamato a far parte dell'Académie française.
Tutte le opere del R. sono in versi; ma, meglio che un poeta, il R. (il quale componeva con grande stento) è un verseggiatore acrobatico, sul gusto di certe poesie di V. Hugo giovine e di Th. de Banville. Intimamente arido e frigido, e senza vera personalità, il R. ha dato il suo miglior lavoro nel Cyrano, dove è riuscito a presentare un romantico tipo di eroe guascone e popolare, originario dei romanzi di Dumas padre, con vernice preziosa e brillante, grazie all'ambiente e allo stile secentesco, che in questo caso si prestavano singolarmente a giustificare le sue virtuosità metriche e dialogiche.”

(Silvio D'Amico - Enciclopedia Italiana, 1936)

 

Un fatto al giorno

1° aprile 1955: La ribellione dell'EOKA contro l'impero britannico inizia a Cipro, con l'obiettivo di unificarsi con la Grecia. L'EOKA (greco Εθνική Οργάνωσις Κυπρίων Αγωνιστών, Ethniki Organosis Kyprion Agoniston, "Organizzazione Nazionale dei Combattenti Ciprioti") è stata un'organizzazione paramilitare anticomunista e filo-greca che combatté per metter fine alla presenza coloniale britannica a Cipro, per l'autodeterminazione della componente maggioritaria greca dei ciprioti e per l'Enosis (Unione) dell'isola alla Grecia, considerata madrepatria.
Fu attiva dal 1955 al 1959. Il suo fondatore e capo fu l'alto ufficiale greco Georgios Grivas. Durante i quattro anni di attività armata, essa impiegò metodi di guerriglia, specialmente contro la comunità turco-cipriota e la sua organizzazione, chiamata Movimento di Resistenza Turco, MRT (in lingua turca Türk Mukavemet Teşkilatı, TMT), che le si contrapponeva. L'EOKA fu sciolta nel marzo del 1959.

Il 5 novembre 1914, la Gran Bretagna annetté l'isola di Cipro, che amministrava col consenso dell'Impero ottomano dal 1878. Presto i greco-ciprioti pretesero l'unione di Cipro alla Grecia e il contenzioso tra quest'ultima e la Turchia (una minoranza turca era presente a Cipro dal XVI secolo) si accrebbe vistosamente e assunse una dimensione internazionale nel 1954 quando la Grecia presentò alle Nazioni Unite una mozione in cui chiedeva l'autodeterminazione di Cipro che, inevitabilmente, avrebbe leso i diritti secolari della comunità turca, visto l'acceso sentimento nazionalistico greco, fortemente ostile alla comunità turca, anch'essa caratterizzata da un acceso sentimento nazionalistico di stampo kemalista. Prese avvio da allora un sanguinoso conflitto interetnico.Nel 1955, l'EOKA aumentò le sue azioni violente contro i britannici e i turco-ciprioti, considerati tra l'altro collusi con la potenza coloniale.
Nel 1959 Cipro fu trasformata in repubblica presidenziale indipendente nell'ambito del Commonwealth, con un presidente identificato nella figura dell'arcivescovo greco-cipriota Makarios e un vicepresidente turco-cipriota, il dott. Fazil Kuçuk. Ma le tensioni intercomunitarie non cessarono, malgrado la presenza dei Caschi blu dell'ONU.
Nel 1971, l'ormai generale Georgios Grivas, antico leader militare della lotta per l'indipendenza dell'isola e fondatore dell'EOKA, creò l'EOKA B, una nuova organizzazione paramilitare, che si proponeva il medesimo fine dell'Enosis.
Essa partecipò al colpo di Stato guidato dalla Guardia Nazionale Cipriota, composta da elementi greci, favorevole a replicare quanto avvenuto in Grecia (dove il potere era stato assunto dai militari, che avevano avviato il cosiddetto regime dei colonnelli) e il 15 luglio 1974 rovesciò Makarios, fedele al Trattato di Zurigo e Londra che avrebbe dovuto garantire l'equilibrata indipendenza dell'isola. Come reazione, e in base al disposto di quel Trattato, l'esercito turco intervenne con quella che fu denominata in codice "Operazione Atilla", al termine della quale una parte più ampia di quella logicamente spettante ai turco-ciprioti, fu incamerata come Repubblica Turca di Cipro Nord, formalizzata solo nel 1983, che ottenne però il solo riconoscimento della Turchia”.
(Wikipedia)

Immagini:

 

Una frase al giorno

“La musica è abbastanza per una vita, ma una vita non è abbastanza per la musica.”

(Sergej Vasilevic Rachmaninov, Tenuta di Semenovo, 1 aprile 1873 - Beverly Hills, 28 marzo 1943, compositore, pianista e direttore d'orchestra russo naturalizzato statunitense)

 

Un brano musicale al giorno

Zephire et Flore”, suite per balletto, di Louis Lully (Parigi, 4 agosto 1664 - 1 aprile 1734)

Louis Lully fu un musicista francese e il figlio maggiore di Jean-Baptiste Lully. Quasi diseredato dal padre a causa del suo comportamento dissoluto, Louis non ebbe la brillante carriera prevista per lui, non solo per il suo comportamento ma anche per la sua mancanza di talento. Il successo che ebbe come compositore d'opera fu principalmente legato a lavori scritti in collaborazione con altri. Ad esempio, ha collaborato con suo fratello Jean-Louis e con Pierre Vignon su Zéphire et Flore (balletto, 1688), e con Marin Marais su Alcide (tragedia lirica, 1693). L'unica opera da lui composta, Orphée (tragedia lirica, 1690), non ebbe successo, anche se gli storici la ritengono importante per la preminenza data in essa al recitativo accompagnato.”

(Wikipedia)


Ugo Brusaporco
Ugo Brusaporco

Laureato all’Università di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, corso di laurea Dams. E’ stato aiuto regista per documentari storici e autore di alcuni video e film. E’ direttore artistico dello storico Cine Club Verona. Collabora con i quotidiani L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Brescia Oggi, e lo svizzero La Regione Ticino. Scrive di cinema sul settimanale La Turia di Valencia (Spagna), e su Quaderni di Cinema Sud e Cinema Società. Responsabile e ideatore di alcuni Festival sul cinema. Nel 1991 fonda e dirige il Garda Film Festival, nel 1994 Le Arti al Cinema, nel 1995 il San Giò Video Festival. Ha tenuto lezioni sul cinema sperimentale alle Università di Verona e di Padova. È stato in Giuria al Festival di Locarno, in Svizzera, e di Lleida, in Spagna. Ha fondato un premio Internazionale, il Boccalino, al Festival di Locarno, uno, il Bisato d’Oro, alla Mostra di Venezia, e il prestigioso Giuseppe Becce Award al Festival di Berlino.

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Ugo Brusaporco

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